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Anarchy in Berlin

I verdetti dell’ultima Berlinale premiano “Touch Me Not”, una riflessione dal tono convenzionale sulle forme sessuali non conformi ma lasciano a bocca asciutta Christian Petzold, Lav Diaz e il film sul lavoro di Thomas Stuber. Ma le cose migliori si sono viste ai margini, dal documentario sul “golpe” brasiliano al messicano “Museo” fino al restauro del capolavoro “anarchico” di Edgar Reitz e Ula Stöckl del 1970

Monaco, 1970. Siamo nel retro di un ospedale, dove si tengono i cassonetti della spazzatura. Vediamo un’infermiera uscire dall’edificio della sala operatoria con un catino con dentro della placenta, aprire un cassonetto e buttarci dentro il contenuto. Dopo pochi secondi la macchina da presa inizia a guardare quello che succede: il mix di sangue, spazzatura e placenta inizia a ribollire e a muoversi come se prendesse vita. Improvvisamente vediamo il corpo di una ragazzina prendere forma, uscire al cestino di latta, scrollarsi di dosso lo sporco e iniziare a girare per il mondo. Vestita completamente di rosso e con un caschetto alla Anna Karina, la “ragazzina della spazzatura” diventerà la protagonista di una delle più incredibili (e più anarchiche) esperienze cinematografiche del Nuovo Cinema Tedesco degli anni Sessanta e Settanta.

Girato senza autorizzazioni e senza produttori da Ula Stöckl e Edgar Reitz, con i soldi che quest’ultimo aveva vinto a Venezia con il suo film precedente, Cardillac, nel 1969, Geschichten vom Kübelkind, cioè “le storie della ragazza della spazzatura”, sono state il modo attraverso cui un gruppo di cineasti militanti ha provato ad agire al di fuori delle regole della produzione e della distribuzione del grande capitale dell’entertainment. Quest’anno alla Berlinale è stato presentato il restauro di quest’opera, che per moltissimi anni è rimasta invisibile, insieme a un documentario che ne racconta la genesi e che intervista i protagonisti a quasi 50 anni di distanza.

Perché Geschichten vom Kübelkind non è solo una storia dal sapore anarchico di una ragazzina che va in giro per il mondo senza sapere nulla delle sue regole, e che inizia con un mix di ribellione e ingenuità a sovvertire l’istituzione della famiglia, della sessualità eteronormativa, del mercato capitalistico, del desiderio dominante, del moralismo delle classi conservatrici con un approccio femminista radicale all’esistenza, ma è anche stata un’esperienza produttiva di una radicalità senza precedenti. Ula Stöckl e Edgar Reitz invece che distribuire il film nelle sale decisero di creare un proprio circuito di distribuzione autogestito. L’idea di fondo era quella di mettere in discussione alcune delle regole della produzione cinematografica dell’epoca: fare film a lunghezza variabile (invece che durare i canonici 90 minuti, Geschichten vom Kübelkind è composto da 22 episodi che vanno da 2 a 20 minuti), usare linguaggio parlato e scene di nudo (il film non passò il visto di censura), e costruire una storia per cui gli episodi potessero essere visti in ordine casuale senza sottostare a un criterio di linearità progressiva (anzi, la “ragazzina della spazzatura” muore in quasi tutti gli episodi).

Geschichten vom Kübelkind venne proiettato per anni à la carte nel leggendario Rationaltheater di Monaco di Baviera. Alle 11, dopo gli spettacoli della sera, il pubblico poteva scegliere da un vero e proprio menu quali episodi vedere. Nel documentario visto a Berlino, Edgar Reitz discute con Werner Herzog dell’utopia di Kübelkind, come di un tentativo di aggirare i modi della visione imposti dal mercato capitalistico dell’epoca verso un’idea di fruizione “decentrata” e “autonoma”, dove a decidere cosa vedere era lo spettatore e non la rete di distribuzione e produzione. Eppure non può che far sorridere oggi pensare a che cosa abbia voluto dire negli ultimi anni questo modo “più libero” della visione, in un cinema che viene sempre più esperito individualmente attraverso le piattaforme di condivisione come Netflix o AmazonPrime. In un’intervista del 2017 Edgar Reitz diceva che negli Anni Sessanta e Settanta il tentativo suo, di Herzog, Kluge, Fassbinder e tutti gli altri del Nuovo Cinema Tedesco era di portare il cinema fuori dalle sale; ma oggi, visto poi come sono andate le cose, nell’epoca del cinema “espanso”, sarebbe invece il caso di tornare un po’ indietro e riportarlo un po’ di più dentro alla sala cinematografica e alla visione collettiva.

