Sparare nel mucchio

I “social killer” sono assassini consumati dalla fredda razionalità economica. In questo quadro paradossale, i pazzi sono quelli che non vogliono uccidere né essere uccisi.

Avete mai pensato di non essere pagati il giusto? O, peggio ancora, di essere abbandonati ai margini del patto tra produttori che dovrebbe reggere il gioco economico? Se avete qualche anno sulle spalle, e vi è capitato di essere vittima di ingiustizie prima della grande restaurazione degli anni Ottanta, probabilmente avete trasformato quella frustrazione in un sano conflitto contro quelli dei piani alti. Se invece vi è capitato di avvertire questo sospetto negli ultimi venti anni, è altrettanto probabile che abbiate passato la vostra carriera in un “open space” di una multinazionale e/o che trascorriate le vostre giornate ad aggiornare compulsivamente il vostro curriculum. Oppure che abbiate aderito con tanto integralismo all’etica del capitalismo da essere convinti che l’interesse dell’azienda coincida con il vostro, trasformando dunque la vostra frustrazione in “mania di persecuzione” invece che in conflitto.

Succede sempre più spesso. “Non ho soldi né un lavoro. Così non è vita” ha detto ieri Pietro Caputo, cinquantasettenne torinese che ha preso la sua Beretta calibro 6.35, e ha cominciato a sparare dal balcone ai passanti. È vero, come ha scritto a proposito dell'”allarme suicidi” Michela Murgia sul suo blog riprendendo inoppugnabili numeri e citando una ricerca di Daniela Cipolloni per Wired, che non bisogna enfatizzare o farsi prendere da ondate emozionali. L’esercizio di incrociare i truculenti fatti della cronaca nera con i freddi dati della scienza triste dell’economia, comporta dei rischi.

Può essere utile, per guardare le cose dalla giusta prospettiva e tracciare una comparazione con la storia di un altro paese, osservare che nella provincia americana quanto stiamo osservando non è un fenomeno nuovo.

Si sentiva perseguitato anche Joseph Wesbecker, il lavoratore che il 14 settembre del 1989 entrò negli stabilimenti della tipografia in cui lavorava, a Louisville, e cominciò a fare fuoco. Wesbecker uccise 7 persone e ne ferì altre venti. Persino alcuni dei colleghi colpiti dalle pallottole del suo Kalashnikov ammisero che quella tragedia si poteva evitare: quell’uomo era stato portato all’esasperazione dall’azienda per cui lavorava da oltre venti anni. Dal caso di Wesbecker partiva ormai qualche anno fa Mark Ames in “Social killer” (tradotto in Italia da Isbn edizioni) per tracciare una provocatoria quanto documentata analisi degli effetti sociali delle politiche neoliberiste. Il libro di Ames è un reportage nella paranoia collettiva, nel paesaggio disperato della frustrazione che non riesce a farsi sano conflitto. Anche un saggio schierato dalla parte delle aziende (“New arenas for violence”, di Michael Kelleher) conferma l’ipotesi di Ames: il posto di lavoro è diventato un luogo “a rischio” e Kelleher si esercita nel tentativo di spiegare ai tagliatori di teste delle aziende come licenziare senza incorrere in spiacevoli e sanguinolenti infortuni, ricordando ai suoi lettori come un lavoratore americano su sei in qualche momento della vita soffra di psicosi maniaco-depressiva.

Secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro, gli statunitensi lavorano un mese all’anno in più dei giapponesi e tre mesi in più dei tedeschi, con la differenza che questi ultimi hanno l’assistenza sanitaria assicurata. L’Ufficio del censimento statunitense documenta che nel 1981, anno in cui alla Casa Bianca traslocò Ronald Reagan, il reddito annuale di un operaio con il minimo salariale era il 98,2 per cento della soglia di povertà ufficiale. Nel 1989, alla fine dell’era Reagan, quello stesso operaio quadagnava il 70 per cento di quella stessa soglia. Il salario minimo era cresciuto sette volte negli anni sessanta, sei negli anni settanta, mai negli anni ottanta. Erano gli anni in cui il sindacato era dipinto come “anti-americano, immorale e corrotto”. Negli ultimi trent’anni, l’orario medio di un lavoratore è cresciuto di 184 ore all’anno.

