approfondimenti

ROMA

Stazione Termini: la centralità dei margini

Un’esplorazione intorno alla Stazione Termini, dove ogni giorno migliaia di viaggiatori affollano la galleria piena di negozi pop up, mette in luce un’umanità condannata a essere invisibile. Sono quegli uomini e quelle donne che non hanno una casa, sono privi di documenti e vivono ai margini in una città che li considera solo “degrado”. Il racconto dalle loro voci

I testi che pubblichiamo sono il risultato del Workshop che si è svolto il 18 febbraio e il 18 marzo nello spazio di Esc atelier: “Raccontare la città fra urbanistica e giornalismo” parte del progetto “San Lorenzo Solidale” che si è svolto grazie al contributo della Tavola valdese. 

In quei giorni di lavoro abbiamo analizzato come si costruisce un reportage, utile a leggere e raccontare le trasformazioni urbane che incidono sulle nostre vite. Abbiamo poi attraversato lo spazio della città, con una lunga camminata da San Lorenzo alla stazione Tiburtina, guardandoci intorno con curiosità. Abbiamo lavorato collettivamente, cercando di decostruire le narrazioni dominanti sulla città, superando le contrapposizioni tra degrado e decoro, riqualificazione e abbandono, gentrification e svalutazione per abituare lo sguardo a cogliere negli interstizi del presente le possibilità del futuro.

I reportage prodotti si propongono di trasformare il racconto della città in pratica urbanistica e sociale. 

Attraverso il corridoio centrale della stazione. Da piazzale dei Cinquecento, quello che ospita le fermate degli autobus fuori da Termini, per raggiungere via Marsala si deve attraversare la stazione da una parte all’altra. Ogni giorno percorrono questo corridoio quasi mezzo milione di persone. Ma oltre a chi è di passaggio, per rendersi conto dell’enorme giro di vite intorno, si deve guardare a chi di quel luogo ne ha fatto la propria casa. Ho sentito più volte dire che Termini è una città dentro la città e, mentre la attraverso, lo capisco davvero.

Noto due turisti al cambio valute intenti a prepararsi per la loro vacanza romana. I negozi pop up al centro della galleria che vendono babà sottovuoto, colombe artigianali e barrette di cioccolato a 7 euro sono stati pensati per loro. Per chi in questa città viene a spenderli i soldi. La galleria della stazione è pulita, ordinata, controllata. Il pavimento è di gomma nera, per attutire il suono delle valigie che vengono trascinate da una parte all’altra.

Ma basta girare a destra su via Marsala, appena fuori dalla stazione, per rendersi conto del fatto che quella non è altro che la bella facciata di un luogo talmente intriso di vita che il solo pensiero di poterlo limitare a semplice vetrina della capitale fa spavento. Spaventa perché è chiara l’intenzione di voler relegare il disagio sempre più nell’invisibilità. E ogni passo su via Marsala è un passo più vicino all’invisibilità. Roma è così, cerca di nascondersi, di farsi bella agli occhi dei nuovi arrivati, ma ribolle di marginalità fino alle fondamenta. E una volta che la noti, quella marginalità, te la sputa tutta in faccia.

«Perché Roma ti devasta» mi sussurra Marco, un signore di 60 anni che incontro sul marciapiede. Dice che arriverà al punto di non regalare neanche più uno sguardo a questa città, a chi ci vive, a chi ci cammina, perché non lo merita. Perché questa città non fa nulla per lui e per chi, come lui, non può parlare perché vittima. Vittima di un sistema che ha deciso di non vederlo. «Non le ascoltano le vittime. Non ci credono. È vero, io non faccio niente per Roma, ma perché lei non fa niente per noi».

È con questa consapevolezza che costeggio il retro della stazione. Davanti a me le mura Aureliane, che dividono la zona di Termini dall’adiacente quartiere San Lorenzo. A destra il Ministero della Difesa. A sinistra una caserma dei carabinieri. Poco più avanti una sede dell’AMA, la società che gestisce l’immondizia a Roma. E tutto intorno immondizia.

Perché Roma è contraddittoria. Da una parte c’è un palazzo istituzionale e dall’altra parte della strada tende ammassate lungo il muro della stazione. Mutande stese sulle reti arancioni che delimitano i lavori. Da questo lato, però, tendenzialmente i turisti non ci passano e i piedi scalzi che sbucano dalle tende impregnate di pioggia non li vedono. Arrivano con il treno, percorrono la galleria e sbucano su piazzale dei Cinquecento, da cui poi prenderanno un autobus per raggiungere il centro.

