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Una fiction troppo italiana

Tornato disponibile grazie a Netflix, Boris è da anni un prodotto di culto in Italia, grazie a una satira che, invece di concentrarsi sulle responsabilità individuali, costruisce una lucidissima critica al sistema dell’industria creativa

Se avete fra i trenta e i quarantacinque-cinquant’anni è molto probabile che abbiate trovato rifugio, in questo periodo di generale incertezza, nel familiare (ma per nulla rassicurante) binge watching di Boris. Considerato praticamente all’unanimità un piccolo gioiello della serialità nostrana, nel triennio 2007-2010 Boris ha fatto da apripista alla produzione seriale italiana sui canali satellitari e si è in poco tempo trasformato in un fenomeno di culto: a fronte di dati d’ascolto tutt’altro che entusiasmanti, infatti, si è ritagliato grazie a internet e a una circolazione più o meno pirata un seguito piuttosto nutrito, soprattutto in quella fascia di pubblico giovane che oggi, a distanza di dieci anni, sta compulsando le puntate disponibili su Netflix.

Se Boris è stato, per qualche settimana, fra i prodotti più visti su Netflix (sempre che dei dati piuttosto fumosi forniti dalla piattaforma ci si possa fidare) non è solo, però, per effetto di quella nostalgia che oggi sembra essere alla base di molti dei nostri consumi culturali. Boris ha poco del fascino del prodotto vintage, né rimanda a un’età dell’innocenza da rimpiangere o in cui rifugiarsi a mo’ di consolazione. Certo, ci sono i telefonini, allora per niente smart; ci sono gli immancabili riferimenti intertestuali alle fiction generaliste di grande successo in quegli anni – si pensi anche solo all’efficace parodia che Pietro Sermonti fa, attraverso il personaggio di Stanis/il dott. Giorgio de Gli occhi del cuore, del buon medico altruista che aveva interpretato in Un medico in famiglia – e ci sono gli ultimi fuochi del governo Berlusconi. Ma, esclusi questi elementi, Boris non ci appare per nulla inattuale, anzi: più volte, rivedendolo, ci si sorprende a pensare che potrebbe essere stato girato oggi, tanto riesce a parlarci con impressionante lucidità del presente.

 

 

Lo ha sottolineato, tra gli altri, anche Luca Barra: soprattutto la terza stagione, che ha impresso alla serie un ancor più deciso intento politico, ha almeno un paio di scene non solo memorabili, ma sinistramente profetiche: quella della famigerata “festa del Grazie”, con le quaglie portatrici di un’epidemia (“pandemia”, anzi), che dall’Asia giunge in Italia, e il famoso monologo della “locura”, che condensa in poche, memorabili battute, l’immaginario di un paese culturalmente e politicamente immobile, che tutt’al più si lascia sedurre da forme superficiali e innocue di trasgressione.

Ma l’altro aspetto che fa di Boris un unicum nel panorama seriale italiano – e non solo – è la straordinaria efficacia con cui costruisce una lucidissima critica al sistema. Quello dei media, in primis: seppure attraverso la lente deformante della satira, Boris ha descritto in modo puntualissimo le dinamiche interne e le storture dell’industria creativa, molto meglio di certi prodotti più seri e blasonati, anche made in Usa, che si ostinano a focalizzarsi sulle sole responsabilità individuali, ignorando consapevolmente le questioni di carattere sistemico.

Certe routine produttive e di lavoro dell’industria dei media, nella serie, sono raccontate con l’occhio attento, sferzante e puntuale degli insider decisi a togliersi più di qualche sassolino dalla scarpa: non solo perché è possibile riconoscere, in filigrana, nomi e società esistenti (la Magnesia, per esempio, il cui nome allude a Magnolia), ma soprattutto per come viene ricreato l’ambiente fortemente gerarchizzato, alienante, che poggia su pratiche di sfruttamento e di abuso di potere più o meno evidenti delle produzioni TV. Da un lato ci sono i lavoratori below the line (le maestranze): concreti, più sindacalizzati, dediti a una pratica artigianale che però, stritolata dai ritmi di lavoro forsennati, dettati anche dall’esigenza di stare dentro il budget previsto, si limita a una pigra routine; dall’altro gli above the line – il cast artistico, il regista, gli sceneggiatori… – responsabili di un processo creativo reso monotono e ripetitivo, disillusi o, viceversa, dediti a coltivare velleità destinate a rimanere tali, affetti da manie di grandezza o da una più concreta smania di guadagno. L’ultimo anello della catena alimentare appena descritta, quello degli stagisti Alessandro e Lorenzo, ben esemplifica il funzionamento di quelli che John Caldwell definisce i «”sistemi di libro paga simbolici” attraverso cui lavoratori sottoimpiegati e sottopagati sono in realtà retribuiti» (Intorno alle industrie dei media. Dieci tratti distintivi e sfide per la ricerca, in L. Barra, T. Bonini e S. Splendore, Backstage. Studi sulla produzione dei media in Italia, Unicopli 2016, p. 171), cui facevo riferimento anche a proposito di The Morning Show. La disponibilità dei lavoratori dell’industria dello spettacolo a prestarsi ad attività altamente stressanti per compensi bassissimi, o addirittura inesistenti, è spiegabile solo se si considera che la loro retribuzione passa attraverso forme di capitale artistico, simbolico: detto altrimenti, è il desiderio di vedere riconosciuta la propria professionalità e il proprio valore artistico all’interno di un sistema visto, dall’esterno, come una fabbrica dei sogni, a garantire all’industria di poter perpetuare certe pratiche di sfruttamento. Gli stagisti in Boris accennano talvolta timidi tentativi di ribellione, ma finiscono sempre per sottostare agli ordini e alle vessazioni degli altri membri della troupe e degli attori, motivati da una vaga promessa di successo.

