ROMA

Taxiwriter 12. Vuota è la città

Tra una corsa e l’altra alla guida del suo mezzo, Andrea Panzironi riflette, discute e osserva gli angoli di città in cui la storia ha lasciato delle tracce. Dodicesimo racconto per dinamopress

Il caldo è eccezionale, l’asfalto sotto le ruote si scioglie come in un dipinto di Dalì. L’aria disegna filamenti in trasparenza nell’afa che ha pervaso tutto, anche i migliori sentimenti. Guido nell’apparente deserto di una capitale abbandonata da tutti i suoi abitanti, dove nel bagnasciuga esistenziale emergono gli emarginati di sempre, unici abitanti erranti nelle strade senza quasi più auto, dove si posteggia come in un film in bianco e nero di fine anni Cinquanta. E mi aspetto da un momento all’altro spuntare da dietro un angolo Alberto Sordi vestito con una gonna lunga a pieghe mentre soffia nel vento caldo bolle di sapone.

Percorro solitario via Napoleone III, solo il tram dietro di me sferraglia sbandando sulle rotaie sempre più inghiottite dall’asfalto fuso. Noto che le lettere da poco tempo tolte sulla facciata del palazzo che ospita i ragazzi tartarugati hanno lasciato le loro impronte, le stesse indelebili impronte lasciate sulla falsa coscienza di un popolo che aspira alla sottomissione ciclica del giogo di regime. Preso dal gorgo dei pensieri lascio andare l’auto che come il vecchio cavallo di un calesse da film western percorre da sé le solite consumate strade. Con un gesto istintuale accendo la radio e la notizia mi arriva lenta, in accordo con il tempo vuoto scandito dall’afa.

Il Capitano, ora ex, ha lasciato, ma è pronto al rientro. Nel frattempo Conte si dimette e il governo giallorosso è prossimo all’avvio. Penso che il precampionato è sempre pieno di sorprese. Già visualizzo Totti di nuovo in campo con la fascia al braccio, Conte sbracciarsi dalla panchina incazzato, col parrucchino al vento. Intanto l’auto in modalità pilota automatico si arrampica e ridiscende i colli di Roma che ad agosto restano scoperti, senza auto, furgoni, pullman, quando le prospettive del Barocco riemergono e si possono vedere, dall’incrocio di via delle Quattro Fontane con via del Quirinale, voltando la sguardo a 180 gradi, i due obelischi che segnano Trinità dei Monti e piazza dell’Esquilino, di fronte Santa Maria Maggiore. E dolce mi è il naufragar in questo mare di bellezza, mi viene da pensare.

Un gabbiano ad ali spiegate mi vola letteralmente sopra, con un volo a planare sfrutta la corrente ascensionale che si forma tra i palazzi e poi svolta scomparendo dietro il biancore del palazzo del Quirinale. In queste ore eccezionalmente abitato da un presidente che immagino sempre più angustiato, a causa di una crisi di governo balneare, dettata dall’euforia da sbornia da mojitos e danze patriottiche da spiaggia sulle note dell’inno di Mameli. E forse neanche Woody Allen si sarebbe immaginato così la nuova repubblica di Bananas. Anzi sarebbe certamente più ironica e meno grottesca. Ma di colpo la realtà rientra dal finestrino. Un fischio secco mi desta dai pensieri. Un uomo col braccio alzato ed una valigia tra le gambe mi fa un cenno.

Accosto. Scendo e apro il portellone posteriore, carico la valigia. L’uomo, brizzolato, in evidente sovrappeso, si lascia cadere nel sedile posteriore. Gli ammortizzatori rimbalzano. Aeroporto, mi dice in italiano con il tipico accento spalancato californiano. Che culo, penso, quando ormai mi ero rassegnato al magro incasso della desolante giornata. Immediatamente l’aria nell’abitacolo si riempie di puzza d’alcol e tabacco. L’uomo indossa un vistoso paio di occhiali da sole che sovrastano il suo sorriso carnoso. Il notiziario prosegue e la voce del truce degli interni con fermezza afferma di volere pieni poteri, ormai. Una risata da cowboy da film americano mi sovrasta. Faccio un mezzo sorriso guardandolo nello specchietto, senza trattenere però una smorfia di preoccupazione.

L’uomo sorride ancora e mi dice di stare tranquillo che adesso le cose andranno a posto. Che in Italia facciamo sempre così, abbaiamo ma non mordiamo. Non sempre, penso, in passato qualcosa abbiamo fatto, qualche morso lo abbiamo dato. Poi chiedo al cliente se lui si intende di politica, di affari italiani. Mi risponde che sì, lui è un giornalista e fa il corrispondente dall’Italia. E che ogni volta si sorprende sempre di come affrontiamo la situazione. Siamo avanguardisti, gli rispondo. Siamo grandi inventori e abbiamo un gran numero di varietà, vegetali, di pensiero, politiche, insisto. Lui annuisce. Poi gli chiedo del suo, di paese, e del suo presidente. Mi risponde che sì, in effetti ci sono delle somiglianze con la situazione italiana e che comunque tutto il globo sembra andare verso il populismo. Che banalità il populismo che giustifica ogni cosa, sto per dire, ma mi trattengo. Non ho voglia ora di fare la parte del colono ribelle. Sono stanco ed affamato, stanco come dopo il mare che mette fame.

L’aeroporto col grande palazzo di specchi nel mezzo sembra raddoppiarsi al tramonto. È un tramonto rosa. Accosto, scendo per prendere la valigia del cliente il quale scendendo, come un bufalo che sta per annegare, si aggrappa al montante dell’auto. Riesce con fatica a sollevarsi, diventa paonazzo in volto. Fa un ampio respiro e ora, col ghigno feroce stampato sul volto, somiglia terribilmente al suo presidente. Mi paga stringendomi la mano con forza e si allontana entrando nel terminal. Un soffio d’aria di mare mi arriva addosso e lavandomi via tutti i cattivi pensieri alleggerisce l’anima e lo stomaco. Mi guardo ancora intorno prima di risalire in auto. La volta del cielo è ora una tavolozza di colori tenui e gentili, rosa, oro, celeste, due uccelli di mare in lontananza si fanno cullare dal vento appoggiandocisi sopra. Persino la luna precocemente sorge da est. E nessuna fatica sembra più starmi addosso. Risalgo in auto, credo di sorridere, ora. Felice di ritornare tra il popolo senza ismi, nella città che nonostante tutti tutto risolve. Basta sapere come starci dentro.

Illustrazione dell’artista Marisa Dipasquale