MONDO

Turchia e lotta all’Isis: potrei ma non voglio

Il governo turco non solo si gira dall’altra parte mentre ai sui confini i guerriglieri curdi si battono contro l’Isis, ma reprime con ferocia le mobilitazioni in appoggio alla resistenza di Kobane. Ne abbiamo parlato con lo scrittore e politologo turco Ahmet Insel.

Quali sono le ragioni del del comportamente del governo turco verso la resistenza curda contro l’Isis?

La Turchia suo malgrado si trova di nuovo sotto i riflettori internazionali a causa della sua lunga, permeabile e turbolenta frontiera sud orientale, la sua posizione geografica la rende un avamposto strategico per contrastare l’avanzata dell’esercito dello stato islamico, ma la sua condizione etnica e religiosa rende incerto e quindi praticamente nullo il suo contributo, sia militare che umanitario. Sembra guardare a intermittenza e con timore a questa scomoda linea di confine: lascia che l’esercito dello stato Islamico si avvicini con il suo compendio di stragi, saccheggi e decapitazioni, apre le frontiere ai profughi kurdi siriani, per poi chiuderle 4 giorni dopo per contenere un flusso salito a decine di migliaia di persone, prima annuncia di non voler partecipare alla coalizione anti Isis non concedendo nemmeno lo spazio aereo militare, poi decide di mettere a disposizione il suo esercito, invia 10 mila soldati al confine ma li mantiene inattivi mentre le truppe dell’i Isis sono a un passo dal prendere Kobane a scapito delle e dei combattenti kurdi lasciati da soli.

Un comportamento contraddittorio, indice di una riluttanza a cui fa da sfondo il rapporto ambivalente che il paese ha con i movimenti islamici radicali, confermato dalle negoziazioni con l’ISIS che in questi giorni in due occasioni hanno portato allo scambio fra ostaggi turchi e militanti jihadisti, ma anche da fatti avvenuti nel passato, come quello del febbraio 2014, quando un furgone appartenente a una ONG vicina all’AKP,il partito al Governo, venne trovato nei pressi del confine Siriano pieno di armi destinate a rifornire militanti Jihaidisti.

Questa ambivalenza parte proprio dalla siria, e proviamo a solcarne le pieghe conversando con Ahmet Insel, scrittore e politologo Turco, cronista Radikal, il quotidiano di riferimento pe rla sinistra turca: le difficoltà della Turchia nell’affrontare di petto lisis, affondano le loro radici in due delle profonde ferite che lacerano il paese, quella religiosa e quella etnica. Ritiene fondate le accuse rivolte al Governo Turco, provenienti da più parti, di appoggiare formazioni jihadiste radicali?

Certo, di questo abbiamo le prove! Però bisogna dire questo: Io non credo che fin dall’inizio il Governo avesse l’intenzione di utiizzare allo scopo di rovesciare Bashar Assad proprio le formazioni jihadiste; inizialmente hanno pensato che i fratelli musulmani avrebbero potuto prendere il potere in Siria, quindi hanno sostenuto un meccanismo che potesse portare a questa transizione; questo perché l’AKP è soprattutto molto vicino ai fratelli musulmani prima di essere vicino agli jihadisti.

Però hanno fatto male i loro calcoli, in particolare sulla capacità di resistenza di Bashar al-Assad. Hanno analizzato male la Siria, non hanno compreso che Assad faceva affidamento su di una coalizione di minoranze religiose ed etniche che ha paura della maggioranza sunnita (NDR la Siria è a maggioranza sunnita, mentre Assad è Alauita, una minoranza sciita): questo fatto non è stato ben tenuto in conto dai turchi e quindi una volta ritrovati invischiati in questa operazione di rovesciamento del regime, hanno cominciato a perdere il controllo sul movimento di resistenza a causa dell’allungarsi dei tempi e del complicarsi della situazione. A partire da quel momento c’è stato, non tanto per volontà dell’AKP, ma perché oramai si era erano in quella direzione, un ripiegamento sulle formazioni jihadiste radicali, in particolare Al Nusra (ramo siriano di Al-Quaeda) fornendo non tanto un supporto diretto, quanto un supporto logistico; agevolazioni nell’utilizzo di spazio aereo in Turchia, facilitazioni nel passaggio di miliziani alla frontiera; e probabilmente alcuni di essi appartengono a organizzazioni jihadista, ma questo non significa forzatamente che siano allo stesso tempo delle organizzazioni terroriste, che attaccano e assassinano la gente.

E’ fuori discussione quindi che forze jihadiste siano state sostenute dal Governo turco; ma non si tratta solamente di una questione politica: non bisogna dimenticare che la Turchia ha anche una estesa componente sensibile all’Islam..

