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The Best of 2020. Immagini Espanse

Storie di Instagram, oblique trasmissioni televisive, video su YouTube, clips, filmati promozionali, trailer, e quant’altro. Raccogliamo in questa nostra terza best of del 2020 tutto ciò che non è né una serie tv né un film. Perché il nostro immaginario visuale si nutre sempre di più di prodotti diversi e non sempre facilmente etichettabili

Forse mai come quest’anno è diventato chiaro come la nostra dieta mediale sia complessa e stratificata. Ci nutriamo ormai di una quantità di prodotti diversi, di immagini in movimento che includono sicuramente film e serie TV ma anche storie di Instagram, video su YouTube, TikTok, e tanto altro. Un ecosistema mediale in costante evoluzione e interazione, di cui ci sembrava necessario occuparci in un nuovo best of.

 

A Bergamo gli affari continuano – #bergamoisrunning

Quando lo scollamento con la realtà è talmente artefatto e ricercato da risultare violento: A Bergamo gli affari continuano, il video realizzato dalla sede locale di Confindustria per “rassicurare” i propri partner commerciali all’estero e pubblicato sui canali della confederazione degli industriali alla fine di febbraio, è una sorta di “snuff al contrario”, un lapsus taylorista-fordista-freudiano. Ne seguiranno altri. Come il più recente «riapriamo, pazienza se muore qualcuno», che è costato le dimissioni al presidente di Confindustria-Macerata Domenico Guzzini, oppure come l’immagine delle migliaia e migliaia di attività non essenziali che rimanevano aperte durante il primo picco dei contagi, in deroga ai decreti di marzo (e in disprezzo a qualsiasi tutela della salute di lavoratori e lavoratrici). Gaffe, dichiarazioni a mezza bocca, atteggiamenti poco trasparenti… tutta una serie di inaspettati “errori di sistema”, che hanno avuto però il merito di rivelare quali fossero le priorità del potere industriale nella pandemia di Covid-19: “il nostro profitto contro le vostre vite”, semplice come si trattasse di uno slogan…

E, a ben vedere, le dinamiche profonde di un tale, sdegnoso, meccanismo stavano già tutte in quello spot di “inizio epidemia” e in quell’hashtag diventato ormai oggetto di scherno: #Bergamoisrunning – pronunciato nel momento in cui invece prudenza e distanziamento costituivano le prime forme di cura e prevenzione – rappresenta lo strapotere del cosiddetto storytelling nei confronti dell’ascolto dei dati di fatto, la prevaricazione testosteronica e ingannevole dell’ingiunzione al consumo sopra i diritti di chi, col proprio lavoro e col proprio corpo, rende anche solo pensabile quello stesso consumo. Nel celebre Essi vivono, diretto da John Carpenter più di trent’anni fa, era lo sfruttato ed emarginato protagonista John Nada che, dopo aver indossato degli speciali “occhiali da sole” trovati quasi per caso, poteva finalmente osservare la società neoliberista nel suo lato più terrorizzante e indicibile: fedeltà cieca alla legge, conformismo, sottomissione al capitale… Con A Bergamo gli affari continuano è invece come se fossero quegli stessi soggetti che contribuiscono a perpetrare sfruttamento ed emarginazione a indossare gli “occhiali magici” e a mostrare al mondo le cose come stanno: in meno di due minuti di video, fra moine registiche e gesti retorici per compiacere i clienti, Confindustria palesa verità inconfessabili attraverso l’eccesso di finzione, mette in scena una realtà forzatamente idilliaca mentre tutt’attorno la gente muore. Miglior “horror involontario” dell’anno. [Francesco Brusa]

 

Le dirette di Conte. Una passione italiana

Sembra passata un’eternità da quando il nome di Giuseppe Conte iniziava a circolare come papabile per il ruolo di Presidente del Consiglio. Pochi ne sapevano qualcosa, chi scrive lo incrociava per il polo di Novoli quando il nostro insegnava a Giurisprudenza. Dalla caduta del governo a guida M5S-Lega è stato l’unico a esserne uscito vincitore. Strattonato dai Salvini e dai Di Maio, apprezzato tanto da Trump quanto da Merkel, l’uomo senza qualità sembrava Montesquieu.

