ITALIA

Il turismo (in)sostenibile delle Cinque Terre

Le Cinque Terre stanno morendo spolpate da troppo turismo

«Quando ero bambino guardavo con ammirazione i pescatori. Capisco però che i giovani oggi non vogliano più fare questo mestiere, d’altronde non si può chiedere a un ragazzo di essere un perdente». Beppe Martelli, 67 anni, di mestiere fa «quello che rimane del pescatore» nelle Cinque Terre.

Monterosso, Vernazza, Corniglia, Manarola e Riomaggiore sono i piccoli borghi liguri che formano il Parco nazionale e che per centinaia di anni sono stati casa di pescatori.

«Sono sempre uscito la notte per pescare le acciughe» – racconta Beppe – «e se prima il mare era costellato dalle luci delle barche, ora di tutte quelle luci non ne rimane più una».Con la nascita del Parco nazionale, nel 1999, la pesca è stata regolamentata con leggi restrittive. Così restrittive da segnare «l’inizio della fine per la pesca in questi paesi» continua Beppe, per il quale «è giustissimo preservare l’ambiente, ma non si può vietare al pescatore di fare il proprio mestiere».

 

 

Dietro la nascita del Parco viene all’unanimità ricordato un solo nome: Franco Bonanini. Fondatore ed ex presidente del Parco, Bonanini è stato a lungo considerato onnipotente, tanto da guadagnarsi un appellativo: il Faraone. C’è un solo posto dove lo si possa intervistare: nella sua casa di Riomaggiore. Bonanini infatti è agli arresti domiciliari, condannato a 10 anni di reclusione.* Nel 2010 il Parco nazionale delle Cinque Terre è finito al centro di un’inchiesta giudiziaria, “Parcopoli”, che ha smascherato un sistema di potere con cui si amministravano in modo arbitrario i fondi comunitari e statali. «Richiedere l’istituzione del Parco per me è stato un atto di disperazione» si difende Bonanini. «Negli anni ‘90 le Cinque Terre stavano morendo: non c’erano posti di lavoro, i negozi chiudevano e i giovani se ne andavano» racconta l’ex presidente, «Far nascere il Parco è stata un’impresa difficile, avevamo tutti contro. Ma alla fine ce l’abbiamo fatta ed è nato questo Parco, creato per tutelare l’identità di un territorio unico».

 

 

Qualcosa però deve essere andato storto. Se negli anni ‘90 le Cinque Terre stavano morendo, spopolate per mancanza di lavoro, ora stanno morendo di nuovo, spopolate per colpa di un turismo eccessivo.

Nei cinque borghi liguri si contano 625 turisti all’anno per ognuno dei 4mila residenti. Un turismo di massa spropositato per questi piccoli borghi nati per essere culla di pescatori e contadini. Ma come si è potuti arrivare a questo punto se fino a 30 anni fa le Cinque Terre erano un paradiso sconosciuto ai più? «Il turismo è cominciato dopo la guerra, ma era diverso» racconta il più noto poeta dialettale della zona “Tofa”, all’anagrafe Cristoforo Basso, nato nel 1928 a Vernazza. «Le famiglie prendevano in affitto sempre la stessa casa estate dopo estate: eravamo una grande comunità e i loro figli crescevano con i nostri. Non era un turismo mordi e fuggi come quello che c’è adesso. Ora ogni volta che muore un vecchio qui nascono due camere da affittare».

 

 

