Tutti fanno U-turn

Dietro la pagliacciata di destra ben più insidioso è il trasformismo di centro.

Il gigantesco talk-show parlamentare, la cui scurrilità ha oscurato perfino il becerume tipo La gabbia, è stato talmente incredibile, con il suo susseguirsi di dimissioni rientrate, Aventini rimangiati, parodie del Tea Party, voti di fiducia dati, tolti e ridati, finte unanimità e finte scissioni da offuscare i ruoli e lo sfondo. Lo sfondo è che il discredito emergente da queste giornate riflette la delegittimazione profonda del sistema rappresentativo nazionale, mai così scollato dalla società e commissariato da poteri superiori. L’altro elemento è che non solo è apparso delirante il ruolo del PdL-Forza Italia, ma sostanzialmente hanno rivelato la loro miseria intrinseca anche quelli del Pd, di Sel e del M5S, tutti impegnati in grottesche svolte a U. Il Pd voleva uscire dalle larghe intese e si è ritrovato impigliato in una rete centrista e democristiana con un consistente spezzone del centro-destra, ciò che produrrà grossi malumori e contraddizioni nel medio periodo. Sel si è precipitato a offrire i suoi servigi sperando di essere l’ago della bilancia e si è ritrovato a puntellare le larghe intese senza contare nulla, dunque ha ripiegato sul voto contrario per «mancanza di discontinuità nell’azione di governo» (ahah!); stesso ruolo irrilevante hanno giocato i dissidenti del M5S. I grillini in quanto tali hanno ottusamente puntato su nuove elezioni con il Porcellum e hanno così ridotto le possibilità di trarre partito dalla farsa odierna, esibendo per di più una fedeltà cieca alle giravolte del Capo paragonabile a quella dei berluscones fino a ieri. Va a finire che i più simpatici risultano i giapponesi-nella-giungla: Bondi che non vota la fiducia, Scilipoti che fa la faccia feroce non essendo stato avvertito per tempo della capriola, un rintronato Sallusti che ha tenuto sul Giornale on line tutte le posizioni e tutte le invettive per strati caotici.

Ma andiamo all’essenziale. Cosa esce da questo voto, al di là dei giochi disperati di Berlusconi per restare a galla o impedire lo spappolamento del suo partito? Esce una “nuova maggioranza” centrista, frutto di uno spostamento a destra del Pd trainato dalla componente cattolica e verso il centro della componente ciellina e moderata del PdL, che naturalmente inghiotte Monti e Casini e lascia orfani i piddini ex-ds e gli albadorati di Forza Italia. Ritorno alla prima repubblica? Non esageriamo, però un certo sentore democristiano c’è, della buona vecchia Dc di Letta contaminata dall’oltranzismo affaristico ciellino e del blairismo bischero alla Renzi. E chissà quali rottami si staccheranno ancora del relitto Berlusconi prima della demolizione.

A leggere attentamente la presentazione di Letta –insieme a Napolitano l’unico vincitore di oggi– vengono i brividi, altro che sproloqui del Caimano, contorsioni pitonesche e deliri bellici di Verdini e Bondi. Un grigio discorso imperniato sull’elogio della stabilità, in termini generici di moderatismo, con riferimenti storici imbarazzanti alla sua età d’oro –il 1946-1968, gli anni di De Gasperi, Scelba e Fanfani, prima comunque della catastrofe libertaria e della riscossa operaia–, in termini attualizzati come inclusione sociale dei nuovi poveri per evitare che il disagio si trasformi in conflitto. Stabilità funzionale al risanamento contabile e all’integrazione finanziaria europea, con vaghi auspici di crescita, spacciando l’inciucio con Alfano, Formigoni e Lupi quale italica grosse Koalition fra socialdemocratici e cristiani ordoliberali. Peccato che il Pd sia retto da cattolici più che da socialdemocratici e i «diversamente berlusconiani» non siano proprio la Merkel. Il programma economico, a differenza dall’affarista Berlusconi, è ben coerente. Rientro dallo sforamento del 3%, spending review selettiva, graduale riduzione dell’indebitamento strutturale secondo i dettami del fiscal compact, pareggio del bilancio come da Costituzione recentemente innovata. Chiudendo gli occhi sul disastro italiano e le vette toccate dalla disoccupazione generale e da quella giovanile, ormai ben sopra il 40%, vi ha aggiunto un agghiacciante elenco dei “beneficiati” dai piccoli passi di questi 5 mesi di governo, infilandovi con impudenza esodati, precari della P.A., ricercatori, studenti medi e universitari, piccoli imprenditori, che di certo ringrazieranno plaudenti. Il tutto condito con la promessa assolutamente improbabile di una crescita del Pil di un punto all’anno, grazie a incentivi, dismissioni e privatizzazioni senza svendita. Come se Telecom, Alitalia e Ilva non esistessero. Ha perfino vantato una riduzione della pressione fiscale, di cui a dicembre registreremo gli effetti cumulativi. Il decreto Destinazione Italia attrarrà frotte di investitori stranieri e l’EXPO 2015 ne sarà il culmine (applausi di Formigoni). Sui diritti civili silenzio –e te credo, con quella bella compagnia omofoba e proibizionista!

Durare per tutto il 2014 e oltre, a parte gli impegni della presidenza europea, è obbiettivo dichiarato, per consolidare la scissione del centro moderato da Berlusconi e riassestare gli equilibri interni del Pd, ma lo consentirà la situazione economica e sociale, malgrado le aspettative di stabilità, inclusione e assopimento del conflitto? Sarà così agevole approfittarne pure per rivedere la Costituzione in senso liberista e workfarista, visto che i cambiamenti non si limiteranno certo al bicameralismo perfetto e allo sciagurato titolo V? C’è da domandarsi se questa soluzione neocentrista non susciterà resistenze sul piano sociale e movimenti fuori dal perimetro di un’opposizione sterile di stampo grillino o residuale come quella di Sel e concorrenti strutturati di estrema sinistra. Già gli organizzatori del 12 ottobre avranno dei problemi a mantenerla nel quadro della difesa della Costituzione vigente (pareggio del bilancio compreso?) e dell’anti-berlusconismo in cui era nata, adesso che le larghe intese si sono riconsolidate in uno spazio più qualificato e meno apocalittico. Interrogativi di segno opposto si aprono per le manifestazioni del 18-19. Tempi e respiro dell’opposizione diventano adesso più lunghi e profondi, nell’intreccio sempre più stretto fra mutamenti della democrazia, del reddito e del lavoro.