È rimasto in carica per un governo con colori diversi, guidato da M5S-Pd. Scoppia la pandemia della Covid-19 e l’Italia è il primo paese europeo a subirne gli effetti devastanti. Il 9 marzo Conte annuncia alla nazione l’inizio del primo lockdown. Si apre la fase dei DPCM, venti nei sessantanovegiorni del blocco totale. DPCM che sono entrati di forza nell’immaginario popolare, diventando un appuntamento per tuttx, incollatx al televisore con apprensione e spesso qualche tipo di bevanda alcolica a portata di mano.

Conte è stato un po’ papà un po’ amante maturo (chiedere a Le bimbe di Giuseppe Conte), sciogliendo il cuore dellx italianx a suon di conformismo e pacatezza, pure quello dex giovani riottosx. Pagine facebook, pagine instagram, meme, video proliferano e lui ne è l’assoluto protagonista. Ci siamo trovati impreparati di fronte alla Covid-19, Giuseppe Conte era lì, presidente del consiglio, e «un uomo senza qualità non dice di no alla vita, dice “non ancora!” e si risparmia» (L’uomo senza qualità, Robert Musil). E di questo forse avevamo bisogno. [Jacopo Favi]

 

Le immagini al tempo del CoronavirusGodard in diretta su Instagram

Capelli spettinati, gilet verde e immancabile sigaro tra le mani. È così che Jean-Luc Godard, novant’anni compiuti da pochi giorni, è apparso sui telefoni dei cinefili di tutto il mondo il giorno di Pasquetta, protagonista di una storica diretta Instagram, proprio lui, uno dei più celebri demistificatori della televisione e dei media, custode della memoria della celluloide – «la televisione crea l’oblio, il cinema ha sempre creato ricordi», era solito dire. Così quella profetica immagine annunciata da Enrico Ghezzi, che lo vedeva come «lo Sherezade di se stesso», intento a raccontare all’infinito «i dati, gli istanti, i punti, i pixel del proprio autoritratto, per non arrivare a compierlo», continua a prender vita.

L’approdo sui social, con quasi due ore di conversazione con il professore Lionel Baier sui canali dell’ECAL di Losanna, dal titolo Le Immagini al tempo del Coronavirus, è dunque l’ultima, vertiginosa, tappa di un tortuoso vagare tra supporti e formati in moltiplicazione, di un’odissea forsennata – dantesca, non omerica – volutamente destinata a confrontarsi per sempre con l’ambiguità del reale. Ma è anche un viaggio à rebours nella memoria, dove la pulsante attualità della pandemia conduce sì ad una riflessione sul presente, ma insieme, proustianamente, al passato prossimo e remoto della bio(filmo)grafia di Godard, all’epoca di Langlois e dei Cahiers, al rapporto con Truffaut e Rivette, all’influenza di Rohmer, «figlio primogenito» della Nouvelle Vague, alla polemica sull’autorialità, ai progetti con Anne-Marie Miéville. Ancora un soffio di vita a riempire la sua ultima creazione,.

Iconoclasta e beffardo nei confronti della realtà, o dell’idea di realtà veicolata dalle parole e dalle immagini, a cominciare da quelle trasmesse dai mezzi di comunicazione che anche oggi, davanti al dilagare del virus, «esso stesso una forma di comunicazione», restano inesorabilmente parziali e incapaci di informarci. Questo perché il problema è nella lingua, ci fa notare il regista, «non credo nella lingua. Credo che il vero problema e ciò che deve esser cambiato è l’alfabeto. Ci sono troppe lettere ed occorre sopprimerne molte e andare oltre. Come hanno sempre fatto i pittori». D’altronde, già in Nouvelle Vague e in La Chinoise alla domanda «che cos’è la parola?», la risposta data era «la parola è ciò che si tace». Dopo il silenzio ciò che resta, ancora una volta, è «juste une image». L’immagine violentemente colorata, sanguigna, rimaneggiata, dei suoi ultimi film, l’ulteriore frutto di un regista-pittore capace di «captare istanti spaziali». [Dafne Franceschetti]

