ROMA

Taxiwriter 8. Politique politicienne

Tra una corsa e l’altra alla guida del suo mezzo, Andrea Panzironi riflette, discute e osserva gli angoli di città in cui la storia ha lasciato delle tracce. L’ottavo racconto per dinamopress

Staziono ormai da venti minuti in Via del Pozzo, e sembra davvero di esserci cascati dentro. L’afa di luglio è ben più consistente del suo pur breve nome. Largo Chigi davanti a me è il palcoscenico esclusivo di turisti sandalati e canottati, marcianti inebetiti sotto il solleone, maldisposti in truppe disordinate e sudaticcie di consumatori compulsivi, dedite allo shopping da “saldo dunque compro”, colpevolmente indifferenti alla maestosità della colonna Antonina che si erge nella attigua omonima piazza e sulla quale si dipana scolpito nel marmo lo “storyboard” delle guerre di Marco Aurelio, l’imperatore colto e riccioluto, niente affatto l’ultimo centravanti  sudamericano, come mi disse un giorno un turista obeso da hamburger e telecalcio. È giovedì, ed il palazzo del parlamento si approssima alla chiusura, come ogni settimana, che lì dentro, magia del luogo, a dispetto della sua definizione, dura non più di tre giorni, iniziando il martedì e finendo appunto oggi. Ed infatti, passata la mattinata utile alle ultime, forse anch’esse utili, votazioni parlamentari, eccoli apparire, del tutto distonici rispetto alle comparse trasandate che affollano la piazza, nella loro “tenuta d’ordinanza”, che li abbellisce più di quanto meritino, avvolti in abiti di taglio sartoriale di tessuti preziosi, dai colori eleganti, che poggiano su mocassini di fior di vitello inglese, con la immancabile, sgargiante, elitaria cravatta “sette pieghe” marella che si staglia nel mezzo della camicia bianca, come non potrebbe essere, con colletto inamidato a doppio sbalzo. I parlamentari nell’inconsueto drappello di quattro marciano con passo compatto trascinando un mini trolley ciascuno. Sembra un cambio della guardia, ma con uno stile assai meno marziale, piuttosto tendente al piedepiattismo da commensale sedentario. Prendono un solo taxi, il mio. Destinazione aeroporto. Non riesco a trovare scuse per non andare, il loro poco voluminoso bagaglio entra comodamente nel bagagliaio, e sono solo, terribilmente solo in quel posteggio dove nessun turista allo stremo potesse arrivare prima di loro.  Seleziono un sottofondo musicale inadeguato, appositamente spiazzante, rilassante, sul quale poter concentrare la mia attenzione e così scansare le loro parole decorative, autoelogiative, lontane. Nel primo tratto del percorso, che taglia il centro città per poi declinare dolcemente a sud ovest verso il mare, guido nelle vie che hanno scenografato la storia di questa città, di questo Paese. E penso a quanto occhi, a quante orecchie, a quante bocche saranno servite e ancora serviranno per leggere, sentire, dire le stesse parole ma con accenti regionali ogni volta diversi a seconda del potente di turno. «Da De Gasperi a questi qua», sottotitola un interessante e voluminoso libro che documenta le vicende della politica nostrana dal lontano ieri al prossimo oggi, e, osservando ora, “questi qua”, iperconnessi e fighetti, seduti al mio fianco, nei colori sgargianti della realtà avvilente di oggi, i miti in bianco e nero del biancofiore e della falce e martello, del doppio petto anche in spiaggia del segretario DC oppure dei denti del deputato PCI, ingialliti dalle troppe sigarette consumate nelle sezioni operaie, si ingigantiscono ancora di più.

A metà tragitto, quando il loro chiacchiericcio, ricco di confronti accurati ed approfonditi, politicamente corretti,  umanamente condivisibili, filosoficamente ineccepibili, circa le destinazioni vacanziere che l’adeguata, lunga e certamente meritata pausa estiva loro concede, d’un tratto finisce, il mio taxi si trasforma in pochi secondi in un call center mobile in piena attività; indefessi e del tutto abituati all’auto isolamento da conversazione telefonica tramite cuffia , i quattro si lanciano ognuno in una propria, personale conversazione con l’amico o l’amica , oppure congiunto o meglio ancora socio in affari che sia. Per alcuni minuti ho la netta sensazione di essere finito in un b-movie horror dove all’improvviso il protagonista alla guida del mezzo, alienato dal susseguirsi crescente delle parole e della confusione, si trasforma in un dinosauro e stacca con un sol morso la testa ai presenti per ritrovare così il silenzio e sorridente arrivate a destinazione con i quattro senza testa che finalmente, educatamente scendono dal taxi. Ma fortunatamente per loro il mio senso di sopravvivenza spazza via questa immagine e così, alzando sempre di più il volume dello stereo preannuncio ai signori a bordo che il “limite ha una pazienza”, come disse in tempi assai più signorili di questi il principe de Curtis, ed inizio a decelerare bruscamente, con un paio di affondi sul pedale del freno. Sorpresi dalla frenata sollevano preoccupati lo sguardo. Per istinto tutti tacciono nel medesimo istante, le loro teste beccheggiano con un movimento brusco della cervicale; un paio di loro accusano una fitta al collo, si toccano la nuca. Li guardo dallo specchietto facendo una smorfia di finta sorpresa, come a volermi scusare. Abbasso il volume dello stereo. Per fortuna siamo arrivati. Accosto. I quattro scendono, non prima di avermi dato ognuno la sua parte del prezzo della corsa, come solo ai liceali in vacanza avevo visto fare. Uno dei quattro prima di scendere mi chiede una ricevuta, senza data, mi prega, stavolta. Scendo anch’io e metto i loro trolley a terra. Uno scarno accenno con lo sguardo è il saluto reciproco. Mi rimetto alla guida per tornarmene via ma con la coda dell’occhio vedo uno dei quattro, quello a cui ho fatto la ricevuta, tornare verso di me, gesticola. Fermo il taxi, abbasso il finestrino mentre sbircio sul sedile posteriore per anticipare la sua richiesta, c’è sempre chi dimentica qualcosa, mi dico tra me e me. «Scusi sa, non pensi male… Mi potrebbe dare un’altra ricevuta in bianco, senza importo, senza data?», è ciò che sentono le mie orecchie quando il tipo di affaccia dal finestrino. Come in certi racconti che fanno alcuni sull’ultimo istante di vita, quando scorrono condensate in pochi momenti tutte le immagini della vita vissuta, così alla richiesta dell’”onorevole”, che come un qualsiasi rappresentante di commercio sfigato cerca di “accattare” qualcosa dalla magra giornata lucrando sulle ricevute, credo di aver rivisto condensate in pochi istanti tutte le immagini salienti che hanno rappresentato e rappresentano tutt’oggi questo splendido e misero Paese. D’istinto, senza proferire parola in risposta alla richiesta, il dito indice della mia mano sinistra pigia violentemente sul tasto di rialzo del finestrino, il vetro si alza veloce e l’”onorevole” riesce per un soffio a non restarci incastrato con la testa. Dò un colpo affondando sull’acceleratore, e mentre un sorriso amaro modifica i miei lineamenti, vedo nello specchietto retrovisore una piccola nube di gas di scarico avvolgere il parlamentare.

 

Illustrazione di Marisa Dipasquale