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Il porno nella spazzatura

Si è conclusa venerdì sera dopo cinque giorni di proiezioni la Berlinale 2021, che si è svolta eccezionalmente interamente online. L’Orso d’Oro è andato a “Bad Luck Banging or Loony Porn” del regista rumeno Radu Jude: una commedia grottesca, girata durante la pandemia, su un caso di revenge porn, che però sviluppa tra le righe una delle riflessioni più efficaci e profonde sulla forma merce e la contemporaneità capitalistica

Viviamo nella spazzatura: il tardo-capitalismo assurto a seconda natura del contemporaneo (nel senso che è indistinguibile dalla natura perché è diventato la natura stessa) prende molto spesso queste sembianze. Se solo riuscissimo a staccarci un momento dall’identificazione con quello che ci circonda vedremmo che l’immane raccolta di merci che ci si para davanti agli occhi non è molto diversa da quello che esse diventano quando finiscono nel bidone della spazzatura. Una cosa vale l’altra: ovvero ogni oggetto è scambiabile con ogni altro; ogni oggetto ha un valore che è possibile mettere in relazione con qualunque altro oggetto, proprio perché anche quest’ultimo è portatore di valore. È la regola universale su cui si basa il modo di produzione capitalistico, mescolando (in parti non sempre uguali) indifferenza e libertà, barbarie ed emancipazione, sfruttamento e benessere.

È così che se iniziamo a guardare con attenzione alle città che attraversiamo vediamo che i cartelloni pubblicitari che mostrano i corpi scolpiti dal body building che promuovono vitamine, le pubblicità con doppio senso sessuale delle tavolette di cioccolato, le sale bingo con le slot machine, le librerie religiose che vendono libri di mistica, i supermercati, i manichini abbandonati per la strada (tutte cose che vediamo andando in giro per Bucarest in questo film) sono in un certo senso fatte della stessa sostanza. Sono – indipendentemente dalla loro apparente diversità – tutte parti di uno stesso oggetto (che è il capitale). Naturalmente un ingrediente visibilissimo che le attraversa tutte è il desiderio, e cioè il sesso. È infatti da lì che comincia Bad Luck Banging or Loony Porn di Radu Jude: con un video porno amatoriale (per altro molto esplicito, anche se evidentemente finto) in cui Emi, insegnate di scuola, si riprende in camera da letto con il marito. Il problema è che il video finisce accidentalmente online su PornHub e a nulla servono tutti i tentativi di farlo rimuovere. Dopo poco tempo è su tutti i cellulari e i gruppi WhatsApp di studenti e genitori della scuola dove Emi lavora.

 

 

Si tratta di una storia di revenge porn? Per nulla, o quanto meno solo in modo superficiale. L’operazione di Radu Jude va molto oltre la buona norma del cinema a tema sociale contemporaneo. D’altra parte ormai siamo talmente abituati a trattare il cinema come una sorta di illustrazione dei dibattiti d’attualità da social network che quasi rimaniamo spiazzati di fronte a una riflessione che invece prova a mischiare le carte in tavola e a farci riflettere sulla natura dello sguardo: cioè del modo attraverso cui vediamo le cose. Così come le esperienze che facciamo sono ormai diventate una materia grezza attraverso cui costruire la rappresentazione immaginaria di noi stessi sui social, così i film sono diventati un canovaccio per i post su Facebook, le stories su Instagram o più semplicemente delle micro-recensioni nei più noti giornali di cinema online dove viene sviluppato soltanto l’asse tematico del film e ci si sofferma solo sul contenuto. I film devono essere parte delle conversazioni del contemporaneo e purtroppo sta lì la loro trappola: devono parlare di quello che ci sta attorno; devono settarsi sul chiacchericcio effimero e quotidiano dei social network. Devono parlare di quello di cui parliamo già di solito, per diventare tutt’al più decorativi senza mettere mai in discussione il dispositivo narcisistico di massa. L’immagine deve essere “sintomatica” di un discorso altro al di fuori di sé. Il film di Radu Jude sembrerebbe a prima vista assecondare pienamente questo mood dei nostri tempi: lo è a tal punto da mostrarci addirittura la pandemia, dato che tutti i personaggi vanno in giro per Bucarest con la mascherina sul viso. Siamo insomma immersi nella spazzatura del nostro mondo: quella delle merci, quella delle nostre immagini, ma anche quella dei nostri discorsi. Eppure nella sguardo di Jude c’è anche dell’altro.

