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Fare i conti con il #MeToo. “The Morning Show”

La storia di “The Morning Show”, la serie tv che ha lanciato la piattaforma in streaming di Apple lo scorso novembre e che racconta dell’ intreccio fra dinamiche di genere, sessualità e potere all’interno dell’industria dei media americana. La serie era già in produzione dal 2017, ma è stata rivoluzionata in corsa dall’arrivo del #metoo e dalla volontà di includere quel movimento all’interno della narrazione

Un grosso investimento economico (più di 15 milioni di dollari a episodio); una tematica attuale (le molestie sessuali sul lavoro, in particolare nel settore dei media e dell’entertainment); star televisive e cinematografiche di prima grandezza (Jennifer Aniston, Reese Witherspoon, Steve Carell): con The Morning Show, Apple si gioca la carta della prestige television per lanciare Apple TV+, piattaforma Svod che si è aggiunta il primo novembre 2019 al ricchissimo scenario dell’entertainment on demand. Il risultato di un simile dispiegamento di forze somiglia ad alcuni dei protagonisti dello show: bizzarro, non del tutto inquadrabile, ma sicuramente interessante nella misura in cui fornisce alcuni elementi per leggere i processi e i discorsi attraverso cui l’industria dell’intrattenimento metabolizza gli scandali che l’hanno recentemente investita – le denunce e i processi a carico di figure di spicco interne al sistema – e risponde alle rivendicazioni del movimento #MeToo e alle spinte per un riassetto degli equilibri di genere all’interno del sistema.

 

 

Ma procediamo con ordine. The Morning Show comincia in medias res: a pochi minuti dall’inizio del pilot scopriamo che Mitch Kessler (Steve Carell), anchorman del programma del daytime che dà il titolo anche alla serie, è stato licenziato a seguito di alcune accuse di molestie. La co-conduttrice Alex Levy (Jennifer Aniston), la cui stella appariva, agli occhi del network e del pubblico, piuttosto appannata, deve far fronte allo scandalo e al tempo stesso condurre un braccio di ferro per la sopravvivenza con il CEO del network. A complicare le cose vi è poi l’arrivo di un’altra giornalista, Bradley Jackson (Reese Witherspoon), reporter di una TV locale diventata famosa per un video su Youtube in cui si lancia in una veemente invettiva durante un servizio. Man mano che la serie procede, nella battaglia per il potere in atto all’interno del network Bradley viene usata come pedina: promossa ad anchorwoman dalla stessa Alex, che tenta così di difendere il proprio territorio, Bradley contribuisce a destabilizzare del tutto gli equilibri già precari all’interno della redazione, con la complicità dell’eccentrico dirigente Cory Ellison (Bill Crudup), mentre viene fuori via via il clima di abusi e di omertà all’interno della redazione.

Le notizie sulla messa in produzione di The Morning Show risalgono al 2017: la serie dovrebbe essere basata sul libro di Brian Stelter, Top of the Morning: Inside the Cutthroat World of Morning TV; Aniston e Witherspoon sono legate al progetto in qualità di produttrici, mentre lo showrunner è Jay Carson. Dopo un passato da consulente, strategist e responsabile dei rapporti con la stampa per figure di spicco della politica americana (tra cui Bill e Hillary Clinton), Carson ha lavorato come supervising producer per House of Cards: si tratta, insomma, di un professionista che sui sottili equilibri fra scena e retroscena e sugli intrecci fra politica e spettacolo ha costruito una carriera. A produzione già iniziata avviene un brusco cambio di rotta: le vicende legate agli abusi sessuali nell’industria dei media – il caso Weinstein, ma soprattutto lo scandalo che travolge Matt Lauer, anchorman del Today show della NBC accusato di stupro e di molestie da alcune dipendenti della rete – e il #MeToo sembrano imporre un ripensamento della struttura originale dello show. Carson lascia per le solite non meglio precisate “divergenze creative”, mantenendo tuttavia nei credits il titolo di co-ideatore dello show. Al suo posto subentra Kerry Ehrin, autrice e producer di serie come Friday Night Lights e Parenthood e showrunner di Bates Motel. Le interviste rilasciate da Ehrin in proposito, da un lato, sembrano finalizzate ad alimentare l’immaginario della produzione come ‘impresa eroica’ compiuta, in questo caso, in poco tempo e all’apparenza senza pressioni, da parte di Apple, per sfruttare in modo opportunistico un tema attuale; dall’altro, pur essendo contrassegnate da una modestia e un understatement che sembrano quasi funzionare da meccanismo di difesa, alludono a più riprese al percorso professionale di lungo corso della Ehrin, che le garantirebbe anche una conoscenza approfondita di certe dinamiche congenite dello showbiz: “I didn’t have to dig too hard for story lines about that [le molestie sul lavoro, ndr] after 30 years in this industry. It was my life”.

