ITALIA

Un futuro da reinventare

Il coronavirus sembra aver squarciato il velo del discorso neoliberale che aveva naturalizzato precarietà, lo sfruttamento e i tagli al welfare come fenomeni ineluttabili. É ora arrivato il momento di immaginare diversamente il futuro

Il Coronavirus si presenta sulla scena pubblica italiana in un contesto sociale, economico e politico già particolarmente complesso. Le nuove povertà, la precarietà delle vite e del lavoro di milioni di persone, il razzismo insieme istituzionale e sociale, la parcellizzazione sociale sono fenomeni che definiscono, ormai da molti anni, il panorama politico italiano. Nonostante questo, alcuni movimenti sociali globali, in primis quello femminista e quello ecologista, sono riusciti a dare uno scossone alle nostre vite e alla vita politica del paese, ponendo temi e mettendo in campo pratiche indispensabili per i movimenti che sorgeranno quando la tempesta sarà passata. La potenza rivoluzionaria di questi due movimenti ha tuttavia dovuto fare i conti con altri tipi di passioni che in molt* abbiamo coltivato negli ultimi anni: quel senso di rancore, di rabbia – o al limite di rassegnazione – nel vedere tanta violenza, iniquità e solitudine diffondersi nel mondo. Da questo punto di vista l’impressione è che, nelle incredibili condizioni create dall’emergenza sanitaria, nell’immaginario di milioni di persone stiano emergendo alcuni interrogativi che riguardano la loro vita – e forse anche quella degli altri – in maniera più travagliata ma anche più consapevole di sempre. Il Coronavirus sembra infatti aver squarciato il quadro retorico che i discorsi neoliberali avevano abilmente naturalizzato come oggettivo, un quadro che dipingeva lo sfruttamento, la precarietà e il taglio al welfare come processi ineluttabili. Se è vero che tutt* ci stiamo facendo un’infinità di domande a cui difficilmente da sol* possiamo rispondere, è il momento di cominciare a proiettarsi verso un futuro molto più prossimo di quel che possiamo immaginare, forse un futuro in cui siamo già sprofondati e nel quale avremo bisogno di inventare un modo diverso di pensare la vita in comune.

 

La sanità pubblica e il diritto alla salute

Il primo tema che aiuta ad illuminare le contraddizioni che il virus ha smascherato si riferisce ovviamente alla questione sanità.  In questi giorni i media mainstream producono un duplice livello comunicativo da questo punto di vista: da un lato sottolineano la necessità di non sovraccaricare il Sistema Sanitario Nazionale, ribadendo come questo non potrebbe sostenere un contagio ancor più diffuso di ora e, dall’altro, proclamano l’elezione del personale medico alla categoria di “angeli”. Se dal primo punto di vista un recente articolo delle CLAP ci ha spiegato come la scarsa capacità di tenuta del SSN non sia una casualità dovuta esclusivamente alla capacità di contagio del virus, quanto invece il risultato di decenni di destrutturazione della sanità pubblica a favore di quella privata, vorrei però concentrarmi sul secondo aspetto. Sono i medici stessi a rifiutare l’appellativo di angeli, consapevoli che il loro magnifico e infaticabile sforzo non arriva dal cielo, ma è una presa di responsabilità individuale, una dedizione al salvare vite umane che i governi di ogni colore degli ultimi vent’anni hanno dimostrato di non avere. In altre parole, se ci fossero il doppio delle strutture, se ci fossero il doppio dei medici e degli infermieri e venissero pagati adeguatamente, il nostro SSN sarebbe certamente più capace di resistere all’urto della pandemia. La strategia retorica che vediamo svilupparsi in questo senso sembra voler prevenire possibili recriminazioni e rivendicazioni derivanti dalla carenza del Sistema Sanitario Nazionale, spingendo sulla santificazione/eroizzazione del personale medico.

Del resto, l’enfasi sull’eroismo e il merito individuale è un vecchio trucco utilizzato dalla retorica neoliberista per mascherare le stesse condizioni strutturali che rendono impossibile superare certe contraddizioni a livello sistemico se non, appunto, nelle rare convergenze di capacità eccezionali e contingenze adeguate alla loro espressione. Queste riflessioni portano in evidenza un fatto incontrovertibile: affermare oggi la necessità di un sistema sanitario pubblico, universale e fortemente finanziato non è la stessa cosa di averlo affermato anche solo dieci giorni fa. Forse oggi sarà più chiaro per tutt* cosa significa non avere immediato accesso alle cure sanitarie di cui ognun* avrà prima o poi necessità, soprattutto alla luce del fatto che, come sostengono i movimenti ecologisti, queste crisi saranno sempre più frequenti.