È interessante sentire queste riflessioni in un’annata dove il consumo cinematografico in sala è crollato e dove anche il più grande festival del cinema europeo, come la Berlinale (quasi 400 film presentati nella selezione ufficiale e più di 1000 proiezioni durante 10 giorni dai ritmi pressoché insostenibili), ha deciso di includere tantissime produzioni televisive e ha persino fatto vincere un’opera che è più una riflessione su una performance teorico-artistica che un vero e proprio film. Perché se c’è un grande merito nel ritornare a esperienze di cinema militante come quelle di Kübelkind non è tanto quello di fare un’operazione nostalgica che magari contribuisca alla monumentalizzazione tardiva degli anni “in cui le lotte erano davvero radicali” (un’operazione sempre più chiaramente funzionale alla svalutazione e inibizione delle lotte attuali) ma di sottolineare l’urgenza di tornare a parlare dei modi di produzione e di consumo dell’industria dell’entertainment in un’epoca di finanziarizzazione e concentrazione proprietaria e di boom del cinema delle piattaforme.

Nel frattempo la Berlinale ha concluso quest’edizione all’insegna dei temi delle relazioni di genere all’interno dell’industria del cinema con una presa di posizione esplicita dell’organizzazione di supporto al movimento #metoo, una lunga serie di iniziative tra cui un panel di riflessione intitolato “Culture Wants Change – A Conversation on Sexual Harassment in Film, Television and Theatre” e una delle più alte percentuali di presenza femminile nelle varie sezioni del festival: una sensibilità che in realtà ha sempre caratterizzato il festival tedesco che sono anni che ha un’intera sezione, per altro di grande importanza, come “Panorama” nata proprio per discutere di temi non convenzionali e di tematiche LGBTQI. In molti hanno interpretato i premi di quest’anno – sorprendenti anche per le più audaci previsioni – come un tentativo di dare uno sguardo eterodosso al cinema contemporaneo, dando riconoscimenti a cinematografie tradizionalmente considerate marginali (come il paraguayano Las herederas di Marcelo Martinessi o il polacco Twarz di Małgorzata Szumowska) e dando i due premi principali a due donne: l’Orso d’Oro alla rumena Adina Pintilie e l’Orso d’Argento a Małgorzata Szumowska.

E tuttavia ci pare che premiare un film come Touch Me Not sia soprattutto un’occasione mancata per provare a costruire un sempre più necessario nuovo alfabeto della sessualità e dell’intimità, che riesca a essere davvero coraggioso nella messa a tema delle zone d’ombra dell’esperienza del sesso e che possa a parlare con un linguaggio innovativo di esperienza di sessualità non conformi con l’eteropatriarcato. Il film di Adina Pintilie prova infatti a mettere a tema in una forma affatto originale la questione dell’intimità e della sessualità, partendo da sé, cioè dal desiderio soggettivo della regista e dell’immediato cerchio di persone che sono state coinvolte in questo progetto, che sarebbe davvero difficile da definire: un po’ performance artistica, un po’ progetto di ricerca, un po’ documentario, un po’ fiction. L’idea di implicare se stessi soggettivamente, secondo la lezione del femminismo e di mettere al centro forme di sessualità spesso lasciate ai margini del visibile, come quella che incrocia il tema della disabilità  rendeva questo film potenzialmente di enorme interesse. E tuttavia la forma scelta – quella del diario filmato, e dello storytelling in prima persona – mostrano quasi da subito tutti i propri limiti. Perché gli ostacoli che impediscono all’intimità di raggiungere una forma soddisfacente vengono immediatamente ribaltati in un discorso senza contrappunto, dove a essere descritta è semplicemente e in modo assai problematico un’espressione narcisistica del proprio sé, fino a una conclusione del film così platealmente didascalica da sempre extra-cinematografica.