Il secondo problema infatti è che esiste, nella base dell’AKP, notoriamente nelle organizzazioni della società civile dell’AKP, un “tropismo”, un’ attrazione , da parte delle ONG legate all’AKP, verso l’ideologia jihaidista; in questo momento non è il governo dell’AKP che organizza il sostegno alle formazioni Jihaidiste ma sono queste ONG che lo organizzano continuando a dare supporto logistico, agibilità alla frontiera eccetera. In questo momento ci troviamo in una situazione in cui allo stesso tempo l’AKP è impanicato da questo scivolamento barbaro delle organizzazioni jihadiste in Iraq e in Siria, ma allo stesso tempo è terrorizzato dall’idea che l’Islam a causa di questa assimilazione fra l’azione terrorista e azione delle organizzazioni islamiche, venga screditato. Se si afferma che vi sono delle organizzazioni jihadiste che sono anche terroristiche, cerca di condannare queste formazioni ma senza nominarle; è come era per i comunisti negli anni ’50 che erano inorriditi dai crimini di Stalin, ma allo stesso tempo temevano che condannando Stalin condannavano anche il regime sovietico.

La riluttanza della Turchia ha a che fare anche con il fatto che dovrebbe intervenire a sostegno dei kurdi, situazione paradossale non solo per il lungo e sanguinoso conflitto che li contrappone, ma anche per il fatto che, secondo fonti informative di area kurda, militanti jihadisti sarebbero stati addestrati dal Governo Turco anche per contrastare le forze kurdo-siriane della zona.

Il problema in Iraq e in Siria fa si che per la Turchia due delle sue fratture piu profonde, quella etnica e quella religiosa, si ritrovino in opposizione sullo stesso terreno. Da una parte c’è il problema kurdo, dall’altra quello islamico. La maggior parte dei turchi ritiene che l’evolversi della situazione ai confini con la Siria e nel sud est dell’Iraq avrà delle conseguenze negative sulla creazione dello stato turco; se si fa pressione sul nazionalismo turco, e questa è la cosa pericolosa, quello che può succedere dentro la loro testa è che i kurdi di Turchia, che sono la popolazione più numerosa della regione…su questo dobbiamo soffermarci un attimo infatti: ci sono 5 milioni di kurdi in Iraq, 2 milioni in Siria, e 15 in Turchia, e sono i più limitati politicamente; quindi vediamo che se In Iraq abbiamo uno stato kurdo diciamo “federato”, se in Siria abbiamo una regione kurda autonoma, diventa impossibile per il governo turco limitare i diritti dei kurdi in Turchia. Dunque sta per finire un periodo dove la dominazione dell’identità etnica turca era incontestabile, e questo genera il panico.

Del resto Erdoǧan pochi giorni fa ha fatto capire anche a parole di preferire armare gli Jihadisti anziché i kurdi con questa affermazione: “Il terrorismo curdo del Pkk nel mio paese dura da 32 anni, ma il mondo non se n’è mai preoccupato… Come mai? Semplice, perché non porta il nome Islam». La messa in discussione dell’identità turca è una questione enorme per un popolo che dopo aver vissuto gli splendori dell’Impero ottomano stava scomparendo dalla cartina geografica; qualsiasi pretesa all’inerno del suo territorio rappresenta una minaccia. Ma di nuovo, non si tratta di una questione solo politica.

Si vede anche che se si verifica una ridefinizione dei confini geografici in Iraq e Siria, sulla carta i turchi si vedranno circondati non dai sunniti ma dai kurdi e dagli aleviti. Questi due fattori fanno si che in questo momento il governo Turco sulla questione siriana non ha una politica: è come ci si comporta quando si è in panico, si fa tutto e niente: un giorno dice “no noi non invieremo le nostre truppe in Iraq, il giorno dopo dici “ si , invieremo le nostre truppe in Siria”, poi stanno li e non fanno nulla, fa solo degli annunci, questo è sintomo di panico.

La Turchia no ha mai preso parte alle guerre confessionali fra sciiti e sunniti, cercando anzi di svolgere un ruolo di mediazione con i paesi che la circondano. Ma è testimoniato da eventi anche sanguinosi che la sua maggioranza sunnita mal tollera la numerosa presenza di aleviti, minoranza religiosa eterodossa a orientamento sciita, a cui appartengono molti kurdi

Religione e identità sono due questioni presenti nella società turca, con cui lo stato moderno fondata da Atatürk non ha ancora fatto bene i conti, nonostante un passato laico ed un presente di cessate il fuoco e processo di pace con il PKK.

Quello che è evidente e che rimanere stritolato dentro questi ingranaggi non oliati sarà per l’ennesima volta il popolo kurdo.

Nell’immagine di apertura manifestanti curdi che occupano il parlamento europeo