In alcuni territori del nostro paese è normale attendere anche due anni per un’ecografia o una risonanza magnetica nel pubblico e forse qualcuno potrebbe riflettere sul fatto che proprio la scelta di destrutturare la sanità pubblica abbia causato migliaia di morti evitabili. Tutti ricorderemo cosa succedeva negli ultimi anni chiamando i CUP regionali per prenotare una visita: «se sceglie il pubblico il primo appuntamento libero è tra otto mesi, se sceglie il privato ci vediamo martedì». Ecco, forse oggi più di ieri le persone saranno disposte a riflettere su quanto sia assurdo che lo stato si metta a disposizione dei guadagni privati, invece di assicurare a tutte e tutti l’accesso alle cure mediche.

 

Un mondo in frantumi

Oltre alle questioni medico sanitarie appena citate, il dibattito pubblico in questi giorni si concentra sull’enorme crisi economica e del lavoro in cui siamo già precipitati. Di nuovo, il Coronavirus sta smascherando un’infinità di inganni che sembravano, fino all’altro ieri, invisibili per la maggior parte delle persone. Innanzitutto già da questi primi giorni di blocco complessivo dell’economia reale è possibile notare come la frammentazione sociale prodotta dalla precarietà e dalla competizione al ribasso si stia mostrando davvero per quello che è. Come diceva qualcuno, tutte le precarietà sono diverse e uguali allo stesso tempo. Ma se ieri erano diverse, oggi sembrano molto più uguali: dal barista all’operaio, dal magazziniere al rider, dalla professoressa supplente fino ai lavoratori e le lavoratrici in nero, in questo momento sono milioni i lavoratori e le lavoratrici che stanno ragionando sulla propria condizione passata, presente e futura.

Forse gli stessi lavoratori stanno ragionando anche sullo smantellamento pezzo dopo pezzo del sistema dei diritti del lavoro, operato con la complicità dei governi e dei sindacati confederali. Nello specifico, chi rimane a casa starà probabilmente tremando al pensiero di non avere uno stipendio questo mese, o i prossimi mesi, mentre chi va a lavorare si starà forse domandando se valga la pena rischiare il contagio per due spiccioli, mentre c’è qualcuno che anche in questo periodo sta accumulando miliardi. L’immagine che queste dinamiche ci restituiscono ci racconta di come sia un intero sistema produttivo ad accartocciarsi su se stesso come un castello di carta e, in tutta probabilità, a pagarne il prezzo più caro saranno come sempre i più vulnerabili.

In questo senso, che cosa succederà alle circa dieci milioni di persone che in Italia vivono in una condizione di povertà relativa? Riflettendo su questa domanda, vengono alla mente i tanti numeri elencati nel dibattito economico di questi giorni: «la Fed immette 700 miliardi di dollari […]la Germania pronta a sostenere il mercato con 550 miliardi» o, ancora, «FMI pronto ad immettere 1000 miliardi». Per chi, come chi scrive, si considera già un privilegiato ad avere un assegno di ricerca, sentire questi numeri stimola allo stesso tempo capogiri radicali e un moto di rabbia insopportabile: dov’erano questi soldi negli ultimi dieci anni, quando a essere in difficoltà erano le persone e non gli indici finanziari? Sembra, come in molti affermano da tempo, che questo gioco di numeri sia un enorme inganno. I soldi immessi saranno destinati ancora una volta alle banche per tentare di salvare un sistema che funziona solo se c’è qualcuno che ha tutto e qualcuno che ha meno di niente. Di quei soldi, noi, non vedremo un centesimo.

Ma sono anche altri numeri a suscitare gli interrogativi che, forse, in molt* si stanno ponendo. Leggendo l’ultimo decreto ministeriale scopriamo che se fino a ieri dovevamo fare sacrifici, accettare lavori umilianti, fare quattro lavori per arrivare a fine mese, è possibile fare una manovra da 25 miliardi di euro in un mese. Guardando il decreto e confrontandolo con le tante storie che ogni giorno ci arrivano all’orecchio, è evidente che questa manovra sia solo una goccia in un lago tutto da riempire. Seguendo i sentieri della mente, i numeri della manovra mi hanno fatto pensare a un articolo in cui si stilava la classifica dei dieci personaggi più ricchi d’Italia: aggregando il patrimonio stimato di questi signori e signore ne risulta un valore complessivo di 130 miliardi di euro. Ma allora, forse, in questo momento ci sarà qualcuno che inizi a paragonare il fatto che questo mese milioni di persone avranno difficoltà a pagare l’affitto rispetto all’infinita ricchezza di queste persone?

