ROMA

Storie di fabbrica: l’eterno ricatto tra salute e lavoro

La prima lezione del festival “Bella Storia: narrazioni di strada”, tenutasi giovedì 7 marzo nel locale Tiaso del quartiere Pigneto, ha proposto una riflessione sul tema del lavoro e della salute. Una questione da cui emerge la contraddittorietà tra forze politiche al potere e territorio.

Il primo incontro del festival si è svolto al quartiere Pigneto, luogo simbolico del tema oggetto della lezione tenuta dall’antropologo Niso Tommolillo, a sua volta frutto di una ricerca d’archivio sui registri medici e sulle cartelle del personale impiegato nell’ex fabbrica della Viscosa di Roma. La ricostruzione e l’analisi storico-antropologica proposta si sviluppano lungo due assi caratteristici della vita di fabbrica, fortemente connessi tra loro: da una parte la “violenza politica” che si sostanzia nei processi di sfruttamento lavorativo, dall’altra le malattie professionali e il controllo della vita biologica, che classificano la salute fisica e psichica in termini di necessità produttiva.

Attraverso la lettura di frammenti di memorie di operaie e operai e di alcune cartelle cliniche esemplificative, è stata messa in luce l’organizzazione della vita lavorativa ai tempi del fascismo e del dopoguerra e il modo in cui l’ambiente della fabbrica interagiva con la dimensione privata dei lavoratori. In termini più ampi, la lezione ha suscitato una riflessione rivolta all’attualità, attraverso un’analisi storica sempre applicabile ai dispositivi di potere e alle pratiche di controllo e sfruttamento tipici del presente.

 

 

La produzione di malattie e morte sui posti di lavoro costituisce quel ricatto occupazionale che pone le comunità a dover optare tra il diritto di vivere o di lavorare, vale a dire quella che per molto tempo è stata posta come l’unica scelta possibile. L’inquinamento rappresentato dalla presenza di fabbriche non è solo un argomento di discussione teorico, ma è una forma d’aggressione tangibile e sostanziale, che condiziona fortemente la vita dei cittadini. Una “morte in polvere”, silenziosa, che non può fare troppo scalpore. Poi, emergono i dati, freddi e anonimi che non appartengono all’epoca fascista o all’Italia del dopoguerra, ma parlano degli uomini e delle donne comuni del nostro presente. Solo nel primo mese del 2019 le denunce di infortunio sul lavoro presentate all’Inail sono state 47.982 (+7,3% rispetto allo stesso mese del 2018), 44 delle quali con esito mortale (-34,3%). Ma questo non è abbastanza. Sono in aumento le denunce di malattia professionale che, sempre nel primo mese del 2019 sono state 4.907 (+4,1%), quasi 200 in più rispetto al gennaio 2018. La descrizione e la consistenza di questi infortuni e morti dovrebbero ricordare che gli incidenti sul lavoro non sono dei fatti casuali, ma sono strettamente connessi a condizioni e luoghi di lavoro insicuri e condizioni lavorative precarie.

L’eterna domanda se sia meglio tutelare i posti di lavoro o la salute dei cittadini, continua in questi anni a creare una situazione di impasse dove a subire le conseguenze è inevitabilmente il territorio. Nella lezione di “Bella Storia” il lavoro e la salute, che nell’ultimo ventennio sono stati al centro di dibattici politici che hanno spaccato frange partitiche e popolazione e che negli ultimi mesi è tra i temi del governo giallo-verde con il caso dell’Ilva di Taranto, viene riproposto attraverso una lettura storico-antropologica che parte dallo studio di vicende locali ma che si fa paradigma della vita di generazioni di lavoratori che attraverso la ricostruzione e la conservazione di memorie hanno lasciato un segno indelebile nella fisionomia del paesaggio urbano e del suo passato operaio. Niso Tommolillo ci ricorda come il rapporto tra violenza politica e le malattie professionali abbia rappresentato una delle cause principali della sofferenza degli operai e delle operaie e rientri in quello che l’antropologo americano Paul Farmer definisce come “violenza strutturale”, che riduce quindi gli individui in condizioni di precarietà esistenziale.