 

 

Che la questione del lavoro e del salario non sia affatto secondaria in Boris lo testimonia la storyline del capo elettricista Biascica. Nella seconda stagione, Biascica è affetto da vertigini che gli impediscono di svolgere il proprio lavoro. La psicoanalista da cui va in cura cerca di scavare nel suo inconscio alla ricerca dei traumi infantili che potrebbero aver determinato la sua fobia, ma l’uomo guarisce soltanto nel momento in cui gli vengono finalmente pagati “gli straordinari d’aprile”: quando, cioè, il suo lavoro è riconosciuto ed equamente ricompensato. Non c’è, credo, risposta più arguta a quanti riversano solo sull’individuo la responsabilità del proprio benessere, rifiutando di riconoscere quelle del sistema capitalistico.

In Boris, inoltre, le prassi e i modelli gerarchici dell’industria dei media sono a loro volta ingranaggi di un sistema più grande e ancora più iniquo: quello della politica. Sul set de Gli occhi del cuore tutti hanno la raccomandazione del politico di turno e chi ne è sprovvisto, come la truccatrice Gloria, finisce per essere licenziato “per dare un segnale”, ma può contare sul numero di telefono giusto per riciclarsi come impiegata presso la Regione Basilicata; lo stagista-schiavo Lorenzo, grazie a uno zio diventato senatore, vince un concorso per cortometraggi senza nemmeno mandare il lavoro; il personaggio del “sodomizzato di Bergamo” in Occhi del cuore diventa “il sodomizzato di Reggio Calabria” all’indomani di risultati elettorali che mostrano un certo gradimento per la Lega (ancora desalvinizzata); le stesse elezioni decretano la sopravvivenza di René e della sua squadra, che la rete era pronta a spazzare via per lasciare il posto a qualcuno che una possibile nuova maggioranza avrebbe potuto vedere più di buon occhio. Il bersaglio della serie, tuttavia, non sono soltanto le dinamiche clientelari della politica, ma gli effetti nefasti della complicità che sussiste tra la politica stessa e l’industria dell’intrattenimento, corresponsabile dell’inerzia culturale del paese e dell’adesione acritica a schemi ideologici e a immaginari problematici: in Occhi del cuore 2 l’Africa va rappresentata «come piace alla gente: bambini poveri con le panze gonfie, polvere, povertà e povertà»; l’aborto è una scelta sbagliata e i drogati sono l’emblema del personaggio da condannare o da redimere, mentre i poliziotti sono buoni ed eroici. E se il tempo ha dimostrato, per fortuna, che anche la serialità italiana può smarcarsi dai modelli agiografici e rassicuranti delle generaliste, per puntare piuttosto su prodotti più complessi e stratificati come Gomorra, 1992 o Il miracolo, non si può non riconoscere il ruolo fondamentale giocato da Boris, che anche rivisto oggi resta uno dei prodotti seriali più coraggiosi mai realizzati nel nostro paese.

 

 

Certo, si potrebbe dire che il cinismo di fondo che pervade la serie ha l’effetto paradossale di risultare quasi consolatorio. Quando Boris venne trasmesso per la prima volta su Sky lavoravo nelle produzioni televisive e quello che agli altri faceva ridere a me sembrava quasi cinema verità; ma sul set o in ufficio i tormentoni della serie, da “a cazzo di cane” a “dai dai dai” venivano ripetuti fino alla nausea, quasi potessero avere una funzione autoassolutoria: un’altra TV e un altro mondo non erano possibili, perciò tanto valeva tenersi a galla e sperare di risultare dei simpatici cialtroni a cui dopo un po’ ci si affeziona pure. Tuttavia, è difficile autoassolverci di nuovo quando si rivede la serie dopo dieci anni e ci si rende conto che gli unici a essere cambiati siamo noi, che oggi abbiamo “gli anni che abbiamo”, ma, come i personaggi di Occhi del cuore, sembriamo ancora condannati a recitare, con minime variazioni, lo stesso copione sciatto, trito, stravisto. In poche parole, “troppo italiano”.