MONDO

Una creazione collettiva

Reinventare lo sciopero: pratiche e sfide dell’8 marzo in Argentina

Lo sciopero internazionale delle donne dell’8 di marzo è stato costruito, discusso, dibattuto in molteplici spazi. Lo sciopero dello scorso 19 ottobre ha immesso nel dibattito pubblico la riflessione su un senso nuovo da dare allo strumento stesso dello sciopero: non più uso esclusivo dei sindacati, ma pratica da riconfigurare, riconcettualizzare e riutilizzare per quelle forme di vita e di lavoro che non possono essere contenute nei limiti delle forme classiche del sindacato. Che significa fare dello sciopero una pratica adatta per le lavoratrici informali e le cooperativiste? Como possono scioperare quelle donne che si dedicano a mansioni domestiche e di cura che sembrano non avere possibilità di pausa alcuna? Come i sindacati possono sentirsi al tempo stesso sfidati e rivitalizzati da questa chiamata in causa da parte del movimento delle donne? Perché lo sciopero è una misura che ha a che vedere con il rifiuto dello sfruttamento del nostro tempo nelle sue molteplici forme? Come può diventare, lo sciopero, una modalità di politicizzazione delle forme della precarietà?

Durante l’avvicinamento a questo 8 marzo queste domande sono state al centro di dibattiti, conversazioni e controversie. Assemblee nei sindacati e nelle commissioni interne, nei quartieri, nelle fabbriche e negli uffici, nei centri di saluti e nei movimenti sociali. E’ in questi spazi attraversati da molte donne che le parole non possono separarsi dai corpi. Dove parlare significa gesticolare, respirare, sudare e sentire che le parole rimbalzano e si incontrano con i corpi delle altre. Contro l’idea che uno sciopero si organizzi solamente in modo virtuale o convocando attraverso reti sociali, la trama dell’assemblea, della sua reiterazione ostinata e su molteplici scale, torna a mettere al centro della scena il lavorio del corpo, del disaccordo permanente, della mappatura a voce viva delle esperienze divergenti e delle dissidenze concrete ed irriducibili. Il modo di condividere uno spazio, di ascoltare pazientemete gli interventi, ed infine di farsi carico di questa tensione pensante senza necessariamente produrre consenso, evidenzia come l’eterogeneità non sia solo una questione discorsiva. Stare riunite in assemblea come modo faticoso di stare con le altre ci impedisce di avere una relazione cinica o passiva con la crudeltà delle violenze machiste che vorrebbero schiaccirci e diventare normalità quotidiana. Ma ci allontana anche dal modo vittimista di subire i tagli che precarizzano le nostre esistenze.

L’assemblea tesse il tempo tra un avvenimento di piazza ed il seguente. Lo abbiamo detto il 19 di ottobre e lo ripetiamo adesso: ampliando e ridefinendo lo strumento dello sciopero stiamo connettendo la violenza femminicida con la trama economica e politica delle nostre vite. Questo fatto torna a rendere lo sciopero uno strumento di rivolta e non di negoziazione. E ci mettono in guardia anche dal suo uso “light” o depoliticizzato, che cerca di svuotare il senso politico dello sciopero e trasformare il movimento delle donne in una bandiera multiuso ma inoffensiva. Lo hanno già tentato con la torsione punitiva rispetto ai femminicidi. Ora vediamo lo stesso procedimento in atto per limitare gli effetti dello sciopero in quanto azione concreta, di blocco, di contestazione e sfida. E’ esattamente la forza dello sciopero come modalità di lotta che attraversa l’ambito lavorativo, politico, economico e della vita dove si costruiscono nuove modalità di connessione a livello internazionale che danno vita a questo femminismo di massa, di piazza, capace di connettere lotte territoriali, rivendicazioni specifiche e desideri di una vita nuova, che si inventa sul bordo tra il dolore e l’abisso allegro della scoperta di una forza comune.

#NosotrasParamos

“Nei differenti luoghi di lavoro che conosco e attraverso – fabbriche, scuole e università – si sta discutendo dello sciopero, e negli spazi di organizzazione delle fabbriche recuperate anche. Noi participeremo alle mobilitazioni della CGT del 7 e scipopereremo l’8. Abbiamo discusso di tutte queste questioni nelle ultime settimane ed è una questione decisiva ottenere che i sindacati convochino lo sciopero generale, piuttosto che mobilitazioni meno efficaci” segnala Gisela Bustos, avvocata della Cooperativa metallurgica 19 di dicembre e parte del movimento nazionale delle Imprese recuperate (MNER).