Una persona da sola, in preda alle forze oscure e alle mani invisibili quanto violente del mercato, non riesce a sfogare la propria rabbia. Proprio come Ronnie MacDonald’s, il clown-mascotte del colosso della ristorazione, i lavoratori sotto pressione manifestano le loro inquietanti aggressività sorridendo. Ma, scrive Ames, “quei sorrisi somigliano ai richiami usati da certi mammiferi per identificare l’individuo col branco, per evitare di essere espulsi”. Una dirigente della Lehman Brothers racconta di quando l’amministratore delegato gli disse: “Rida più spesso, così le gente saprà di quanto è grata di conservare il suo posto di lavoro”. A quanto risulta dalle deposizioni dei suoi colleghi, sorrideva sempre anche lo stragista Wesbecker.

Come mai tanta sofferenza non si trasforma in ribellione? Il libro torna indietro di qualche secolo. Scopriamo così che secondo l’iconografia paternalista ufficiale, erano giocosi e docili anche gli schiavi portati dall’Africa nelle Americhe. E che la visione idealistica che vuole che le ingiustizie e le violenze comportino automaticamente la rivolta dei “giusti” è clamorosamente smentita dalla storia. C’è stato un periodo storico molto [troppo] lungo in cui l’abolizione della schiavitù era considerata come troppo radicale e velleitaria, e le poche rivolte come atti di follia collettiva. Persino i predicatori cristiani faticarono a convincere gli schiavisti per poter fare proselitismo presso gli schiavi: nel 1725 il decano George Berkeley arrivò a sostenere che “la Libertà in Cristo si accorda con la Schiavitù Terrena”.

Le analogie con la situazione attuale si fanno inquetanti. “Una delle motivazioni più frequenti alla base dell’operosità di uno schiavo era che, portando a termine il suo lavoro, aveva la sensazione di ricavarne un interesse personale”, scrive Blassingame nel suo saggio “The slave community”. E Richard Donkin sul Financial Times ha commentato così i consigli agli schiavisti dell’antica Roma di Columella nel “De re rustica”: “Dovremmo considerarlo il padre delle risorse umane?”. Un dirigente della At&T, parafrasando Columella afferma che ogni lavoratore “dovrebbe sentire che gli sei superiore, ma che rispetti i suoi sentimenti e le sue esigenze”.

Nota Ames: pensando alla “eccentricità degli anti-schiavisti” è impossibile non pensare allo sgomento degli apprendisti stegoni liberisti quando esplose il movimento di Seattle, nel 1999. Dunque, solo un pazzo può svelare le ingiustizie in un momento in cui sono accettate come normali? Dal 1640 al 1865, nell’America del Nord, in 533 casi gli schiavi assalirono e/o assassinarono i padroni bianchi. Furono gesti individuali, non rivolte organizzate. Nel 1859 l’avvocato di John Brown, colui che pochi anni dopo sarebbe stato proclamato eroe nazionale per il suo fallimentare tentativo di sobillare gli schiavi, cercò di dimostrare che la fallimentare “guerra di liberazione dalla schiavitù” tanto sbandierata dal suo assistito fosse frutto di una follia ereditaria. Solo il fatto che i nordisti si convertirono improvvisamente all’abolizionismo per accattivarsi le simpatie dell’opinione pubblica mondiale contro i sudisti, fece in modo che Brown, dopo la sua impiccagione, diventasse un eroe nazionale.

“Certamente nella vita di oggi ci sono molte cose crudeli di cui non riusciamo ad afferrare la drammaticità, ma che risulteranno ovvie tra un centinaio di anni”, scrive Ames. Oggi nessuno si sogna di associare gli omicidi seriali nei luoghi di lavoro, gli “omicidi per rabbia”, al crescente disagio sociale. Anzi, quasi nessuno: la rivista dei businessmen Fortune, già nel 1990, aveva sarcasticamente consigliato ai dirigenti d’azienda che era il caso di “distribuire giubbotti antiproiettili insieme ai badge”.

23-04-2013