ITALIA

Un orto di mare nella “terra dei fuochi”

Viaggio nella campagna dove si coltivano alternative a tossicità e inquinamento, lottando contro il biocidio in piazza e nei campi

Una bandiera nera sferza l’aria. Sopra vi è disegnata una maschera antigas e la scritta gialla: Stop Biocidio – a difesa della nostra terra. Fa quasi impressione vederla sventolare come la vela di una nave pirata. Non siamo in mare aperto, però, siamo in un orto, un orto di mare come lo chiama Miriam, contadina e attivista nella “Terra dei Fuochi”. Un orto che si estende per circa quattro ettari nel comune di Sant’Anastasia, 30.000 anime nel vesuviano, in provincia di Napoli.

Sant’Anastasia, 07/02/2020 © Veronica Proia

Fa freddo e Miriam si copre con dei maglioni di lana per uscire fuori, sulla veranda, a raccogliere e infilare nelle buste friarielli, arance, noci, confettura di albicocche dell’estate precedente che poi distribuirà tra i clienti. Si tratta per lo più di donne, ma vediamo arrivare anche una coppia attempata e un ragazzo con un casco in mano. Gli acquirenti arrivano festosi, fanno chiasso, smuovono la ghiaia all’ingresso coi piedi pesanti. Circolano tisane e caffè, scambi calorosi di informazioni.

«Il nostro è un orto conviviale», ci spiega Miriam. «La campagna è una forma di società completamente differente. Quello che noi cerchiamo di fare qua, che poi è stata una soluzione di vita perché io sono stata licenziata nel 2015, mio marito l’anno dopo, è dare una risposta alla solitudine della città, all’individualismo con la convivialità, la fantasia, la creatività». Miriam insegnava l’uso di programmi d’ufficio all’equipaggio delle navi di lungo corso, petroliere e carboniere. Enzo è geologo. «Era un lavoro pagato bene ma non ero felice perché quando devi barattare la tua vita con uno stipendio ti rendi conto che la vita è una sola e non è nemmeno così lunga in luoghi come questo».

Sant’Anastasia, 07/02/2020 © Veronica Proia

Si riferisce al “triangolo della morte”, definizione coniata nell’agosto 2004 dalla rivista scientifica “The Lancet Oncology” per indicare l’alta mortalità per cancro della popolazione residente nell’area compresa tra i tre comuni di Acerra, Nola e Marigliano. Un’area, in realtà, che comprende 77 comuni campani, secondo l’Istituto nazionale della sanità (Iss), e meglio identificata come triangolo dei veleni per lo sversamento illegale di rifiuti.

Le forme di resistenza in questo territorio trovano concretezza in progetti come l’orto conviviale messo in piedi da circa due anni da Miriam ed Enzo. «Avevamo quattro ettari di terreno coltivati in passato da mio suocero e poi quasi abbandonati. Quando ci hanno licenziati ci siamo buttati». Dal suocero Miriam ha imparato molto su come si coltiva un orto. La sfemminellatura dei pomodori, per esempio, detta anche cimatura, è il lavoro di potatura della pianta ed è fondamentale per farla fruttificare meglio. «Se vieni d’estate, dove adesso c’è la parte dell’orto invernale, si vedono filari di pomodorino del Piennolo e, accanto, girasoli enormi che usiamo come contrasto alla tuta absoluta, una farfallina arrivata con l’import-export di altre colture. Il girasole attira l’antagonista della farfallina, fiori giganteschi di un giallo intenso che si accompagnano al rosso acceso del pomodoro: una bellezza incredibile». Per loro, piante infestanti come lo stramonio sono considerate flora da accompagnamento.

Sant’Anastasia, 28/07/2018 © Miriam Corongiu

Tutto attorno all’orto c’è il “giardino degli alberi dimenticati”, «una pazzia dal punto di vista economico», ma che risponde alla logica della convivialità ricercata da Miriam ed Enzo. «Abbiamo spiantato gli albicocchi, non erano più produttivi e poi le albicocche non si vendono più. Gli alberi dimenticati, invece, fanno frutti piccoli, che si mangiano con difficoltà, che hanno poca polpa, difficili da sbucciare, frutti che talvolta hanno bisogno dell’ammezzimento, cioè della maturazione a terra». Indica il giuggiolo, il nespolo germanico col suo frutto marrone detto in dialetto napoletano “nespol ca’ curon”, per il tipico sbuffo nella parte inferiore e il dente di cavallo, un tipo di melograno più piccolo e rosa. «Qui abbiamo i meli e i peri cotogni, i cui frutti vanno cotti. Il mercato non vuole più i frutti degli alberi dimenticati perché li considera frutti minori. Sono quei frutti che mangiavano i contadini per sfamarsi mentre il padrone addentava grosse mele succose». Dal punto più centrale dell’orto si può osservare bene la corona di noci frangivento che protegge il campo. Gli alberi creano dei microclimi a terra di grande freschezza e le foglie impediscono la crescita eccessiva di erbacce.

Appena aperta l’azienda, Miriam ed Enzo hanno richiesto la certificazione biologica ma oggi la considerano inutile. «Hai tre anni per provare che stai coltivando biologico. Si paga trecento euro all’anno e un ispettore viene a controllare il registro. Dopo tre anni fanno controlli a campione sul prodotto». Al momento nell’orto c’è un filare di minestra, uno di cappuccio verde, un filare di cavolo. «Quattro ettari non sono poi tanti. Per rispettare i parametri dell’agricoltura biologica devi avvisare e pagare ogni volta che togli un filare e ne metti uno nuovo». Considerando la velocità con cui cambiano coltura non conviene mantenere la certificazione. «Ti buttano dentro questa cosa e la devi fare tu, a loro interessa solo che per tre anni tu utilizzi prodotti biologici. Certo ci sono i manuali – e di quelli Miriam ne ha letti tanti – ma non sono obbligatori da seguire».

