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Space Wars: questo non è un videogioco

Come l’esperienza quotidiana del confinamento e del distanziamento sociale rimettono in causa le categorie dello spazio e del tempo a livello di aspettative individuali e di dinamiche sociali. È il nuovo contesto operativo con cui comunque dobbiamo fare i conti

Tutto lascia pensare che stiamo avendo una nuova esperienza dello spazio. Uso il termine neutro “avere” perché in realtà quell’esperienza ce l’hanno imposta e però l’abbiamo anche vissuta di nostra volontà, per convinzione e paura. Parlo di qualcosa di molto materiale e semplice. La reclusione forzata dentro casa e la fila al mercato per procurarsi vivande fresche.

La reclusione è meno interessante, è una misura preventiva che espande l’esperienza occasionale di una degenza per malattia intervenuta. È capitata individualmente a tutti, caso mai spaura il deserto delle strade per effetto della reclusione generalizzata.

Più significativa è l’esperienza della fila, che è diventata un passaggio obbligato del ciclo di riproduzione – prima la si faceva alle poste, alle mostre, per un concerto, per l’uscita di un nuovo prodotto, insomma uno sfizio o una seccatura. La si poteva aggirare pagando un saltafila o con una prenotazione via computer. Oggi devi dedicare alla fila una congrua parte della giornata, bardato con mascherina e guanti, ben distanziato dagli altri, riconfigurando tutto lo spazio circostante con un distanziamento sociale che implica una certa dose di ostile sospetto verso i vicini che starnutiscono o tossiscono – gli altri sono un nemico virtuale, il rivale al di là del fiume di un metro. Per terra, al mercato, sono tracciati con nastro adesivo, i riquadri di mia spettanza davanti ai banchi.

I due termini all’ordine del giorno sono, appunto, social distancing e confinamento: la fila è l’unico pretesto autorizzato per uscire dal confinamento, con in tasca la debita autocertificazione.

In una dimensione meno privata e di sussistenza queste figure si espandono minacciose: tendoni di triage Covid davanti al pronto soccorso, accesso contingentato per età e patologie alla rianimazione, penuria imminente di mezzi alimentari e finanziari, porti sbarrati, confini sigillati, inimicizia fra le nazioni e ostilità ai poveri che premono sulle case segregate, siano migranti, accattoni (già spariti), homeless, saccheggiatori di forni e supermercati. Ogni “assembramento” è pericoloso: nei parchi a prendere il sole, coppie, runner a frotte, ma in effetti si ha di mira qualcosa d’altro, l’aggregarsi di una massa che sfida la perimetrazione dello spazio immune, al di là delle giustificate precauzioni sanitarie del momento.

 

 

La partita si gioca dunque sullo spazio. Non per scelta nostra e non è un videogioco. Le categorie temporali se la passano malissimo. Accelerazionismo, dromologia, tempo qualitativo – che roba è? Fiori sgargianti, sbocciati sul terriccio del capitalismo di piattaforma e delle start-up (al top di scala), della gig economy (a metà scala), della hustle economy (in fondo). Cioè su una base informale che in larga parte è stata già spazzata via. Questo comporta un’alterazione qualitativa del tempo vissuto e del tempo di rotazione del capitale.

Adesso un’intera generazione vive un tempo liscio da pensionato – senza percepire una pensione, anzi con possibilità nulle di maturarla in futuro. Spariti i venerdì e i sabati di sballo nonché le domeniche di sonno e i nefasti lunedì mattina. Siamo passati, per usare termini scioglilingua, dalla deterritorializzazione alla riterritorializzazione. La faccio più semplice: sto sulla rotta di Ciampino e sopra la testa non mi passano più gli aerei diretti a quell’hub dei low cost. Quella generazione, quella del tempo allisciato non avrà più Erasmus, priorità di imbarco e voli low cost per un bel po’. Avrà invece tutto lo spazio increspato che vorrà, confini, dogane, controlli con tampone e basta varchi Schengen da cui guardare con compassione le code degli extra-comunitari.

A livello di produzione il just-in-time (JIT), l’adeguazione quasi istantanea alla domanda che riduce al minimo il magazzino, reggeva sull’efficienza perfetta della supply chain, che è proprio il meccanismo globale, già incrinato dalla guerra dei dazi, che è saltato con la pandemia e si ristrutturerà in modo assai lento e imperfetto. Ogni paese farà rientrare i segmenti produttivi decentrati e si terrà le scorte in caso di emergenza. Su questa base strutturale si innesta il resto, il declino del turismo facile, degli sciottini e degli apericena.