 

 

Il film che ha tutto l’aspetto di una commedia scanzonata e sopra le righe (il sottotitolo è “sketch for a popular film”) è diviso in tre capitoli: nel primo Emi va in giro per Bucarest per raggiungere la scuola dove hanno appena scoperto della diffusione del suo video e dove deve incontrare i genitori dei suoi studenti e il preside della scuola; nella terza vediamo finalmente l’incontro (che ha tutto l’aspetto di un comico processo sommario alla sua onorabilità). Ma è nel secondo capitolo che si mostra in un certo senso la chiave tutt’altro che banale del film e che sposta completamente l’asse apparentemente disimpegnato della commedia. Denominato “Short dictionary of anecdotes, signs and wonders” (piccolo dizionario di aneddoti, segni e prodigi) è una rassegna in ordine alfabetico in forma di film-essay di una serie di eventi tra i più disparati, che spesso hanno a che fare con la storia rumena recente mentre altre volte sono di nessuna apparente importanza: dalla doppiezza e ipocrisia del potere rumeno («il 23 agosto 1944 quando la Romania abbandonò l’Asse e si alleò con l’Unione Sovietica, i giornali avevano preparato due diverse prime pagine: una che giurava fedeltà a Hitler, e l’altra a Stalin»), al fascismo che ha sempre caratterizzato la Chiesa Ortodossa rumena; dai padri che spiegano ai figli il motivo religioso perché sia giusto mangiare la carne, alla P di Penguin, improbabile rapper locale; dalla B di biblioteche («da cui sempre sono venuti i macellai») alla Z di Zen («un vero poeta deve essere allo stesso tempo comico e tragico»).

 

 

Ma è forse la C di Cinema quella che ci aiuta più di altri a capire la sofisticatezza della riflessione di Radu Jude. Il regista rumeno ripercorre brevemente la storia di Medusa, una delle tre Gorgoni che aveva il potere di pietrificare chiunque incrociasse il suo sguardo e che venne sconfitta da Perseo solo grazie a uno specchio riflettente donatogli da Atena. La morale – dice il regista – è che noi non possiamo mai vedere gli orrori direttamente «perché ci paralizzano con una paura accecante»: siamo costretti a vederli solo attraverso le immagini che riproducono la loro apparenza. Lo schermo cinematografico è come lo scudo riflettente di Atena. Mentre le merci si definiscono proprio per rendere invisibili le mediazioni e la portata degli orrori che ci stanno attorno (perché dissimulano cancellandola la loro genesi sociale) il cinema, come riflessione sullo sguardo, può invece essere capace di guardare la storia in filigrana attraverso il mondo delle apparenze deformate. La storia insomma non la possiamo incontrare nella sua forma pura: la dobbiamo ricostruire a partire dall’immaginario nel quale siamo immersi e che sembrerebbe non avere alcuna via d’uscita. Provando ad agire di contropelo sulle immagini nelle quali siamo immersi. Il cinema non si fa inventando le immagini dal nulla, ma facendosi largo in mezzo a quelle che ci stanno attorno. Lo si fa con un atto di giustapposizione denaturalizzante di quello che c’è (che poi non è altro che il montaggio). È stupefacente in effetti notare come basta mostrare una donna andare in giro per Bucarest e con la pura punteggiatura dello sguardo creare una visione completamente inedita del mondo che ci sta attorno. La denaturalizzazione del mondo della merce parte semplicemente da una disciplina dello sguardo.

 

 

Nel terzo capitolo costruito come una specie di delirante dibattito da social network – dove il registro drammatico, l’ironia, la presa di posizione colta e la battuta volgare sono messe tutte una accanto all’altra gettando fumo negli occhi a qualunque velleità di comprensione – vediamo la sintesi di questa riflessione. Emi viene accusata non solo di avere compromesso la sua onorabilità di fronte ai suoi alunni per colpa del video porno, ma anche di tutta una serie di altri complotti e colpe (tra cui l’onnipresente cospirazione ebraica) che mostrano come il piano del discorso non abbia alcuna consistenza logica o razionale. La commedia – come giustapposizione di registri diversi – è diventata pienamente a questo punto del film gesto speculativo, e l’effetto comico ha totalmente assorbito la procedura denaturalizzante. Bad Luck Banging or Loony Porn riesce a essere in questo senso sia una commedia assolutamente divertente, ma anche una delle riflessioni più sofisticate e teoriche sulla contemporaneità capitalistica e la forma merce. D’altra parte se – come dice il film a un certo punto – le due parole più cercate sull’Oxford Online Dictionary sono “blowjob” e “empathy” il problema è proprio quello di provare ad abitare la loro impossibile sovrapposizione o forse persino di farle coincidere. È quello che fa Radu Jude perché forse, come dice Alenka Zupančič, è proprio vero che la commedia si basi essenzialmente su quella figura filosofica che è la coincidenza degli opposti. E che per questo rimane ancora oggi il più hegeliano (e speculativo) dei generi.

 

In copertina e nel testo alcune immagini di Bad Luck Banging or Loony Porn di Radu Jude