A questo Tommolillo aggiunge un altro tema fondamentale della vita di fabbrica, vale a dire il concetto di “istituzione totale”, un aspetto che si intreccia con le trasformazioni fisiche e geografiche del territorio oggetto d’analisi. Prima degli anni Settanta dell’800 l’area da Porta Maggiore a Largo Preneste era un territorio rurale, i cui abitanti erano in prevalenza dediti ad un tipo d’agricoltura di sussistenza. In seguito, con l’edificazione delle grandi fabbriche e gli interventi degli imprenditori del Nord Italia, profittando anche di possibilità speculative favorevoli, subì una trasformazione fisiologica considerevole. Il 5 settembre del 1923 viene edificata la Snia, che avrebbe chiuso nel 1955 a seguito anche di processi di delocalizzazione industriale, causando uno stravolgimento nella vita dei cittadini. La nascita dello stabilimento, oltre a essere considerato dalla stampa fascista uno dei “fiori all’occhiello” del regime, si accompagnò all’edificazione di una serie di servizi e strutture destinate ad abbracciare la totalità della vita degli operai: scuole, asili, percorsi ferroviari, il dopo lavoro con centri sportivi, corsi di educazione tecnica e scientifica. La fabbrica, quindi, non era solo un luogo di lavoro, ma un’estensione persistente nella vita dei lavoratori, creando quindi un rapporto di dipendenza che andava oltre il salario e sviluppandosi come un sistema di “istituzione totale”, per dirla con le parole del sociologo Erving Gofmann.

Il tentativo di regolarizzare i ritmi della vita nella sua totalità ed estensione si conciliava con l’intento di “addomesticare” i lavoratori. Facendo riferimento alle storie prese in esame dal relatore della lezione, una colpisce in maniera particolare: la biografia di Maria Braccante, l’operaia partigiana, protagonista degli scioperi del 1949, da cui prende nome l’archivio storico della Viscosa. Licenziata formalmente per ragioni d’improduttività, Braccante presentava nella sua cartella diverse note disciplinari relative alla sua partecipazione politica su questioni relative alle condizioni della fabbrica che lasciano intendere un allontanamento voluto di matrice politica. Oltre a suscitare una riflessione sulle forme repressive del dissenso, le storie delle donne gettano un occhio sulla condizione femminile nel contesto lavorativo della fabbrica. A esse infatti non veniva riconosciuta la malattia professionale, al tempo riservata solo ai reparti chimici a cui le donne non avevano accesso. Inoltre, esse erano oggetto di una forma specifica di pregiudizio medico: le forme di nevrosi e psicosi che rappresentavano i sintomi più comuni della malattia da esalazione di solfuro di carbonio che intacca il sistema nervoso, erano ritenuti sintomi caratteriali legati all’indole femminile, escludendo, quindi, la possibilità di contrazione della malattia.

Infine, il legame del concetto di salute, legato alla capacità produttiva, escludendo qualsiasi interferenza con la sfera del diritto, rileva come l’esercizio del potere e il ricatto lavorativo agisca sul corpo del lavoratore attraverso organismi di controllo più o meno visibili, ridefinendo il concetto stesso di soggetto politico o detentore di diritti umani e lavorativi. Tutto si riduce in virtù di un unico soggetto, vale a dire quello di produttore di merce.

Comprendere le dinamiche dei processi di sfruttamento lavorativo e il modo in cui si sono definiti nel nostro passato storico, ha lo scopo di far emergere non soltanto il tema delle diseguaglianze sociali, ma anche dei rapporti di potere che, attraverso le cornici della storia sviluppano i sintomi di una violenza politica che non è solo repressione del dissenso, ma incorporazione in una struttura sociale e lavorativa intessuta di criticità.

Raccontare oggi il mondo del lavoro non può fermarsi alle cifre e alle percentuali delle vittime, che rimangono a livello percettivo nell’ombra dell’anonimato statistico, né può restare una generalizzazione astratta. Occorre un racconto che parta dalle condizioni di vita concrete, che mostri la precarietà e l’infortunio non solo come segno di sfortuna individuale ma come forma di violenza sistematica.

 

 

Forse oggi, il ricatto del lavoro è ancora più pericoloso perché la sua promessa non è la fabbrica, ma la start up, e il modello di massa non è il lavoro salariato o l’operaio, ma “l’imprenditore di noi stessi”, apparentemente libero, ma pur sempre disciplinato, docile e ricattabile. Eppure, in qualche modo la storia di tante donne e uomini di fabbrica può contribuire a restituire dei simboli che suscitino la produzione di nuove parole d’ordine, di una nuova creatività politica. Spesso nelle parole e nei racconti delle operaie e degli operai del passato possiamo ritrovare quell’intelligenza collettiva che oggi può apparire folkoristica, ma rimane il prodotto di un sapere e di un vivere sociale tanto radicato da potercisi ancora riconoscere.