Se un giusto riconoscimento viene dato alla regia a un film come Isle of Dogs di Wes Anderson (ma si tratta di un autore già ampiamente riconosciuto), ci pare però davvero insolito che proprio quest’anno che c’era un presidente di giuria tedesco (il regista Tom Tykwer, quello per intenderci di Lola corre e recentemente di Babylon Berlin) siano stati snobbati tre bellissimi film tedeschi (dei quattro che erano in concorso) come Transit di Christian Petzold, In den Gängen di Thomas Stuber e il più controverso ma densamente filosofico Mein Bruder heißt Robert und ist ein Idiot di Philip Gröning. Così come non sono stati dati riconoscimenti a due film di cui abbiamo già sottolineato l’importanza, sia per l’urgenza del tema sia per la loro politicità formale, e cioè Ang Panahon ng Halimaw di Lav Diaz ma soprattutto il bellissimo O Processo di Maria Augusta Ramos (che era nella sezione Panorama che non ha una giuria ma che ha preso solo il terzo premio del pubblico nonostante le “infuocate” proiezioni partecipatissime dalla comunità brasiliana di Berlino spesso intermezzate da cori e tifo da stadio). Tuttavia è passato un film in conclusione di festival che è stata tra le cose migliori viste a Berlino e del quale ci pare importante parlare. Museo di Alonso Ruizpalacios – che ha vinto il premio per la migliore sceneggiatura  – è un incredibile e denso heist movie su un celebre furto di opere d’arte avvenuto al Museo di Antropologia di Città del Messico.

Il valore di un’opera d’arte, si sa, è inestimabile, e gli artefatti sono a tal punto insostituibili, precipitato millenario del corso storico e culturale di un paese, che non possono essere né comprati né venduti: il loro valore assoluto coincide esattamente con l’impossibilità di attribuire loro un valore di mercato, un prezzo. Questo è quanto scoprono Juan e Wilson, amici inseparabili, trentenni scapestrati – il primo di buona famiglia, nonché mente del duo, il secondo più gregario e timido, che in casa si occupa del padre malato – una volta compiuto il furto al Museo nazionale di antropologia di Città del Messico, quando provano a rivendere i tesori maya e aztechi.

Il film rivisita la verità di un caso effettivamente avvenuto nel 1985, fondendo in modo originale generi diversi: dal road movie alla commedia, passando per il dramma familiare durante una cena di Natale che vede protagonista Juan (impersonato da uno strepitoso Gael Garcia Bernal). Il risultato è una visione gradevolissima e un insieme di contenuti versatili che investono il rapporto con la famiglia (specialmente con il padre, con i padri), il desiderio di trasgredire per affermarsi soggettivamente, la fusionalità di alcuni rapporti d’amicizia e soprattutto il valore dell’opera d’arte e la funzione del museo.

Il film tratta così del valore assolutamente astratto ma collettivamente accertato di un pezzo archeologico: l’attribuzione, diversamente da quanto avviene ad esempio nel mercato dell’arte contemporanea soggetto a regole più classicamente “finanziarie”, passa per il senso comune che riconosce nel manufatto o nel monumento l’espressione di una storia e di una cultura che sono immediatamente comuni. Che questa universalità dell’arte e della cultura sia stata anche oggetto di tensioni nazionali e appropriatrici, come nel caso del furto coloniale dell’arte altrui, è consapevolezza presente nel film, che insiste molto non solo sul valore oggettivo dell’arte antica, ma anche sulla sua natura identificativa di una certa storia o di un certo territorio. Così il viaggio verso le rovine di Palenque diventa anche una scoperta mistica del valore della tradizione, come la foto in apertura e in chiusura del film, che ritrae Juan bambino di fronte al Museo appena inaugurato, indica la sostanza biografica e identificativa (non più ornamentale e “monumentale”) della storia. Il museo allora indica il luogo di conservazione della storia dalla quale si proviene, che i due protagonisti violano – violando allo stesso tempo regole sociali e familiari, la duplice provenienza di un qualsiasi individuo – e allo stesso tempo è lo spazio in cui si esprime la tensione tra storia nazionale e universale, tra identità di una certa cultura e valore trasversale e comune dell’opera d’arte.