 

8:46 di Dave Chappelle

Con la premessa «normalmente non presenterei qualcosa di così poco lavorato, ma spero possiate capire», lo stand-up comedian Dave Chappelle rompe il silenzio della pandemia e trasforma una delle sue performance in un grido di rabbia contro la brutalità razzista perpetrata dalla polizia statunitense sulla popolazione afroamericana. È il 6 giugno 2020, poco più di dieci giorni dall’omicidio per soffocamento di George Floyd a Minneapolis, il cui filmato ha già fatto il giro del mondo dirottando l’attenzione esclusiva dalla crisi sanitaria a una nuova ondata di rivendicazioni e rivolte per le strade d’America.

Il monologo, programmato in una location privata all’aperto in Ohio con un centinaio di spettatori distanziati, viene caricato qualche giorno dopo sul canale YouTube “Netflix is a Joke” e riprende nel titolo quegli 8 minuti e 46 secondi che sono serviti al poliziotto Derek Chauvin per soffocare Floyd premendogli il ginocchio sul collo sotto lo sguardo indifferente dei colleghi. Chappelle restituisce e amplifica l’orrore verso quel gesto («8 minuti e 46 secondi! Questo ragazzo sapeva che sarebbe morto, sapeva che stava per morire, e ha chiamato sua madre, sua madre defunta»), e lo connette, come spesso accade nel suo discorso politico intorno alla vita della black people, a un piano simbolico ineludibile e radicale: 8:46 è anche l’ora in cui Chappelle è nato, un monito fortuito come a dire che quando un afroamericano viene al mondo negli USA, è intrinsecamente esposto alla violenza che potrebbe ucciderlo.

Il trauma della schiavitù come esperienza genetica. Non fa ridere, la performance di Chappelle, piuttosto punteggia di sorrisi amari un discorso che mescola furore, contrizione e stanchezza, in una sorta di esorcismo collettivo che, ovviamente, non può bastare a interrompere la catena di violenza della white supremacy negli USA. In nemmeno mezz’ora vengono citati altri casi significativi di questa storia infinita (e spesso impunita), da Eric Garner a Philando Castile, da Trayvon Martin a John Crowford, e fustigate le affermazioni di opinionisti e commentatrici politiche di ala conservatrice (su tutte, Laura Ingraham e Candace Owens, quest’ultima afroamericana). Non estraneo a diverse controversie sulle possibili ombre reazionarie di certe sue performance, specialmente quelle legate al recente accordo con Netflix, Chappelle qui esprime con disincanto un dolore autentico, che non è possibile accomodare in alcuna battuta a effetto. [Marco Longo]

 

Tenet – Boris Trailer

Che succede quando il film 2020 che avrebbe dovuto salvare il cinema (Tenet di Christopher Nolan) incontra un cult duraturo e costante reinvenzione come la serie TV Boris? Che il trailer prodotto da Luca Mignardi (un montatore e digital compositor di effetti speciali) diventa a sua volta un piccolo cult. «Quello che posso darti è una parola», comincia così il trailer, con una delle battute più importanti del film di Nolan. La risposta nel film è proprio Tenet, ma qui vediamo apparire Padre Gabrielli, uno dei due personaggi interpretati da Corrado Guzzanti in Boris, che dice «Che tenet’?» (nell’accezione dialettale di «cosa avete») e da lì partono una serie di precise associazioni linguistico-visuali con alcuni dei principali protagonisti di film e serie TV.