Ed è qui, sul retro della stazione, che viene spinta la marginalità, nascosta, sempre più giù. È qui che hanno sede due associazioni che offrono docce, riparo e pasti: Binario 95 e la Caritas, dove Yaab consuma le sue cene. Yaab è un cinquantenne copto che vive a Termini. Ha la sua postazione sotto il primo arco delle mura, proprio davanti alla Caritas. Ha una stufetta elettrica, dice che non funziona, ma per lo meno delimita il suo spazio.

Poco più giù c’è Milko, il barbiere di Termini. Taglia capelli ogni giorno da 17 anni, sempre nello stesso luogo. «Così sanno dove trovarmi» dice. Ha una bicicletta attrezzata in cui tiene tutto quello che gli serve: rasoi, macchinetta elettrica, mantellina. Ha anche una cassa a ricarica solare in cui ha inserito una memory card con i suoi pezzi preferiti. Uno specchio e uno sgabello, dove fa accomodare i suoi clienti. Quando arriviamo sono in tre in fila per un taglio. Alla fine del lavoro Milko dà una spazzata per terra e getta i capelli nel sacchetto della spazzatura lì davanti, che probabilmente poi butterà lui. «Non posso lasciare tutto per terra, se no si crea una montagna di capelli. E qui nessuno viene a pulire».

Davanti a quella scena comprendo il problema. Il fatto che Milko si preoccupi di mantenere pulito il marciapiede proprio davanti alla sede dell’AMA mostra la chiara volontà di ignorare la situazione. Di rovesciare la questione da diritti umani ad assistenzialismo, così da poter associare il problema alla fragilità. Ma ci sono dei diritti di base che prescindono dalle condizioni di vita e dalle scelte personali di ognuno. Diritti che non c’entrano nulla con la fragilità presunta o reale di chi vive in strada. E così si affronta la questione senza incidere concretamente sulla realtà, semplicemente posponendo il problema, nascondendolo.

Perché i migranti senza documenti, come molti che ho incontrato, svolgono un ruolo centrale all’interno delle politiche di governance urbana, rappresentano il baricentro per una narrazione dell’emergenza; un’emergenza della minaccia. Marco, Milko, Yaab e altri, che sono rimasti esclusi dalla società e combattono contro una crisi di presenza nel mondo, sono l’incorporazione vivente di ciò che è stato rimosso dalle vetrine, rappresentano ciò che il discorso politico dominante chiama “degrado” nelle sue varie declinazioni: urbano, morale ed economico. Un “degrado” che contrasta ed irrompe nella patina lucida delle luci e dei profumi dei luoghi simbolo del capitalismo finanziario che domina le città e la centralità.

Un “degrado” che viene affrontato solo superficialmente, perché anche alle autorità conviene che la situazione non cambi. «Perché quando la gente per strada è disperata commette crimini, piccoli o grandi che siano, ma grazie a questi permette allo Stato di riempire a dismisura le carceri e dare lavoro alle guardie» come dice Marco. Così si alimenta la credenza per cui la miseria porta violenza e chi vive in strada porta problemi.

Non so se abbia ragione, ma mi sembra chiaro che ci sia una volontà esplicita di non affrontare il problema alla radice. Ma sembra che il problema diventi reale solo se visibile, come con la tendopoli lungo le mura su viale Pretoriano.

Da mesi accanto alle mura Aureliane, sul prato adiacente al marciapiede, si erano posizionate diverse persone con tende da campeggio. Vivevano lì. Hanno vissuto accanto alle millenarie mura per poco, perché da qualche giorno sono stati spostati, sgomberati da quello spazio che testimonia ancora tracce di un vivere temporaneo. Passeggiando sul prato e osservandolo, noto ancora diversi oggetti del vivere quotidiano. E, ancora più iconiche, attirano la mia attenzione le scritte in arabo sulle mura stesse: testimoni del protagonismo umano che arriva all’estremità del paradosso. Poiché l’illegittimità delle tende è tanto reale quanto l’assenza di una soluzione ad un problema umano, prima che sociale o politico.

Quando chiedo a Milko informazioni sullo sgombero della tendopoli, avvenuta a inizio marzo, lo vedo sollevato. In molti non sopportavano più la situazione che veniva a crearsi la sera, quando i volumi dell’alcool salivano e la compostezza veniva meno. E per questo è contento per lo sgombero. «Meno male che li hanno cacciati. Facevano casino, ma tanto tra massimo un mese sono ancora qui» mi confessa Milko. Perché è evidente che sgomberare non sia la soluzione al problema in sé, ma solo alla parte visibile del problema. Ma chi lì ci viveva non si è volatilizzato, ha semplicemente cambiato posto finché qualche coraggioso non deciderà di ritornarci, come ribadisce Milko. «Se anche solo uno ripianta la sua tenda qui, gli altri lo seguiranno a ruota».    