Prima della guerra la maggior parte degli abitanti sceglieva la via del mare imbarcandosi nei transatlantici, mentre nel dopo guerra i residenti venivano assunti soprattutto nelle ferrovie oppure nell’arsenale della vicina La Spezia, ma ora è il turismo che dà lavoro. Una tendenza messa in risalto dai dati del comune di Vernazza, borgo di 848 abitanti, che dal 1995 al 2015 ha visto letteralmente moltiplicarsi il numero di ristoranti, bar e alberghi. Attività che nell’arco di un ventennio sono passate da 17 a 41, un incremento impressionante se si pensa alle dimensioni del paese e al numero degli abitanti: si conta infatti un’attività turistica ogni 20 residenti. Passeggiando nel piccolo borgo si nota che tutti i locali disponibili, anche i più piccoli, sono stati trasformati in bar, gelaterie o negozietti di souvenir. Ovviamente i giovani che rimangono a vivere in questa zona decidono sempre più spesso di investire nel settore turistico. Ne è un esempio Martina, 31 anni, laureata in Giurisprudenza a Milano e che da un paio di anni gestisce un bed&breakfast. «Lavoro da marzo a ottobre e per il resto del tempo viaggio» – racconta Martina – «Trascorrerò dicembre a Cuba e gennaio in Argentina. L’anno scorso invece ho visitato la Thailandia, l’Australia e il Messico». Insomma, una professione molto redditizia. Mentre parla Martina nota un nutrito gruppo di turisti che sta affollando l’ingresso della chiesa. «Nonostante io grazie al turismo ci viva» – riflette la giovane albergatrice – «mi chiedo se sia il tipo di turismo giusto per i nostri paesi. Io qui ci sono cresciuta e ora nella chiesa dove sono stata battezzata faccio fatica ad entrare».

 

 

Il gruppo di turisti è appena entrato nella chiesa e subito ne arriva un altro ad affollare l’ingresso: il rumore incessante delle infradito sbattute a terra impedisce di sentire il suono del mare. D’estate il flusso sembra non finire mai, i turisti arrivano a centinaia dai treni, dalle automobili e dai traghetti. Le bandierine delle guide invadono le strade. Non è stato certo questo a ispirare Carducci quando ha decantato la bellezza di questi luoghi, come spiega Emanuele Moggia, sindaco di Monterosso dal 2014. «“San Martino” di Carducci comincia con quel verso “La nebbia a gl’irti colli/piovigginando sale” e poi continua “Ma per le vie del borgo/dal ribollir de’ tini/ va l’aspro odor dei vini/l’anime a rallegrar”. Un prozio di mio padre era un sacerdote e un grande intellettuale. Aveva ospitato Carducci in via Vittorio Emanuele a Monterosso e mi è sempre piaciuto pensare che si sia ispirato proprio a quel carruggio per il “ribollir de’ tini”». Non molti anni fa camminando per le vie di questi piccoli borghi si sentiva l’odore forte e pungente del mosto, del vino che fermentava, ma ora le cantine sono diventate negozi e i terrazzamenti, caratteristica principale di questo paesaggio, sono perlopiù terreni incolti. Un’incuria del territorio che ha avuto gravi conseguenze:

il 25 ottobre 2011 Vernazza e Monterosso sono state messe in ginocchio da alluvioni che hanno causato morti e devastazioni. Colpa della troppa pioggia, ma anche dei campi che non vengono coltivati e delle costruzioni dell’uomo, che non ha smesso di gettare cemento dove prima c’erano vallate.

 

 

In pochi decenni si è passati dai 500 ettari coltivati agli attuali 50. «Si può dire che per quanto riguarda il vino il turismo sia stato un disastro: ormai quasi nessuno coltiva più», dice Matteo Bonanini, presidente della Cantina sociale delle Cinque Terre, nata negli anni Settanta per riunire i viticoltori della zona. «Abbiamo creato la Cantina per non far morire la nostra tradizione vinicola. Il nostro è un vino che si porta dietro un territorio». La Cantina sociale dal 2017 ha deciso di pagare il doppio tutte le uve conferite dai soci: una scommessa disperata per incentivare gli abitanti a tornare a coltivare. «Penso che ci possa essere una ripresa» – continua il presidente della Cantina – «se capiamo come lavorare in simbiosi con il turismo. Purtroppo andando avanti così fra un paio di anni non sarà solo il negozietto d’alimentari a chiudere durante l’inverno, sarà tutto il paese a farlo. Ci rimango male a pensare che nei vari ristoranti delle Cinque Terre si festeggia più per il Giorno dell’Indipendenza americana il 4 luglio che non per il 25 aprile. Io vivo a Riomaggiore da 63 anni e ora quando vado a comprare il pane al forno mi dicono “Thank you”».

 

*Successivamente all’intervista, il 15 luglio 2018 Franco Bonanini è stato arrestato e condotto nel carcere di La Spezia dopo una nuova sentenza della Cassazione.

 

Foto di Elena Basso