 

 

Del resto, che gli squilibri di genere e le asimmetrie di potere non si leghino soltanto a episodi isolati, ma che siano degli aspetti strutturali dell’industria dei media, del resto, chi si occupa di Production Studies lo scrive da tempo. John Thornton Caldwell – studioso statunitense fra i primi a considerare quello della produzione dei media come un vero e proprio sistema culturale, con le sue istituzioni, le sue forme di organizzazione, ma anche il suo sistema di valore e di produzione simbolica – individua fra gli elementi costitutivi dell’industria proprio il suo essere razzializzata, sessualizzata e genderizzata, embodied (con una serie di conseguenze drammatiche anche sulla salute di alcune categorie professionali), auto-sorvegliata (chi ci lavora, cioè, è costantemente impegnato a dimostrare a un occhio invisibile, ma pervasivo, il valore del proprio brand) e basata su forme di capitale simbolico, non finanziario, che vengono scambiate fra datori di lavoro e lavoratori, spesso a danno di questi ultimi (Intorno alle industrie dei media. Dieci tratti distintivi e sfide per la ricerca, in L. Barra, T. Bonini e S. Splendore, Backstage. Studi sulla produzione dei media in Italia, Unicopli 2016). Su quali di queste dinamiche The Morning Show apre uno squarcio? E cosa, invece, in un prodotto così dichiaratamente metariflessivo viene lasciato fuori?

 

 

Una delle caratteristiche più evidenti della serie, come moltissimi critici hanno evidenziato, è l’alternarsi di toni e registri differenti: perfino in epoca di dramedy e di una generale contaminazione dei generi l’alternarsi di guizzi comici, momenti dal forte impatto drammatico, complotti da thriller giornalistico e derive romance risulta quantomeno spiazzante. La serie sembra essere il risultato della commistione di tanti modelli diversi, che però vengono evocati per poi essere immediatamente traditi. Il rapporto fra Alex e Bradley richiama, per esempio, storie di rivalità femminile à la Eva contro Eva, ma la serie rifugge il cliché di un antagonismo sfrenato a favore, invece, di una relazione più complessa, sfaccettata, fra due donne diverse, ma che riconoscono anche di avere dei punti di incontro e, soprattutto, un destino comune – quello di lottare per affermarsi in un contesto comunque sfavorevole. Altrettanto evidente è la presenza di un fantasma ingombrante, quello di The Newsroom: The Morning Show sembra fare di tutto, in realtà, per smarcarsi dal tono paternalista del modello sorkiniano e non tenta nemmeno di rubarne il tratto maggiormente distintivo – una scrittura da screwball comedy – ma allo stesso tempo ne corteggia l’eccentricità dei personaggi e, soprattutto, il prevalere di una visione idealista ed essenzialmente individualista della lotta contro un sistema iniquo.

Questa complicata e non sempre riuscita amalgama disorienta: si ha costantemente l’impressione che, nel momento in cui le dinamiche fra i personaggi si fanno più chiare o il registro della serie appare più evidente, si produca uno scarto non sempre giustificato. E se queste bizzarrie sono, come altri hanno scritto, anche affascinanti nel modo in cui privano lo spettatore di qualche certezza, è difficile non sospettare che siano il risultato di una produzione tanto ambiziosa quanto travagliata.

