ITALIA

Susanna Marietti, Antigone: «Bisogna cambiare la cultura delle forze dell’ordine»

È dal settembre scorso che giravano voci di violenze inaccettabili nel reparto Nilo del carcere di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta. I fatti risalirebbero però a qualche mese prima: all’aprile dello stesso anno, quando l’Italia interna affrontava, in un rigorosissimo lockdown, la prima ondata della pandemia di Covid-19. Abbiamo contattato Susanna Marietti per farci raccontare il ruolo di Antigone nel procedimento in corso e per ragionare insieme su come, in Italia, troppo spesso, si tenda a giustificare senza sé e senza ma l’operato delle forze dell’ordine

«Nei mesi più brutti della pandemia, il carcere si era completamente chiuso: era diventato un luogo ancora più opaco di come è di solito», conferma Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone, l’organizzazione «per i diritti e le garanzie nel sistema penale» nata alla fine degli anni ottanta.

In seguito ai primi casi di contagio verificatisi all’interno della struttura penitenziaria campana, i detenuti avevano inscenato una protesta pacifica, attuata nella consueta forma di battitura delle sbarre. La risposta della polizia penitenziaria non si è però fatta attendere: come svelato da un video in possesso della testata
Domani già a settembre, il giorno seguente un contingente di oltre cinquanta agenti, arrivati apposta anche da altri istituti, aveva reagito con indicibile violenza. Al riguardo il giudice per le indagini preliminari ha parlato di «sevizie gratuite e ingiustificate» secondo il quale l’accaduto ha un solo precedente: le violenze commesse nel luglio del 2001 nella scuola Diaz di Genova durante il G8. Abbiamo contattato Susanna Marietti per farci raccontare il ruolo di Antigone nel procedimento in corso e per ragionare insieme su come, in Italia, troppo spesso, si tenda a giustificare senza sé e senza ma l’operato delle forze dell’ordine.

Qual è stato il ruolo dell’associazione Antigone nel portare alla luce i fatti di Santa Maria Capua Vetere?

Non non costituiamo parte civile per qualsiasi cosa che capiti in carcere. Quando riceviamo segnalazioni di eventi di questo tipo, che possono avere un profilo penale cerchiamo di verificare minimamente: il nostro ruolo non è quello quello di fare indagini, però verifichiamo che ci sia una coerenza in quello che ci viene detto, che da più parti arrivi lo stesso racconto. Se i racconti reggono a questa prima prova dei fatti, noi presentiamo, attraverso i nostri legali, in particolare l’avvocato Simona Filippi che per Antigone segue da tanti anni tutti i procedimenti per violenza, un esposto e poi, qualora ci sia un rinvio a giudizio, chiediamo anche di entrare nel processo come parte civile.

Anche per quanto riguarda Santa Maria Capua Vetere, abbiamo lavorato in questa maniera: quando ci sono arrivate le segnalazioni, noi le abbiamo incrociate tra di loro, abbiamo fatto domande e i nostri avvocati hanno telefonato una per una alle persone che denunciavano, hanno avuto conversazioni telefoniche chiedendo approfondimenti. Quando abbiamo visto che tutti i racconti erano coerenti e andavano tutti nella stessa direzione e dipingevano un quadro piuttosto grave dell’accaduto, abbiamo scritto un esposto e lo abbiamo presentato. Per ora ci ci siamo limitati a questo, perché adesso subentra la magistratura.

Dalle ricostruzioni e dai video che circolano, sembra che ci troviamo di fronte a un episodio particolarmente grave: addirittura si parla di agenti arrivati da altri istituti e di tentativi di copertura anche a livelli più alti.

Vedremo cosa ci diranno le sentenze: come sono garantista col cittadino comune, io lo sono anche con il poliziotto penitenziario. È chiaro che se il quadro dovesse essere confermato, sì: sono episodi particolarmente gravi. Ma non sono episodi sorprendenti: non è che la storia italiana non ci abbia abituato anche a cose di questo tipo. Nel processo per Stefano Cucchi erano stati manomessi verbali, per esempio.