Due mondi apparentemente lontani che si incontrano, grazie a una notevole professionalità nel montaggio e una creatività brillante. Visto oltre centomila volte (di cui circa un’ottantina da chi scrive), il trailer dimostra come Boris, a oltre dieci anni dalla messa in onda dell’ultimo episodio, sia ancora un prodotto noto e le cui battute circolano stabilmente (esistono del resto varie operazioni simili). Nell’anno del decennale tra l’altro, sono stati gli stessi membri del cast a presenziare a eventi speciali, mentre l’acquisizione della serie nel catalogo Netflix ha aumentato la base di spettatori, facendo vivere a Boris una vera e propria seconda giovinezza. Ma il trailer Tenet-Boris dimostra anche come video mashup e fan-made trailer, due dei capisaldi di quella che gli studiosi dei nuovi media chiamano media convergence (convergenza mediale) e participatory culture (cultura partecipativa), hanno fatto enormi passi in avanti dai primi tentativi di prodotti ultramatoriali fatti con pochi mezzi e un po’ sconnessi a trailer di stampo professionale. Lungo solo due minuti e 44 secondi, risulta più solido e comprensibile di Tenet il film, che dura invece 2 ore e mezza. Per chi ne vuole ancora, c’è anche il mashup Tenet Fantozzi. [Luca Peretti]

 

Contenuti scabrosi su Instagram

Corpi veri, esili e abbondanti, lisci e pelosi, che eccedono e si ribellano a canoni di bellezza asfissianti e asettici. Corpi che trasudano desiderio. Esistono anche su instagram, ad esempio nelle storie di @cameravalentina_ in cui le foto di nudi si mescolano con le immagini dell’universo. Le combinazioni non sono casuali: ogni persona, ritratta nuda o semi-nuda, sovrappone la foto del suo corpo a quella scattata dal telescopio Hubble nel giorno in cui è nata e ciascuna immagine è accompagnata da una breve auto-narrazione della persona ritratta. Il progetto si chiama “sendNUDIverse”, è iniziato ad aprile e durante tutto l’anno ha raccolto moltissime immagini, visibili sia nelle storie sia nei post della pagina. I corpi ribelli hanno approdato su instagram anche grazie a @clitoridea, con l’iniziativa “il corpo sa tutto”, che era nata per pubblicare i contenuti direttamente sulla pagina, ma per via della censura ha dovuto ricorrere a un escamotage e ora le immagini sono accessibili da un pdf sul suo blog. Anche qui, chi decide di partecipare con la propria foto, inserisce un breve testo in cui racconta qualcosa di sé.

La Camera di Valentina e Clitoridea su instagram parlano di sessualità, concentrandosi sul suo aspetto erotico. I post, le storie, le discussioni quotidiane quest’anno sono cresciute in maniera esponenziale, sia in termini di contenuti sia di interazioni e, grazie alle immagini in movimento, hanno riportato l’erotico al centro dei discorsi. L’erotico nell’arte nel caso di @cameravalentina_, l’erotico nella letteratura nel caso di @clitoridea, l’erotico nella vita di chiunque abbia voglia di rimettersi in discussione e lasciarsi stimolare da questi contenuti “scabrosi”. Sì, scabrosi perché per le regole di instagram tutto questo è pericolosamente inappropriato. A partire dal 20 dicembre si sono aggiornate le condizioni d’uso della piattaforma con regole sempre più strette sulla censura, e la sopravvivenza di pagine come queste è sempre più incerta. Il 2020 potrebbe essere solo l’inizio di un meraviglioso diffondersi di corpi ribelli, di discussioni aperte sull’erotico, un’esplosione di desiderio tanto vitale quanto necessaria. Ma potrebbe anche essere ricordato come l’ultimo anno in cui questi contenuti erano visibili su un social così vasto come instagram. [Sofia Cabasino]

 

L’esplosione del porto di Beirut

Foto di mehdi shojaeian, Mehr News Agency

Con che immagine verrà ricordata l’esplosione al porto di Beirut del 4 agosto che ha causato oltre 200 morti, 6500 feriti, 300mila lasciati senza casa e qualche milione di danno? Nella moltiplicazione di video amatoriali, subito acquisiti da grandi media, non esiste infatti un’immagine simbolo, più stabile delle altre. Il Guardian ha messo insieme in un breve video di 40 secondi (visto oltre 12 milioni di volte) quattro filmati da diverse angolazioni e punti di vista. Sono tutte immagini amatoriali – a differenza di eventi passati di solito ripresi da fotografi professionisti o network televisivi.