Tornando a una riflessione precedente, quando ci diranno che non ci sono soldi per salvaguardare le 10 milioni di persone che in Italia sono in una condizione di povertà relativa forse dovremmo tenere a mente questi dati. I soldi ci sono sempre stati ed è arrivato il momento di andare a prenderli dove sono: se ai dieci uomini più ricchi d’Italia togliessimo 25 miliardi, in tutta probabilità, farebbero fatica ad accorgersene.

 

Un futuro da reinventare

Andando verso la conclusione, vorrei condividere qualche ragionamento sui significati che l’isolamento di questi giorni potrebbe rappresentare. Molto è stato già scritto sullo stato d’eccezione, sulle leggi d’emergenza e sulla rottura delle procedure democratiche basilari. Elementi di riflessione fondamentali, se non fosse che il momento storico che stiamo vivendo è inedito, così come inedite potrebbero essere le traiettorie verso cui sfocerà. È innegabile che il cosiddetto modello cinese generi pratiche di governo preoccupanti, ma forse potrebbe essere utile rivolgere l’attenzione anche altrove. In un contesto come il nostro, nel quale la frammentazione dei legami sociali ha spesso reso complessa l’organizzazione di forme di resistenza – con l’eccezione di FFF e NUDM che continueranno ad avere un ruolo determinante nei prossimi mesi – le persone iniziano a mettere in campo comportamenti che sono contemporaneamente volti alla tutela di se stess*, delle proprie reti di prossimità e della collettività tutta.

È una dinamica che esprime una potenza importante e che potrebbe essere valorizzata nel futuro che ci attende: se ci prendiamo cura di noi stess*, dei nostri affetti e della collettività nel bel mezzo dell’emergenza, potrebbe essere il momento di provare a diffondere l’idea che vivere in comune e prendersi cura delle/degli altr* rende la vita migliore sempre, e non solo in momenti così difficili. Certo, in questi giorni vediamo emergere anche una tensione inversa, rappresentata dalle ignobili cacce all’untore e dalle delazioni verso chi passeggia nei parchi. Non dovrebbero essere fenomeni che ci sorprendono, se teniamo a mente il tessuto sociale e il dibattito politico pre-epidemia. Differentemente, questi processi ci mostrano immediatamente le contraddizioni con cui di certo avremo a che fare e impongono la necessità di inventare anticorpi in grado di respingere le istanze reazionarie che, in ogni caso, attraversano e attraverseranno parti consistenti della nostra società.

Mi rendo conto che questo mio testo abusi di termini come “forse”, “potrebbe” o “dovrebbe”, ma si tratta di una scelta consapevole e legata ad almeno due riflessioni. La prima, già sottolineata precedentemente, si riferisce al fatto che siamo di fronte a un processo storico inedito e che nessuno può sapere con certezza quel che succederà. La seconda, invece, vuole condividere l’idea che se in questo momento è possibile cogliere un certo grado di vulnerabilità nella capacità del capitale di riprodurre sé stesso, la stessa vulnerabilità è certamente stata colta anche dal capitale stesso e da altre forze che nel paese staranno ragionando su come intervenire all’interno di questo incredibile momento della storia. L’Elmo di Scipio, l’Unità Nazionale e via dicendo sono dimensioni che, al netto del loro recupero in chiave di flashmob, potrebbero avere un significato pesante, oggi più di ieri.

Concludendo, vorrei prendere in prestito le famose parole della mai rimpianta Margaret Thatcher, sulle quali si sono fondate l’insieme delle politiche di austerity degli ultimi dieci anni. Il suo «there is no alternative», utilizzato per indicare l’inevitabilità – e quindi la giustezza – del modello neoliberista, è un concetto che dovremmo invece fare nostro e ribaltare di segno: questi momenti dovrebbero convincerci che l’individuo non esiste senza la società, che da sol* non siamo niente, e che soltanto quando scopriremo che nessun* è stat* lasciat* indietro potremo festeggiare la fine dell’emergenza.