Dunque è che qualcosa che purtroppo è possibile. Io non dico che è accaduto, ma che potrebbe essere accaduto. È chiaro che si fa riferimento a una cultura generale delle forze dell’ordine, degli apparati dello stato, che dovrebbe essere rivoluzionata, riformata. Bisognerebbe dismettere quello spirito di corpo per cui ci si copre l’uno con l’altro, si sponsorizza l’omertà e la non trasparenza delle proprie azioni. Bisognerebbe invece puntare su una cultura basata sul rispetto dei diritti umani, basata sull’idea che la reclusione deve essere una punizione ispirata al versato costituzionale, una punizione mai contraria al senso di umanità, una punizione che serve al ritorno del condannato in società e non all’annientamento della dignità della persona.

Questa cultura, purtroppo, sembra avere ancora molti sponsor nel mondo politico però.

Il panorama è variegato: ho sentito dichiarazioni che chiedevano chiarezza, che chiedevano indagini rapide della magistratura, eccetera. C’è anche la possibilità che il Ministero si costituisca parte civile. In altri procedimenti, lo stesso Ministero ha voluto delle indagini interne, svolte in prima persona dal Nucleo Investigativo Centrale proprio su episodi di violenza in carcere. Questi sono segnali importanti nella direzione di isolare i funzionari dello stato che non fanno onore allo stato stesso.

Dopodiché dobbiamo pure affrontare dichiarazioni come quelle di Salvini, che ovviamente sono le peggiori, ma anche altre che hanno meno nettezza nel chiedere che ci sia verità. Nel casodi Salvini neanche si può parlare di una presunzione di innocenza: lui non è che dice che non è vero che è successo questo, ma è come se dicesse che la polizia debba avere pure il diritto di torturare. Ecco, questa è una cultura che abbiamo sentito da più parti. Quando alcune forze politiche si opponevano all’introduzione del reato di tortura nel codice penale, lo facevano sia dicendo che tanto in Italia la tortura non esiste e che il codice penale, già con le altre fattispecie che prevede, copre tutti i comportamenti (ma sappiamo che non è vero), ma anche sostenendo che purtroppo a volte le maniere forti servono. Noi invece continuiamo ad andare per un’altra strada: una strada che tutti gli organismi internazionali sui diritti umani ci indicano.

Quest’anno cade il ventesimo anniversario del G8 genovese e dei tragici fatti di quei giorni: molti giornali, ma anche la magistratura stessa, hanno tracciato più di un parallelo tra le due vicende. Quali passi avanti sono stati fatti nel corso di questi anni?

Sicuramente c’è ancora strada da fare. La vicenda di Stefano Cucchi però ha fatto capire alle forze dell’ordine (e anche alla polizia penitenziaria, che nel caso comunque non c’entrava) che invece non c’è garanzia assoluta di impunità e l’ha fatto capire anche alle persone detenute. Stefano Cucchi non è stato purtroppo il primo a subire violenza in carcere, ma le persone detenute prima avevano paura a denunciare: davano per scontato che non si potesse denunciare. C’erano ritorsioni, tutti pensavano che denunciare fosse inutile, perché non si sarebbe mai arrivati a una sentenza di condanna.

Negli ultimi anni invece noi abbiamo riscontrato molta più disponibilità delle persone a denunciare: gente che è venuta da noi a dirci “aiutatemi, andiamo assieme a processo perché sono stato picchiato mentre ero in cella d’isolamento”. Nel 2017 poi l’Italia ha introdotto il reato di tortura nel suo codice penale: questo non è un cambiamento da poco. Nel 2021 sono arrivate le prime due condanne per tortura, per eventi accaduti in due istituti, a San Gimignano e a Ferrara. Quindi le cose stanno cambiando, ma la cultura di una nazione è lenta, non si può pensare che i cambiamenti arrivino dall’oggi al domani.

Piano piano, anche grazie al lavoro delle tante organizzazioni sui diritti umani come Antigone, abbiamo ottenuto dei risultati. Nel 2016 è stato anche istituito il Garante delle persone detenute. E questo garante risponde direttamente alla convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura: è uno strumento di prevenzione della tortura e della violenza in carcere che risponde dunque a un livello internazionale. Non è poco. I cambiamenti ci sono stati: il diritto bisogna saperlo usare per ottenerli.

Immagine di copertina: screenshot dal video in esclusiva sui pestaggi in carcere