Le tre fasi dei Beni Comuni e le Fondazioni Bancarie

La proprietà va liberata dal suo DNA di lucro e rifondata su una visione “generativa”.

La riflessione sui beni comuni è entrata nettamente nella sua seconda fase. Messi da parte i dibattiti di natura definitoria (prima fase), è divenuto sempre più chiaro che la vera partita si gioca sui modelli di governo di quelle risorse pubbliche che si vogliono “rivendicare” alle comunità di utenti e di lavoratori (art. 43 Cost.) come beni comuni. A Napoli, ABC (ex Arin spa) sarà a tutti gli effetti una realtà istituzionale il prossimo 19 febbraio, quando scadranno anche il 60 giorni previsti dalla legge per impugnare la trasformazione. Essa sarà la dimostrazione inconfutabile, con il suo cda partecipato da rappresentanti dei movimenti e con il suo comitato di controllo composto di utenti, ambientalisti, lavoratori e membri del consiglio comunale, che è possibile in Italia la trasformazione da SPA ad Azienda Speciale partecipata. Un successo bello e faticoso per chi ha creduto che il referendum del giugno 2011 andasse preso sul serio!

Naturalmente alla gioia per il risultato conseguito a Napoli non potrà che accompagnarsi una riflessione sul danno devastante che Di Pietro ha causato alla battaglia per la ricostruzione di un settore pubblico partecipato, presentando testardamente quel famigerato quesito IDV sull’acqua che ha reso inammissibile il terzo quesito preparato dal Comitato Referendario su cui avevamo raccolto le firme (la Corte Costituzionale non poteva ammetterli entrambi perché il risultato sarebbe stato contraddittorio). Senza il quesito killer di Di Pietro (che poi incredibilmente si presenta come paladino dell’acqua pubblica!) sarebbero stati ammessi tutti e tre i nostri quesiti e ciò che oggi è stato possibile a Napoli solo con grande fatica giuridica e volontà politica di ferro sarebbe stato obbligatorio in tutta Italia….

In ogni caso, oggi sappiamo che l’Azienda speciale partecipata è una possibilità concreta di gestire beni comuni senza profitto, in modo coerente con la loro natura. ABC persegue autosufficienza, pareggio di bilancio ed equilibrio ecologico con buona pace di quanti credono che il pubblico non possa che essere il carrozzone statalista agli ordini del politico di turno. Sappiamo anche che i modelli di governo dei beni comuni sono a loro volta contestuali e variabili a seconda della natura di questi ma che alcuni punti fondamentali, quali appunto il ripudio della logica della concentrazione del potere e dell’ esclusione, possono concretamente portare alla sconfitta delle logiche padronali e personalistiche che troppo spesso governano in Italia il settore pubblico. Come sappiamo, la stessa logica della contrapposizione formale fra pubblico e privato è messa in discussione dalla teoria dei beni comuni, sicché, sulla scorta dell’ esempio napoletano, mi pare si aprano una serie di interrogativi di grande interesse.

Prendiamo per esempio le Fondazioni Bancarie, che hanno un modello di governance aziendalistico accentuatamente verticistico a fronte di una “vocazione pubblica”, quella di irrogare risorse volte a favorire lo sviluppo sociale e culturale di un territorio di riferimento. La strutturazione verticistica della governance è una caratteristica comune tanto all’azienda privata quanto oggi agli enti pubblici, che tuttavia stride con la vocazione democratica ed ecologica necessaria per il buon governo dei beni comuni. Non sarebbe più coerente perseguire il disegno sociale tipico delle Fondazioni Bancarie con un governo partecipato in cui i cittadini possano partecipare direttamente alle scelte, invece di dipendere da decisioni prese ai vertici, sovente come nel recente caso della Fondazione Monte Paschi (ma anche in molti altri casi) con una logica che stride rispetto alla vocazione sociale e culturale per favorire invece l’avventurismo nel mondo degli affari ? Quali seri controlli pubblici ci sono, sulle politiche sociali e culturali di questi enti, che siano capaci di controllare il perseguimento della loro vocazione? Non esiste, come noto, alcuna trasparenza e alcuna responsabilità né politica né giuridica dei vertici, sicché non ci si può stupire se risulta difficile operare una qualunque coerente pianificazione di lungo periodo.

Una simile questione, che poi si chiama “governo democratico dell’economia”, potrebbe porsi di fronte a banche, pur strutturalmente private, che essendo piombate per incapacità o disonestà dei loro amministratori in cattivissime acque sono dovute ricorrere ad ingenti iniezioni di denaro pubblico. In che senso e fino a che punto si può considerare ancora privato un tale ente che impatta con la sua azione (come ad esempio MPS) un’intera collettività? Ecco qui che la distinzione fra pubblico e privato, entrata in crisi profonda nel campo delle SPA pubbliche e delle Fondazioni Bancarie, dato il contrasto fra la loro governance privata e la loro vocazione pubblica, non può che cedere il passo a quell’altro modo di concepire il pubblico che si ritrova nell’ art. 43 della Costituzione e che rompe con l’idea che il “pubblico” sia la proprietà privata del partito o dell’uomo forte di turno.

Tale trasformazione, prima di tutto culturale (in Italia l’idea della Azienda pubblica come “proprietà privata” del partito fu inaugurata da Fanfani, mentre certo Mattei e Beneduce interpretavano il pubblico in modo ben altro) richiede una riflessione profonda sui modelli di proprietà. La proprietà, pubblica o privata che sia, deve essere liberata dal suo DNA di lucro e dalla sua governance di tipo “estrattivo” e va rifondata piuttosto su una visione “generativa”, che ripudia l’economia, ridotta a scienza dello sfruttamento, a favore dell’ecologia come scienza della vita. Soltanto in tal modo potrà ripudiarsi la struttura gerarchica e dall’alto in basso che costituisce, a mio modo di vedere, il principale problema delle attuali Fondazioni Bancarie. Un problema, come visto, che le Fondazioni Bancarie condividono con una pluralità di aziende pubbliche e private e più in generale, ma cosa forse ancor più grave, con la stessa Cassa Depositi e Prestiti in cui vantano un’importante partecipazione nonché il potere di designarne il Presidente, amplificando a livello nazionale i problemi già chiaramente riscontrabili in molti contesti locali.

La terza fase dei beni comuni che occorre aprire al più presto con un coordinato sforzo politico dal basso sarà quella che, ci auguriamo, saprà tradurre in pratica un autentico ripensamento ecologico dell’economia. Bisogna inventare e sperimentare, a tutti i livelli in cui ci sia possibile farlo, modelli di governance coordinati inclusivi e a rete, mettendo ogni istituzione pubblica in un contatto aperto, poroso e continuo col suo ambiente di riferimento.