Il Guardian invece raccoglie i brevissimi filmati incerti di un* sconosciut*, di Sondoss al-Asaad, di @tayyaraoun1, e di Ahmad M. Yassine. Non sappiamo nulla di loro, soltanto che il 4 agosto 2020, alle ore 18.08, si trovavano a Beirut e hanno acceso la camera del loro smartphone e hanno poi autorizzato in qualche modo il Guardian a usare il loro materiale. Il video di cui non conosciamo autore o autrice è filmato da molto lontano, ma nonostante questo deve distogliere la telecamera e scappare dopo pochissimi secondi, appena si verifica la seconda esplosione. Dinamica simile nel secondo, che però sembra più vicino e più in alto. @tayyaraoun1 si trova su una barca, anche se poi uno strano taglio ci riporta sulla terraferma, con Ahmad M. Yassine che si trova invece a qualche quartiere di distanza dall’esplosione – che gli fa precipitare a terra lo smartphone. Tanti punti di vista, nessuno canonico, nessuno diventato iconico. E forse sarà sempre di più così anche in occasione di eventi importante, perché produciamo sempre più immagini, perché tutte e tutti siamo possiamo fornire una nuova angolazione e un nuovo punto di vista. [JacopoFavi+Luca Peretti]

 

Una pezza di Lundini

Aldo Grasso lo ha definito «una grande lezione sulla tv generalista dove si dimostra come l’insignificanza sia il motore principale di quasi tutti i discorsi». Ma Una pezza di Lundini non è soltanto «un programma con tantissime recensioni positive», come ama ricordare quasi ogni puntata, ironicamente, il suo ideatore-conduttore. Costruita su 39 puntate, scritte da Valerio Lundini assieme a Giovanni Benincasa, andate in onda (quando capita) dal 7 settembre al 23 dicembre in seconda serata su Rai2, questa trasmissione è forse il più rilevante caso televisivo del 2020. All’interno di un palinsesto generalista sempre più schiacciato sulla forma stantia e ridondante del talk in diretta, la pezza rappresenta la rinascita dell’intrattenimento televisivo nell’era dello streaming. Va in onda (registrata) su un canale tradizionalmente generalista, ma viene fruita anche online nei giorni seguenti su RaiPlay e su YouTube.

Retoricamente presentato come una pezza, preparata per sostituire all’ultimo minuto una serie di improbabili programmi, questa natura imprevista della trasmissione non è soltanto un’invenzione narrativa, ma finisce in qualche modo per definirne la messa in onda. Non potendo godere di una collocazione periodica all’interno del palinsesto di rete, la fidelizzazione degli spettatori e delle spettatrici è dunque interamente destinata al mondo virtuale (spesso si scopre la messa in onda del programma dalla mattina alla sera grazie ai tweet di Lundini stesso).

Questa vocazione al consumo inatteso e spezzettato influisce non soltanto nel target, ma anche nelle forme e nei contenuti del programma, tutt’altro che imprevisto e improvvisato. Se la pezza è un classico contenitore televisivo (al cui interno troviamo musica, sketch, interviste, servizi pre-montati, il tutto realizzato con l’ausilio di incredibili talenti come Emanuela Fanelli e Alessandro Gori), si sviluppa tuttavia su una pezzatura da sitcom (20 minuti circa a puntata). L’esplicita auto-riflessività sul mondo della televisione è costruita su circostanze surreali e stranianti, gestite in modo serissimo da un conduttore impreparato (Lundini stesso) ma convinto di saper gestire brillantemente ogni situazione paradossale che accade in studio, tra tempi morti, gaffe e silenzi imbarazzanti.

