ITALIA

Sulla nostra pelle: il presidio per il processo Cucchi bis

È fissata per oggi (27 settembre) al Tribunale Penale di Roma l’udienza relativa al processo denominato “Cucchi bis”. Al centro vi saranno le deposizioni dei testimoni chiamati a riferire dalla difesa dei cinque carabinieri, accusati dalla Procura di Roma di «omicidio preterintenzionale, falso ideologico in atto pubblico, calunnia».

L’udienza si colloca all’interno di una vicenda processuale durata ben sette anni e che ha visto aprirsi due distinti iter processuali. Il primo, del marzo 2011, vede come imputati tre infermieri, sei medici, tre agenti di polizia penitenziaria e il direttore dell’ufficio detenuti.

Il primo procedimento, che individua le responsabilità della morte di Stefano Cucchi esclusivamente nei medici dell’Ospedale Pertini di Roma e negli operatori penitenziari, si chiude nell’ottobre del 2014 con l’assoluzione di tutti gli imputati per “insufficienza di prove”.

È solo nel 2017 che un nuovo procedimento (Cucchi bis) si apre portando questa volta sul banco degli imputati i cinque carabinieri della caserma dove il 22 ottobre del 2009 Stefano Cucchi fu trattenuto a seguito dell’arresto per detenzione di stupefacenti. Secondo le parole del carabiniere e testimone chiave del processo Roberto Casamassima, sarebbe stato lo stesso Maresciallo Roberto Mandolini, allora da poco alla guida della stazione Appia, a definire il trattamento riservato a Stefano dai suoi uomini come un vero e proprio “massacro”.

A nove anni dalla morte di Stefano e dopo sette anni di udienze inconcludenti, testimonianze false e fantasiose perizie, il “caso” Cucchi è diventato l’emblema non solo degli abusi di potere degli apparati dello Stato e della violenza poliziesca, ma anche del modo in cui l’accanimento contro una vittima, possa proseguire con inaudita crudeltà ben oltre la sua stessa morte.

In questi lunghi sette anni, infatti, alla sistematica copertura delle responsabilità degli agenti da parte dei loro superiori, si è accompagnata la continua delegittimazione mediatica dei familiari di Stefano e dell’accusa, definiti in più occasioni come il «partito dell’anti-polizia»; un processo nel quale gli avvocati della difesa hanno puntato come baricentro della loro strategia processuale nello screditare il valore della vita di Stefano Cucchi, definito non solo come “tossico” e “marginale”, ma come soggetto “socialmente improduttivo”.

Solo pochi giorni prima di essere nominato ministro degli Interni, Matteo Salvini rivolgendosi a Ilaria Cucchi dichiarò a mezzo stampa: «La sorella mi fa schifo».

È all’interno di questo quadro e nel bel mezzo della svolta autoritaria che attraversa l’Italia, che la richiesta di verità e giustizia per la brutale uccisione di Stefano Cucchi da parte di agenti in divisa è divenuta ora una questione politica rivendicata non solo dai familiari, ma da una collettività sempre più ampia.

Ne è una dimostrazione l’incredibile mobilitazione seguita all’uscita del film “Sulla mia pelle” di Alessio Cremonini (qui la recensione di Fabio Gianfrancesco per Dinamo): decine di proiezioni pubbliche, spontanee e non autorizzate dalla casa di distribuzione, hanno riempito in pochi giorni piazze ed atenei universitari in tutto il paese. Come se scegliere di uscire di casa e vedere insieme il film su Stefano in uno stesso spazio pubblico, fosse il segno di un gesto politico: la costituzione di una testimonianza collettiva nei confronti di un “fatto” di cui è stata sistematicamente negata la realtà.