Il no future punk è tutto da rimpiangere (infatti non aveva hashtag). In realtà era un’anti-utopia carica di slancio utopico, spostava il centro di gravità sul presente e lo viveva drammaticamente. Oggi gli squallidi hashtag #andrà tutto bene e #nulla sarà più come prima suonano solo da consolazioni da balcone e il focus sul presente mi pare proprio da evitare. Chi avrebbe oggi il coraggio di citare Mallarmé: «Le vierge, le vivace et le bel aujourd’hui / Va-t-il nous déchirer avec un coup d’aile ivre». Non ce la sentiremmo manco di cantare, con i Joy Division, «Love, love will tear us apart again…». Magari!

La tonalità emotiva che sta prendendo il sopravvento è la depressione. Colore grigio, neppure con i bagliori sulfurei dell’angoscia e del panico. Questo vale per la borghesia, bloccata in comode residenze e con l’illusione che, ristabilendo i posti a tavola così come erano prima, si possa infrangere l’invisibile divieto a uscire – El ángel exterminador di Buñuel l’aveva profetizzato nel 1962 – ma investe anche le masse subalterne e ora “disassembrate” e ristrette in luoghi meno confortevoli.

 

 

Dalle impressioni soggettive di cui sopra non vogliamo cavare molto di più di questo: che le prossime guerre si combatteranno sulla gestione degli spazi a livello micro- e geopolitico. Non che sia una novità ma qualche idea potrebbe venire: non in un’ipotetica fase 3, ma già adesso, perché a crisi precipitata (cioè risolta) rischiamo che si siano consolidate nuove forme di potere.

Il declino delle categorie e aspettative temporali e la prevalenza di quelle spaziali – passando sul piano transindividuale e di massa – presenta elementi positivi e di regresso, ma soprattutto tendenze oggettive con cui fare i conti.

Il primo sconquasso temporale è la messa in mora del debito.

A livello ufficiale sono crollati i primi tabù. Lo sciagurato pareggio del bilancio nazionale, il vincolo di compatibilità europeo, i limiti di spesa in deficit per gli interventi eterogenei di sostegno al reddito e le clausole workfaristiche del reddito di cittadinanza. L’insolvenza degli stati e dei singoli è e sarà sempre più un dato di fatto. Gli stati debitori, posti davanti all’alternativa fra restituire il debito e far morire i propri cittadini, se ne sbatteranno del senso di colpa e manderanno a farsi fottere la Schuld. Ci saranno lunghe trattative, ma finirà così.

L’austerità più sanguinosa può essere imposta a un singolo paese come la Grecia, ma non a mezzo mondo o più. E i più esosi riscuotitori di affitti, canoni e mutui resteranno a mani vuote o per aperta rivolta delle vittime o per loro insormontabile insolvibilità.

In ogni casi le pretese creditizie, quando toccano terra, si sbriciolano. Con la pandemia “nun c’è trippa pe’ gatti” e il fattore tempo è vanificato per gli interessi dei creditori e pure per buona parte del capitale investito.

La naturalizzazione della crisi in pandemia è stato un brillante espediente per mascherarla, ma alla fine l’elemento “naturale” si è preso la rivincita: gli affamati hanno deciso, con buona pace di Milton Friedman, che i pasti sono gratis. La richiesta di moratoria o annullamento per il debito degli stati è diventata evidente anche per un capitalismo riformista alla Stiglitz. I più ottusi intigneranno e finiranno per pagare un prezzo ancora più alto. Potrebbe essere il destino dei falchi della Ue.

Il sopravvento dello spazio, per converso, esibisce i suoi tratti più regressivi nell’isolamento temporaneo nei confini della casa o più durevole dello stato-nazione neosovranista, nel ristabilimento di frontiere, dogane e valute, nelle risse fra poveri e negli egoismi tribali – e tuttavia sarà in e contro quel nuovo contesto che dovranno misurarsi le lotte. Questo è l’aspetto più problematico, ma non necessariamente scoraggiante, di una riflessione sulla ripresa intra- e post-Covid.

Non a caso le prime battaglie su questo terreno hanno riproposto, sotto il nuovo dispositivo crisi-pandemia, questioni già esistenti: per esempio lo svuotamento delle carceri giudiziarie sovraffollate e di quelle carceri amministrative illegali per migranti che sono i Cpr e affini, nonché la campagna sul blocco dei porti e del soccorso in mare con pretesti di quarantena o semplicemente girando la testa dall’altra parte. Ce ne saranno altre.