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“The Viewing Booth” di Ra’ Anan Alexandrowicz

Giunti a conclusione dell’edizione 2020 della Berlinale, raccontiamo un documentario atipico che, partendo dall’esame di materiale video relativo alla vita nella West Bank, ci parla della psicologia dello spettatore nell’era digitale

“Let us see whether when we look at the same photographs, we will feel the same things”, scriveva Virginia Woolf nel saggio antimilitarista Three Guineas, stimolata dalle domande di un ignoto corrispondente su come evitare il verificarsi della guerra a fronte dell’imminente esplosione del Secondo Conflitto Mondiale. L’eterna fissità della fotografia coincide con un’innegabile traccia di verità – quella di un’istantanea vissuta e non più modificabile – di fronte alla quale l’intelletto umano può dare comunque sfoggio di arte retorica nel cercare di sostenere anche il più improbabile dei punti di vista. In un’epoca di consumo bulimico dell’informazione, la manipolazione del dato empirico oggettivo (quando non falsato in partenza) ha ormai assunto il livello di piaga sociale, al punto tale da dover necessariamente mettere in dubbio le correnti modalità di disseminazione e ricezione del dato stesso, soprattutto quando di ambito sociopolitico.

Ricollocando nell’oggi il “noi” della precedente citazione e ampliandone la referenzialità, il regista Ra’anan Alexandrowicz si interroga sull’efficacia del suo impegno come videomaker e documentarista del conflitto israelo-palestinese e, in termini più astratti, sul processo di fruizione di immagini del reale da parte dello spettatore. Lo sguardo del regista – l’occhio della telecamera che punta dritto allo spettatore in sala nei fotogrammi iniziali e conclusivi di questo lavoro – va dunque a sondare le reazioni di un gruppo di studenti americani durante sessioni individuali di visione di una selezione di video provenienti da fonti governative israeliane e dalla ONG B’Tselem (Israeli Information Center for Human Rights in the Occupied Territories), quest’ultima una ben nota organizzazione di attivisti contro l’occupazione israeliana nella West Bank e che raccoglie documentazione spontanea e amatoriale (principalmente video girati da privati cittadini tramite comuni cellulari) dei soprusi da parte di civili e militari israeliani ai danni dei palestinesi.

The Viewing Booth segue l’incontro tra l’autore Alexandrowicz ed una dei partecipanti all’esperimento, ovvero Maia Levy, giovane studentessa statunitense di ideologia dichiaratamente filo-israeliana. Seduta all’interno di una sala video della Temple University di Philadelphia, Maia sta di fronte allo schermo mentre il regista, collegato in filodiffusione nella stanza adiacente, la invita a visionare e commentare liberamente diversi video, spaccati di vita quotidiana in cui si vedono milizie israeliane fare irruzione in abitazioni private nel cuore della notte, sassaiole, scontri verbali e via discorrendo. Maia sembra portare avanti un’analisi semiotica rivolta soprattutto alle circostanzialità dell’evento filmato – chi ha in mano la telecamera? Perché stava filmando proprio in quel momento? Cosa è successo prima che iniziasse a filmare? – in un continuo processo di negoziazione con la propria identità, dove empatia, pregiudizio e fideismo si intersecano a più riprese. L’occhio della ragazza è evidentemente volto a individuare qualsiasi apparente incoerenza nel video di turno che le permetta di scartarlo come prodotto di finzione, soprattutto quando gli eventi mostrati risultano in contraddizione con la sua presa di posizione ideologica, spingendola verso un’introspezione personale sulle ragioni che motivano le sue impressioni. Si precipita in un gioco di specchi, una matrioska di interpretazioni dove lo stesso processo di messa in scena da parte del regista viene chiamato in causa in quanto a sua volta veicolo di significato ideologicamente orientato, quando Maia si ritrova a commentare, durante un secondo incontro con l’autore, le registrazioni della sua precedente sessione. Intrappolato in mezzo a questi molteplici piani di analisi, lo spettatore è indirettamente portato a reagire e meditare sui propri processi di significazione: è così che il tema dei rapporti tra israeliani e palestinesi finisce quasi in secondo piano, per lasciare invece spazio a un discorso ben più ampio e universale incentrato sulle caratteristiche della fruizione di un evento o di un fatto in una prospettiva postmoderna.

Per tornare alla frase di Virginia Woolf, quel “noi” – riadattato al discorso contingente – non può dunque che essere interpretato se non in chiave esclusiva, in quanto difficilmente lo spettatore avvertirà una comunanza di impressioni con Maia, la cui fede coriacea nella causa israeliana sembra non vacillare nemmeno a seguito della visione dei documenti meno equivocabili, al punto da spiazzare lo stesso Alexandrowicz, eloquentemente silenzioso in più di un momento.

The Viewing Booth diventa allora anche una intelligentissima riflessione sull’attivismo sociale e politico e sull’uso che possiamo fare degli strumenti di informazione e delle testimonianze documentarie, la cui fruizione è – e sarà sempre – inevitabilmente soggetta all’interpretazione retorica. Se uno stesso segno non può essere inteso univocamente, quali strategie dovremmo adottare per entrare in dialogo con chi non la pensa come noi e cambiarne le menti, o quantomeno accendere la scintilla del cambiamento? Rimane da sperare che questa domanda acquisti la giusta risonanza e venga adeguatamente elaborata al di fuori della dimensione tematica superficiale della pellicola.