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Nuove prospettive queer

Tra i non pochi lavori a tema LGBTQI+ del Festival di Berlino risalta “Las mil y una” di Clarisa Navas, un viaggio tra i giovani queer di un barrio argentino

Oltre a giocare a basket e passare il tempo con i suoi due cugini Dario e Ale, Iris sembra non avere altri impegni in quanto espulsa dalla scuola che frequentava per un non meglio precisato motivo. Passa le sue giornate nei cortili del brullo barrio di Las Mil, tra i cui fatiscenti palazzi incontra per caso Renata, una ragazza dalla cattiva reputazione di ritorno nel quartiere dopo alcuni anni passati all’estero, e subito si interessa a lei. Iris avrà modo di far maturare la sua infatuazione preadolescenziale in un sentimento più complesso imparando a relazionarsi con Renata all’interno della difficile cornice del barrio.

Date queste premesse, sarebbe scontato aspettarsi da questa pellicola l’ennesimo prevedibile coming of age a tema LGBTQI+ con adolescenti o poco più come protagonisti lasciati a fare i conti con la difficile scoperta di una sessualità in contraddizione con la società eteronormata e patriarcale. Per fortuna, Las mil y una, film d’apertura della sezione Panorama dell’ultima Berlinale, risulta tutt’altro che banale nella sua narrazione, grazie a un’indagine decisamente attuale sullo sviluppo dell’identità queer come forma di resistenza.

 

 

La giovane regista Clarisa Navas (classe 1989), arrivata al suo secondo lungometraggio, sa esattamente dove andare con il suo film e quali espedienti formali adottare per dimostrarlo: la scelta a livello di sceneggiatura di evitare una rigida struttura narrativa, prediligendo invece spaccati di una quotidianità a tratti ridondante che scardina lo scorrere del tempo, riesce a immergerci nel vissuto tardo-adolescenziale dei suoi personaggi fatto di uscite svogliate con una mal tollerata compagnia di quartiere tossicamente maschilista, infinite camminate per i cortili in rovina del barrio e molteplici tempeste ormonali, e vessato da un ineliminabile senso di noia che chiunque cresciuto nelle periferie saprà riconoscere. Lo spazio architettonico del barrio è reso co-protagonista silenzioso da una tremolante camera a mano che cerca costantemente di ingabbiare i protagonisti mentre ne percorrono come in un cerchio senza fine i viottoli sudici – un labirinto decadente contemporaneo, rifugio e trappola allo stesso tempo con le sue rampe semiabbandonate e i tetti bui, capace di regalare spazi appartati per incontri romantici e sessuali per poi rivelarsi teatro di bullismo e pura violenza machista. Il barrio appare come un hortus conclusus indigente nella sua apparente assenza di negozi o infrastrutture, eppure autonomo e indipendente rispetto al mondo esterno in cui, peraltro, Iris e gli altri non si avventurano quasi mai, venendo come fagocitati dal barrio stesso.

Dicevamo, l’intento della regista non è comunque quello di mostrare adolescenti in crisi o traumatizzati (i quali comunque non mancano, soprattutto all’interno del composito entourage di Renata, lap dancer in un locale notturno). Nemmeno la lettura dello spazio del barrio appena fornita deve trarre in inganno lo spettatore, in quanto l’autrice non mira a fornire una facile denuncia sociale contro il degrado sociale. Come già accennato, il cuore di Las mil y una sta tutto nel superamento della pulsione aristotelica a qualificare l’individuo in base al proprio orientamento sessuale, in nome di una queerness che non necessita di ulteriori definizioni. Vediamo allora Iris ed i suoi cugini spendere ben più tempo ed energie a cercare di capire che cosa sia la clamidia tramite ricerche su Google o come praticare il sesso anale invece di interrogarsi sul loro orientamento, che non viene mai messo in discussione (né discusso) per tutta la durata del film.

 

 

La non-necessità dell’elemento drammatico dell’autoaccettazione nello sviluppo dei personaggi e di Iris in particolare – che mai troviamo turbata né in imbarazzo per la sua pulsione verso Renata – è una vera e propria presa di posizione politica che vede nell’alienazione dalle meccaniche del potere patriarcale il punto fondativo ideale delle nuove generazion. Non è forse un caso che i nuclei familiari in cui incappiamo siano ruotino attorno alla figura materna (mentre i padri sono assenti o al massimo dicono un paio di frasi fuori campo), senza l’ombra di conflitto generazionale su temi legati alla sessualità – come nei bellissimi momenti che esplorano con grazia il rapporto tra Dario e Ale, entrambi decisamente e fieramente queer e per questo vittime della mascolinità tossica dei loro coetanei, e la loro madre.

Questi ritratti realistici di vite ai margini che più o meno consapevolmente rivendicano con i loro corpi in divenire il diritto a esistere con orgoglio permettono di leggere le identità dei protagonisti come un atto di resistenza fisiologica che cerca nella (ri)costruzione di reti sociali basate sull’affettività e l’inclusività una via per sopravvivere all’emarginazione e al diventare adulti, lungo un percorso a volte doloroso ma necessario.