 

 

Se l’obiettivo del cambio di showrunner in corsa era effettivamente finalizzato ad affrontare gli scandali legati al #MeToo, non si può dire che The Morning Show non abbia ottenuto risultati interessanti, anzi: raramente il complicato intreccio fra dinamiche di genere, sessualità e potere è stato gestito in maniera così attenta. Il personaggio di Kessler passa, senza nessuna forzatura, dall’apparire carismatico e sicuro di sé a risultare manipolatore, patetico, disperato, come a evidenziare che le molestie non sono soltanto prerogativa di certi villain macchiettistici. Lo sviluppo del suo arco narrativo è efficace nella misura in cui ci mette di fronte a un personaggio di cui potremmo perfino sforzarci di comprendere le ragioni – specie quando viene contrapposto a un regista ostracizzato ed estromesso dal sistema perché accusato di aver approfittato di alcune ragazze minorenni – per poi costringerci a riconoscere che la questione del consenso non può essere scissa dalle dinamiche di potere interne a un sistema fortemente gerarchico e asimmetrico come quello in cui si verifica il comportamento predatorio di Kessler.

È con la rappresentazione del rapporto sessuale fra Mitch e Hannah (Gugu Mbatha-Raw), una giovane e ambiziosa talent booker, che la serie riesce a restituire in modo efficace, credibile e doloroso proprio lo shock, la paralisi e l’annichilimento del soggetto femminile in situazioni in cui è una figura autorevole, rispetto alla quale si è in posizione di subalternità, a tentare un approccio sessuale. Siamo ancora troppo abituati a pensare all’abuso sessuale come a un atto violento, coercitivo; in The Morning Show, invece, risulta chiaro come l’inerzia o la mancanza di reazioni da parte di Hannah siano il risultato dello shock determinato da una situazione dalla quale la donna non sa come sottrarsi senza venire accusata di averla provocata, o senza che per lei ci siano ritorsioni. Lungi dal titillare lo spettatore, la regia di Michelle MacLaren rimane invece sul volto attonito di Hannah, che ha visto in pochi secondi un uomo a cui guardava con ammirazione e gratitudine trasformarsi in un predatore: l’efficacia di questa scelta è tale che sembra anche a chi guarda di avvertire fisicamente il disagio e il malessere della protagonista.

 

 

Il finale della prima stagione, purtroppo, vanifica questo importante risultato trasformando la sofferenza e la morte di Hannah in un mero espediente narrativo, finalizzato a fornire la motivazione per il colpo di scena finale: di nuovo, un segno di quelle discontinuità, di quegli strappi che rendono la serie altalenante negli esiti, forse incapace di districarsi fra spinte programmatiche e desiderio di raccontare, invece, la complessità delle relazioni e del desiderio di autoaffermazione dentro un sistema la cui iniquità strutturale non emerge fino in fondo.

Perciò, per tornare alla domanda da cui si è partiti: come metabolizza l’industria dei media gli scandali che l’hanno investita? Che discorsi produce per elaborare il trauma? Dietro lo schermo, la showrunner Kerry Ehrin si dice ottimista circa il grosso cambiamento che l’industria, secondo lei, starebbe attraversando: ci sono più donne dietro le produzioni televisive, si sta lavorando per ridurre il gender gap. Guardando The Morning Show, invece, si ha l’impressione che l’industria dell’intrattenimento cerchi di ridefinire la propria immagine attraverso quelle narrazioni di riscatto individuale, di ribellione in chiave eroica del singolo che riducono l’intreccio della complessità a percorso lineare ed esemplare, guardandosi bene dal mettere in discussione proprio quei sistemi di lavoro e di sfruttamento del capitale simbolico che contribuiscono ad alimentare le asimmetrie di potere su cui si regge il sistema. Forse, i difetti della serie, la sua irriducibile eterogeneità, sono il risultato di questa tensione, di questo tentativo inevitabilmente parziale di rifondare un nuovo immaginario per delle culture della produzione più consapevoli, ma ancora reticenti a mostrare fino in fondo il lato oscuro della ribalta.