Una pezza di Lundini gioca di avanguardia sulle retoriche della normalizzazione televisiva, ricostruendo un’estetica della relazione grottesca e disagiata (oggi si direbbe cringe) tra realtà e finzione che mancava sul piccolo schermo dai tempi di Gregoretti, Cochi e Renato, Arbore, Guzzanti. Dopo aver visto tutte le puntate, resta negli occhi proprio il colpo di scena finale à la Philip K. Dick: Valerio Lundini non esiste, è un’identità fake costruita da Marco Travaglio, che in realtà ha condotto il programma per 39 puntate. In pieno spirito libertario, anche il titolo del programma viene demolito: quella che sembrava satira televisiva, finisce per diventare un manifesto televisivo dell’anti-televisione. [Damiano Garofalo]

 

Ferragni: «essere donne nel 2020»

Tra le cose più assurde accadute nel web questo anno c’è stato sicuramente il discorso di Chiara Ferragni contro il patriarcato. Ferragni si presenta di fronte la telecamera del suo cellulare con il suo solito stile casual, orecchini d’oro, diversi anelli con diamanti alle mani, trucco non eccessivo, e un maglioncino rosa. Colpisce subito il fatto che di fronte a lei abbia due fogli di appunti scritti a penna, inizialmente è titubante e spiega: «ho preso tantissimi appunti, spero di non sembrare pazza». Il video, registrato in seguito al caso Genovese, oggi ha più di 8 milioni e mezzo di visualizzazioni.

«Il problema è che la nostra società è ancora molto maschilista e ancora molto una società patriarcale», queste le prime parole, subito dopo l’introduzione, che ci fanno intuire quanto la business woman, insignita dell’Ambrogino d’oro, si stia inserendo in un campo a lei non del tutto familiare. Il video è lungo dieci minuti, e gira intorno a tre punti principali: il victim blaming dei giornali che alimentano un atteggiamento colpevolizzante nei confronti delle donne, e qui attacca direttamente gli articoli scritti su Genovese, facendo esplicito riferimento, senza nominarlo, all’articolo del Sole 24 ore, poi rimosso. Lo slut shaming, Ferragni legge la definizione «far sentire una donna colpevole o inferiore per determinati comportamenti o desideri sessuali che si ritengono in contrasto con il proprio ideale femminile» e la ricollega al caso della maestra di Torino ingiustamente licenziata. Ferragni chiarisce come questi non siano in alcun modi atti di goliardia ma reati da denunciare. E il terzo punto, ripetuto più volte nel video, è come il maschilismo non sia solo un problema degli uomini, ma anche delle donne, che sono le prime ad essere giudicanti nei confronti delle altre donne. «Dobbiamo essere alleate e sostenerci a vicenda».

Il video è di una sincerità disarmante, tratto ricorrente nei contenuti di Ferragni. Il 25 novembre Ferragni ha dedicato tutte le sue stories alla violenza contro le donne, ripostando contenuti di diverse pagine che fanno informazione sul tema. “Essere donna nel 2020” ha scatenato il panico nel mondo dell’instagram-femminismo, lacerando le influencer, e dividendo il campo tra insulti e attacchi. È vero Ferragni non ha rinnegato il capitalismo, non ha smesso di vendere la sua immagine e quella del figlio minore, e purtroppo non ha devoluto tutto il suo patrimonio alla distruzione del patriarcato (un po’ ci avevamo sperato!). Ma di certo è stata molto più includente di Concita de Gregorio che lascio spazio ad articoli trans-escludenti! Ferragni ha forse colto una palla al balzo. Ora sta ai movimenti femministi continuare il palleggio, si gioca lungo quella sottile linea che scorre tra sussunzione ed egemonia. C’è chi sostiene che si è oltrepassata e bisogna fermare il gioco. Altre invece hanno deciso che non è il momento di fermarsi: bisogna cambiare le regole del gioco. [Vanessa Bilancetti]