L’orto conviviale si basa su un tipo di agricoltura completamente naturale. La presa di posizione della coppia è netta. «L’agricoltura biologica ricalca in tutto e per tutto l’agricoltura industriale solo che sostituisce ai prodotti di derivazione chimica quella di origine batterica. Bisogna lasciare parecchio incolto attorno alle piante perché protegge dai parassiti. Le erbacce creano un muro biologico naturale». La microeconomia dell’orto conviviale è perfettamente sostenibile da un punto di vista economico, anche se non rientra nei parametri dell’agricoltura industriale né in quella biologica.

La sostenibilità economica è data dai progetti continui a cui partecipano Miriam ed Enzo. La coltura del pomodoro del Piennolo, per esempio, rientra in un progetto di economia solidale chiamato La Buona terra, un piano portato avanti da produttori locali, tra cui Miriam, di cui quattro sono trasformatori. La Buona terra produce e trasforma diverse tipologie di pomodori, chi il Piennolo, chi il San Marzano, poi venduti a gruppi di acquisto solidale della Brianza. I prezzi tra produttori e consumatori vengono concordati democraticamente e le scelte economiche si basano su sostenibilità ambientale, ecologica e sociale. Si protegge così l’ambiente e si tutela il lavoro sul campo, spiega Miriam: «Noi riceviamo il 40% di acconto così da avere una mano nella produzione, poi il saldo finale del 60% quando vendiamo il prodotto. C’è una fatturazione ma non c’è rapporto di tipo industriale. È questa la vera fuoriuscita dal mercato agricolo su base industriale e biologica».

Sant’Anastasia, 28/07/2018 © Miriam Corongiu

È venerdì, giorno di apertura dell’orto. Miriam ed Enzo qui cercano di conservare un pezzo di biodiversità, anche umana e culturale. Questa è un’agricoltura per le famiglie. «Ogni settimana arrivano tra le cinquanta e ottanta famiglie ma la gente continua ad arrivare», ci dice Miriam. «Vengono a cercare un mondo per lo più dimenticato. Tra di loro ci sono anche persone ammalate di cancro o tumore che hanno la necessità di abbracciare uno stile di vita più sano».

Non deve sorprendere. Nel rapporto Sentieri (Studio epidemiologico nazionale dei territori e degli insediamenti esposti a rischio da Inquinamento) realizzato dall’Istituto nazionale di sanità, si osserva come l’alto tasso di tumori della zona possa essere associato prevalentemente ai siti con presenza di impianti chimici, petrolchimici e raffinerie e alle aree nelle quali vengono abbandonati rifiuti pericolosi. Qui impianti chimici o petrolchimici non ce ne sono.

Per questo motivo Vincenzo Tosti, ex candidato sindaco di Orta di Atella, ha formato un comitato scientifico insieme a una rete di associazioni e comitati territoriali poi riunitasi sotto l’associazione Veritas per studiare il rapporto tra incidenza tumorale e devastazione ambientale. «Nell’ottobre del 2015 ho fatto le prime analisi in un laboratorio di Treviso e ho scoperto di avere diossine nel sangue e valori molto elevati di policlorobifenili (pcb), sostanze chimiche di derivazione industriale. Per poterti disintossicare da questi veleni, si usa la chelazione per i metalli pesanti e la detossificazione se hai i pcb», racconta Vincenzo.

Lo studio scientifico elaborato grazie al progetto Veritas analizza la presenza di pcb in 95 pazienti malati di cancro e 27 pazienti sani che vivono nelle zone all’interno del triangolo dei veleni. «Io mi sono affidato al mio medico che ha provato una cura sperimentale e le diossine si sono dimezzate. La malattia non è peggiorata ma resta là». Sebbene l’analisi sia su un campione ridotto, il risultato dello studio evidenzia il livello del tutto fuori norma dei metalli tossici nel sangue dei pazienti della “terra dei fuochi”. «La verità è che mi sono ammalato come tanti e quello che ci premeva di capire era perché le persone che vivono qua queste diossine ce l’hanno nel sangue».

I comitati riuniti nell’associazione Veritas, oltre a occuparsi della documentazione, promuovono la salvaguardia della buona agricoltura, dei terreni, del ciclo delle acque. «Abbiamo iniziato con attività di autofinanziamento», continua Vincenzo, «sicuramente non possiamo contrastare la grande economia ma possiamo riutilizzare i tanti terreni sequestrati e confiscati, ripartire da piccole cooperative di giovani. Parliamo di sostenibilità e km0, cerchiamo di andare incontro ai bisogni della nostra comunità creando microeconomie come l’orto conviviale di Sant’Anastasia».

Sant’Anastasia, 28/07/2018 © Miriam Corongiu

Nell’orto conviviale la sostenibilità economica va di pari passo con la sostenibilità ambientale. Miriam è un’attivista da prima che cominciasse a coltivare l’orto. La figlia di undici anni sa perfettamente cosa fare in caso di roghi tossici. «È assurdo che a 11 anni si debba campare in stato di guerra. È come un bombardamento l’estate qua». Miriam alla sua prima manifestazione con Stop Biocidio ci è andata nel 2013 tirandosi dietro un collega e il cognato. C’erano 120.000 persone. È stata l’ultima volta che si è sentita sola. Ora giustizia ambientale e sociale le pratica nel suo orto, con la resistenza contadina. La bandiera all’ingresso è un simbolo e monito. «Non è cambiato tantissimo in termini di fuochi, ma è cambiato tantissimo in termini di ribellione».