Fino a che punto il mondo sindacale è disposto a dare spazio a questa risignificazione dello sciopero? Quel che è interessante è il modo in cui questa mobilitazione ha messo in stato di agitazione interna i sindacati. Diverse partecipanti alle assemblee che si svolgono da mesi nella Mutual Sentimiento – da dove è nata l’esigenza di chiedere una presa di parola ai sindacati – non tentennano nel segnalare una questione: per tutte quelle che negli ultimi tempi hanno cominciato ad avere un ruolo all’interno dei sindacati, non vi è contraddizione alcuna tra la militanza sindacale e la militanza nel movimento delle donne. Piuttosto le vivono come una esperienza di confluenza di due esperienze.

“In tutti questi anni abbiamo partecipato agli Incontri delle donne che sono stati molto potenti dal punto di vista pedagogico tanto a livello individuale quanto per l’organizzazione. Oggi in ATE, per esmpio, i consigli interni hanno una delegate sulle questioni di genere. Questo non era mai accaduto, è qualcosa di nuovo. Il fatto che questa realtà sia oggi parte della quotidianità fa sì che le lavoratrici giovani siano oggi parte del movimento delle donne. Noi crediamo che oggi a partire dal femminismo possiamo formare una corrente di opinione dentro le organizzazioni sindacali, trasversale, per differenti settori sindacali. Il fatto che i sindacati si riuniscano per discutere questi temi, come sta avvenendo in queste settimane, è unfatto inedito e storico” dice Clarisa Gambera, segretaria di Acciòn Social della CTA della capitale e parte del gruppo di genere di ATE.

Dal punto di vista dei dirigenti ad alti livelli, la situazione è invece più complicata: nelle riunioni si afferma a voce alta che la legittimità per convocare uno sciopero appartiene solo ai sindacati. La legittimità così espressa assomiglia più ad un limite. Non si tratta di una questione marginale: dall’effettività della convocazione dipende la garanzia effettiva per migliaia di lavoratrici di poter scioperare senza mettere a rischio i loro posti di lavoro.

Matias Cremonte, presidente dell’Associazione degli avvocati del Lavoro, che aderisce allo sciopero, afferma “I lavoratori abbiamo diritto allo sciopero secondo la Costituzione, per cui non è necessario che sia convocato da un sindacato. Ovviamente si tratta di un diritto che si esercita collettivamente, però some lavoratori siamo titolari di un diritto, e non è diritto assoluto dei sindacati quello di proclamarlo. Comunque ricordiamo che lo scorso anno la Corte Suprema abbia preso posizione con una sentenza regressiva affermando che i titolari del diritto a proclamare lo sciopero siano i sindacati. Ovviamente qualunque rappresaglia che un padrone possa mettere in campo contro un lavoratore per avere scioperato deve essere considerata una grave discriminazione, ed esistono strumenti legali con cui difendersi. Ma comunque resta molto importante che i sindacati aderiscano o convochino lo sciopero”.

“Per me i sindacati sono l’organizzazione dei lavoratori e delle lavoratrici e senza alcun dubbio molte di noi donne abbiamo captato il senso di questo sciopero che va oltre la forma sindacale, perchè quando come donne abbiamo annunciato lo sciopero stavamo nominando molte più cose. Questo 8 marzo saranno molte le lavoratrici sindacalizzate che si sentiranno chiamate in causa e scenderanno in piazza. Per i dirigenti sindacali invece si aprono vari interrogativi e dibattiti che non si sono chiusi e questo rende più difficle il rilancio delle parole d’ordine, anche se riescono a mobilitare tutte le centrali sindacali assieme, e questo è un fatto storico molto importante da sottolineare” argomenta Natalia Fontana, segretaria del sindacato Aeronautico, che partecipa sistematicamente alle assemblee. Occorre sottolineare che ci sono settori che pur non svolgendo un lavoro sindacale di genere si siano sentiti chiamati in causa dallo sciopero. Così è accaduto per esempio con il sindacato degli operai dell’olio: un sindacato decisivo che lo scorso anno dopo uno sciopero di 25 giorni ha infranto il limite salariale conquistando un aumento del 36 %. Oggi aderiscono allo sciopero a partire dalla Federazione del complesso industriale Oleaginoso, affermando che “non si possono modificare le relazioni di genere senza cambiare le relazioni di classe, ma nemmeno si possono cambiare le relazioni di classe senza cambiare quelle di genere”.