 

All Net. Barack Obama da tre punti

White men can’t jump. Il vecchio adagio si è riproposto per filo e per segno alla Flint Northwestern High School durante la scorsa campagna elettorale per la Casa Bianca: il 44° presidente degli Stati Uniti riceve palla, step-back, tiro da tre, solo rete. Quindi Barack Obama lascia la palestra, swag puro, afferrando un caffè, abbassandosi la mascherina e puntualizzando “That’s what I do”. E il senatore Joe Biden, futuro 46° presidente, entra in campo, pardon, nell’inquadratura, proferendo da sotto il suo DPI un semplice ma giusto “Whoa!” e va via.

Quanti livelli di lettura ci sono in questo video di trenta secondi? Solo l’esatta corrispondenza delle immagini con il gesto, solo un uomo che gioca a basket. O meglio, un afroamericano che gioca a basket. Perché se c’è un aspetto inequivocabile del mandato del primo presidente afroamericano è il suo viscerale, ambito, ostentato legame con la palla a spicchi, un’identificazione che abbraccia la totalità del gioco, anzi rivendicandone il profilo per alcuni più scomodo, quello razziale, black, nera. Obama alla Casa Bianca ha significato otto anni di amore e impegno per il basket, e il riconoscimento, reale, tangibile e partecipato, da parte di gente come LeBron James, Dwayne Wade e Chris Paul, di avere un fratello a capo della nazione, di più, il Baller-in-Chief la cui sola propedeutica presenza ha iniziato a risvegliare un impegno politico di massa divenuto pubblicamente evidente e necessario nel rovesciamento speculare della presidenza black in quella white, da Barack Obama a Donald Trump. E se l’NFL (il football americano bianco) ha faticato a seguire celermente e totalmente gli inginocchiamenti di Colin Kaepernick sull’onda lunga dell’omicidio di Michael Brown e Ferguson, l’NBA (il basket americano nero) tutta ha preso posizione dopo l’omicidio di George Floyd, scioperando, donando, protestando, supportando, partecipando, votando.

Il filo e il segno, l’immagine e il gesto, black e white: Ta-Nehisi Coates (chi se non lui?) lo diceva già dopo appena sei mesi di presidenza Trump, chiamate le cose per quello che sono, scrivete dei fatti per come realmente sono – che l’America è stata fondata sul sangue degli schiavi, che il razzismo sistemico fa parte dell’identità nazionale, che il 45° presidente degli Stati Uniti accetta il suprematismo bianco. E che il basket può aiutare a spezzare tutto questo, perché come diceva uno di Portland, uno di Detroit, un fratello, ball don’t lie. [Luigi Coluccio]

 

La conferenza stampa al Four Seasons Total Landscaping

Foto di Gage Skidmore – Wikimedia Commons

«Ok, mando io la posizione». Deve essere andata più o meno così il 7 novembre 2020 tra Donald Trump e la sua squadra elettorale. Nel bel mezzo della disputa sui risultati delle presidenziali statunitensi c’era da convocare una attesissima conferenza stampa e lui si era assunto il compito di farlo dal suo account Twitter, @realDonaldTrump. Qualcosa però è andato storto e il comandante in capo ha confuso una famosa catena d’alberghi di lusso con un negozio di periferia e ha convocato la «big press conference» nel parcheggio del Four Seasons Total Landscaping, paradiso del giardinaggio nella periferia di Philadelphia. Il tweet era partito, non si poteva tornare indietro. Va bene mettere in discussione la legittimità dei risultati elettorali lasciando andare la fantasia per immaginare e denunciare qualunque tipo di brogli ma Trump non è tipo da rimangiarsi un tweet, ne andrebbe della sua credibilità.