Lui però si tiene lontano dalla tendopoli. Vive in auto, dice che è meglio, così quando piove è riparato. E poi gli piace il rumore della pioggia sul tettuccio della macchina, gli concilia il sonno. A lui nessuno dà fastidio, nessuno gli dice di andarsene. Perché la sua fragilità rimane nascosta, relegata dentro le portiere della sua Peugeot grigia, a differenza della distesa di tende colorate che puntellavano il prato del viale, perfettamente visibili.

Su viale Pretoriano, a fianco del prato sottostante le mura dove c’erano le tende, il marciapiede d’asfalto è costeggiato da una pista ciclabile, dopo di lei, la strada e le macchine che scorrono velocemente nei ritmi frenetici e caotici di Roma. Il viale prosegue da Termini verso Nord e viene percorso da migliaia di macchine ogni giorno. E dentro quelle macchine ci sono turisti, lavoratori, cariche istituzionali. Ovviamente un accampamento lì stona con la bella facciata di Roma che si vuole presentare.

Ma, nonostante la volontà di nasconderlo, rimane un problema che esiste, una fotografia urbana che parla da sola. Un disagio nell’esistenza umana che dimostra un contrasto fortissimo: da un lato, lo Stato nella sua declinazione del Ministero della Difesa, dove l’indifferenza burocratica tocca i suoi estremi; dall’altro, la sopravvivenza e la difesa della propria esistenza fuori dallo Stato. Perché molte delle persone che hanno vissuto in quello spazio «erano uscite dal sistema dell’accoglienza o avevano terminato il percorso e non avevano trovato una propria strada» secondo Marco. Ma allora chi si trova in una posizione di vulnerabilità sociale e non trova la propria strada può solamente andarsene? Deve solamente andarsene? Ma dove?

Lo sgombero, che ha visto protagoniste una trentina di persone,  è stato concordato dal comitato per l’ordine e la sicurezza, con la presenza dei servizi sociali del comune di Roma. Come afferma in un’intervista Stefano Marin, assessore alle politiche ambientali e ai rapporti con i cittadini del I Municipio, la soluzione abitativa proposta è stata la creazione di infrastrutture come un tendone in zona Testaccio e uno a piazzale dei Cinquecento. Tuttavia, l’assessore stesso, afferma che «c’è bisogno di individuare delle aree dove loro possono sostare perché i tendoni alla fine sembrano delle caserme dove loro non ci vogliono andare perché non riescono a risolvere i loro problemi personali».

Molte delle soggettività che hanno vissuto temporaneamente la loro quotidianità nelle tende appoggiate alle mura Aureliane, fra il grigio del marciapiede, il verde di un piccolo prato che resiste al cemento e la concretezza temporale della storia fatta monumento, avevano prima la loro stabilità nel sottopasso di Termini, murato nell’autunno scorso. Un luogo buio, angusto, coperto, umanamente distante dalla centralità e dalla luce. Umanamente vicino solo alla sopravvivenza ad un sistema che riserva ai margini il buio della storia.

Così chi vive in un posto degradante diventa degradante e, dunque, soggetto nella migliore delle ipotesi all’invisibilità sociale all’interno di un tendone. Nella peggiore, è destinato ad entrare nelle carceri o nei C.P.R. perché illegale. Il loro corpo, la loro storia diventano illegittimi in questo angolo di mondo.

Queste persone forse hanno come unica salvezza esistenziale la mobilità, chi ha affrontato la migrazione internazionale, chi deve migrare da stazione in stazione, di via in via perché le soluzioni messe in campo dalle istituzioni sono sempre in primo luogo emergenziali e temporanee. Il “degrado” viene spostato da parte a parte, e, come in un movimento circolare, le persone si spostano di via in via mettendo in atto strategie di adattamento.

Perché la narrazione pubblica del “degrado urbano” ci vuole far credere che il problema non sia collettivo ma individuale? Se si osserva il movimento umano di questo fenomeno si percepisce come ci sia un evidente cortocircuito nel sistema all’interno di un processo di disagio e sofferenza che si autoalimenta. È forse arrivato il momento di fermarsi e trovare una soluzione più stabile di una tendopoli a Testaccio o a piazzale dei Cinquecento?

Immagine di copertina Openverse di MrFederico