Assemblea a cielo aperto

L’ultimo mercoledì di febbraio si è svolta un’assemblea sotto l’Obelisco: erano lavoratrici dell’economia popolare. La Confederazione dei lavoratori dell’Economia Popolare (CTEP) ha iniziato a dare vita ad uno spazio di genere dopo losciopero dle 19 ottobre, quando per la prima volta hanno manifestato assieme tutte le donne delle diverse organizzazioni che compongono la nuova esperienza sindacale in formazione. “Ho lo sguardo in alto adesso” dice una migrante boliviana, parte della rete Donne in lotta e abitante di Villa Lugano, che partecipa da alcuni mesi alle riunioni di genere. L’assemblea sotto il sole estivo si percepiva come uno spazio di elaborazione collettiva di ciò che stava accadendo: per questo si mettono in gioco differenti e altre modalità espressive. Il documento letto è stato discusso ed elaborato prendendosi del tempo e riportava alcuni paragrafi del testo di Ni Una Menos riportando anche frasi che sono merse da riunioni e laboratori. Parlando dello sciopero, hanno detto “Questa è una protesta che per noi rappresenta un avviso di incendio, perché in un momento così difficile per il nostro popolo siamo le donne le prime a perdere il lavoro, e che abbiamo difficoltà a portare il pane a casa e a riprodurre la vita”.

Nell’assemblea vi erano diverse donne che avevano paetecipato a diversi movimenti dei disoccupati del 2001. Ma forse ancora più di impatto è la presenza delle nuove generazioni: le figlie delle piquetere. Giovani ragazze che avevano 5 o 7 anni quando le loro madri formavano le assemblee dei disoccupati e che oggi partecipano ai movimenti e alle esperienze dell’economia popolare, e che nei fatti segnalano una continuità con quelle lotte. A differenza di quel ciclo di lotte in cui il protagonismo femminile è stato fortissimo, emerge oggi una politicizzazione che si riconosce esplicitamente femminista.

“Per molte di noi è difficile scioperare” dice Jackie, del movimento dei cartoneros dell’MTE, organizzazione che fa parte della CTEP. “Se lasciamo il lavoro per un giorno, non mangiamo. Ma questa non è una nostra debolezza, serve che lo sciopero possa includerci e diventi più potente. Noi sciopereremo”. Questo è un punto centrale delle rivendicazioni dell’economia popolare, in quanto esigenza di ampliare le immagini stesse che abbiamo dello sciopero. Come è possibile rendere conto di questa molteplicità di realtà che sono alla base di una mappatura del mondo del lavoro in chiave femminista? Come può lo sciopero diventare uno strumento che assume la precarietà come condizione comune?

Lo sciopero come chiave dell’analisi a livello regionale

Lo sciopero è statocostruito in molte lingue e dando spazi a molteplici rivendicazioni. In Paraguay la chiamata allo sciopero assume per molte donne il significato della protesta contro l’avvelenamento delle comunità a cuasa degli agrotossici. In Colombia c’è un dibattito intenso rispetto al ruolo che la “minaccia del gender” ha avuto all’interno della campagna per il No al referendum sugli accordi di pace. In Honduras e Guatemala l’organizzazione dello sciopero è incentratra sulla denuncia dei femminicidi a livello territoriale contro lider comunitari. In Brasile si denuncia l’avanzata della chiesa nelle lotte per l’autonomia dei corpi. Lo sciopero quindi oltrepassa e integra le questioni del lavoro. Non lascia da parte il lavoro, ma lo ridefinisce y lo attualizza, moltiplica la questione del lavoro senza diluire la sua densità storica.

Questo 8 di marzo le mobilitazioni andranno anche al di là delle rivendicazioni specifiche perché il comune dei corpi in piazza ci permette di fermarci per prenderci il tempo di immaginare come vogliamo vivere. Si tratta di un rifiuto concreto e travolgente delle molteplici forme di spoliazione e delle nuove forme di sfruttamento attraverso cui il capitale avanza sulle nostre vite. Ed apre anche una discussione attorno alle forme in cui pensiamo il lavoro di cura, le risorse comuni e le infrastrutture per la riproduzione della vita. Il movimento femminista di massa è una risposta a quelle modalità filantropiche e paternaliste con le quali si cerca di correggere la precarietà, imponendo forme conservatrici e reazionarie di soggettivazione attraverso la paura.

Si tratta di una elaborazione paziente e difficile. Ma queste assemblee che stanno riattivando la quotidianità di molte organizzazioni (sindacali, politiche, educative, culturali etc) stanno producendo nuove immagini della sovranità popolare. Intermittente e fragile però persistente e capace di produrre nuove forme di potere. Ma soprattutto stanno mettendo in pratica ciò che oggi l’alta filosofia si chiede senza sosta: che significa agire in comune quando le condizioni per farlo sono state devastate?

*pubblicato su Pagina 12 e Lobo Suelto. Traduzione di Alioscia Castronovo per Dinamopress