E allora al lavoro, una delle saracinesche del negozio è stata attacchinata con i manifesti Trump2020, un piccolo podio mobile veniva piazzato davanti alla saracinesca e la zona stampa allestita nel piazzale del parcheggio. È così che Rudy Giuliani, consulente legale di Donald Trump, la mattina del 7 novembre 2020 si è ritrovato di fronte a giornaliste e giornalisti per una delle conferenze stampa più attese dalla notte del 3 novembre. C’era infatti da capire se Trump avrebbe concesso la vittoria al candidato democratico Biden o se sarebbe andato avanti con le denunce di brogli e i ricorsi legali per il riconteggio e l’annullamento dei voti per posta arrivati dopo la data della giornata elettorale. Tra un  sexy shop a destra e un crematorio a sinistra Giuliani, per conto del presidente in carica, lanciava strali contro Biden e il partito democratico, denunciava un presunto complotto contro Trump e assicurava che il vero vincitore delle presidenziali fosse lui, l’uomo che gli paga le parcelle, quello per il quale avrebbe portato avanti battaglie legali prive di alcun fondamento e una conferenze stampa che difficilmente dimenticheremo. [Alessandro Pes]

 

Luigi Di Maio a Novantesimo minuto

Il 13 dicembre 2020, il giorno più corto dell’anno, Luigi Di Maio compare sugli schermi di Novantesimo Minuto per dire qualcosa, in quanto Ministro della Repubblica, sulla scomparsa di Diego Armando Maradona e di Paolo Rossi. Spronato dal deferente Enrico Varriale, Di Maio prende avvio proprio dal campione argentino, affermando che egli costituisce un pezzo di storia di Napoli, anche al di fuori del campo» e che da piccolo, quando qualcuno dei suoi amici voleva fare il fenomeno con il pallone tra i piedi, gli veniva detto: “«Chi sei, Maradona?». Ciò rivela molto della scarsa fantasia del bambino Luigi e dei suoi amici – l’insulto calcistico è un’arte che va coltivata fin dall’infanzia e non ammette simili banalità – e della necessità, da parte del Luigi adulto, di proporre narrazioni così ampie e inclusive da risultare insipide, nostalgiche senza la potenza della nostalgia. Insomma, qualcosa che si avvicina a quella “seconda lacrima” che per Kundera è l’essenza del kitsch.

Ciò emerge soprattutto quando Di Maio sostiene di aver proposto al ministro dello sport Spadafora, in quanto Ministro degli Esteri (ricordiamo sempre l’importanza della forma…), l’organizzazione di un «triangolare per la pace» tra Italia, Inghilterra e Argentina proprio al vecchio stadio “San Paolo” – ora “Diego Armando Maradona”. Un’idea che, oltre a essere esilarante, nasconde una visione del mondo priva di conflitti, in cui global north e global south possono instaurare un dialogo e non entrare in dialettica, perché l’idea stessa della contrapposizione è insostenibile. Anche a costo di tradire la vita di chi si vuole celebrare: il kitsch, si sa, trasforma tutto in un simulacro anestetizzato.

La morte di Paolo Rossi, infine, mette a nudo il kitsch di Di Maio attraverso un ribaltamento comico. Di nuovo torna la retorica dell’età dell’oro degli anni Ottanta, l’epoca in cui l’Italia riuscì a liberarsi degli “spiriti funesti” degli anni Settanta, per raggiungere quel livello di benessere che oggi appare solo un tenue ricordo. Paolo Rossi, secondo Di Maio, rappresenta questo: un’Italia vincente, che insegna ai tedeschi dell’ovest come si sta al mondo attraverso gli occhi gagliardi e sorridenti di Pertini. Senonché Di Maio sbaglia il nome del terzo marcatore, scambiando Altobelli per Rossi, che invece segnò il primo gol. Insomma, una comica caduta di stile che rivela la superficialità dello sguardo del ministro, più attento a evidenziare l’importanza della rimozione di qualsiasi conflitto che a conoscere ciò di cui sta discutendo. Perché, in fondo, come ricorda di nuovo Kundera, è meglio compiacersi di se stessi che afferrare le cose nella loro profondità. E, in tal senso, non è meglio il kitsch del politico? [Diego Cavallotti]