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«Non ho tempo e serve tempo»

Appunti sul malanno, abbozzi sulla terapia: rileggendo e ricordando le poesie di Antonio Neiwiller, per tornare a pensare il tempo come campo di battaglia. Il tempo dell’immaginazione politica è, nel nostro tempo, out of sync

Chi ricorda Antonio Neiwiller? Chi fa teatro di ricerca, non può non ricordarlo. Quasi tutti conoscono i suoi sodali, ormai di grande successo: Mario Martone e Toni Servillo, con i quali, nel 1987, Neiwiller fondò Teatri Uniti. Qualcuno ancora lo ricorda Sindaco di Stromboli in Caro diario di Nanni Moretti. A lui, Napoli deve Brecht e molto altro, negli anni della «rivoluzione sconfitta». A un amico, un artista napoletano (Giulio Ceraldi) che segnò in modo indelebile la mia prima giovinezza, devo una copia autografa della sua raccolta di poesie del 1988, dal titolo: Non ho tempo e serve tempo.

Un presagio fosco, quello di Neiwiller? Una malattia infame lo portò via quarantacinquenne, nel 1993. Più correttamente, la sua fu una profezia. Non conosco nessuno che, in questo tempo che viviamo, non viva il tempo come una rarità, un’ossessione, una disfatta. Non stupisce che oggi gli scaffali delle librerie siano pieni di libri sul tempo che manca, e un’attenzione non banale sia stata catturata dal tema della Great Resignation. Anche se non si sa bene come ci si possa dimettere senza soldi accumulati, o comunque competenze “che tirano” (STEM) per poter surfare sul mercato del lavoro, è senz’altro diffuso il desiderio di scendere dal treno in corsa, di usare un sussidio purché sia per cambiare strada.

Vero, spaventa la locomotiva diretta verso la catastrofe: la guerra ucraina non accenna a fermarsi; nel Pacifico la tensione cresce per la «seconda guerra dei chip»; nel Mediterraneo si continua a morire a mucchi; in Africa peggio.

Angoscia dunque l’idea che non ci siano rifugi, che la lunga pace europea sia davvero terminata, che l’inflazione, col conseguente raffreddamento dei tassi, farà quello che ha sempre fatto: stagnazione, recessione, consolidamento delle disuguaglianze, fascismi. Eppure c’è una sofferenza meno appariscente, una sorta di basso di sottofondo (che sveglia la notte): scarseggia il tempo per vivere.

Intendiamoci, in alcune zone del mondo l’umanità non ha mai campato tanto come adesso. Si invecchia senza fine, semmai non si nasce più, l’inverno demografico terrorizza chi di mestiere estrae plusvalore assoluto e relativo da quella peculiare merce di nome forza-lavoro; la quale, per poter essere usata a prezzi bassi, deve prima nascere in abbondanza (compito principale della reazione europea, di Meloni e di Morawiecki, è proprio questo: far nascere, in abbondanza, forza-lavoro bianca). Così come servono tanti soldati per fare la guerra, per morire in guerra, anche quella che si combatte a colpi di droni. Non ci sono da rimpiangere epoche nelle quali l’aspettativa media di vita non superava i quarant’anni: la critica del presente non ha nulla a che fare con la celebrazione aristocratica della “vera” vita del tempo eroico che fu. Ciò che si omette, invece, è che si campa fino a ottanta anni e più perché la tragedia delle guerre mondiali, la competizione tra blocchi e la risposta keynesiana alla Grande Depressione degli anni Trenta, hanno depositato per diversi decenni alti salari, sanità pubblica di qualità, cura di sé e accesso massificato ai consumi, alle vacanze estive, ecc. Sarà ancora così alta l’aspettativa media di vita dopo decenni di precarietà, smantellamento e privatizzazione del welfare, pandemie e «guerra mondiale a pezzi»? Ai celebratori dell’Occidente liberale, suggerirei un po’ di cautela.   

Quale, allora, il tempo che davvero manca?

Il tempo che vorresti perdere

il tempo in cui non vorresti pensare al tempo

Antonio Neiwiller ci offre un primo slancio. Si sente forte la tradizione materialista, maledetta, che scorre da Epicuro fino a Spinoza, da Schiller fino a Marx, da Benjamin fino a Marcuse. Fermare il tempo infernale della «razionalità calcolante», far emergere in primo piano l’impulso al gioco, capace, secondo Schiller, di «sopprimere il tempo nel tempo»; sparare sugli orologi per «scardinare il continuum della storia», scrive Benjamin in fuga dai nazisti: non vi è trasformazione radicale dell’esistente senza un’alternativa esperienza del tempo; discontinuo e pulsato, monadico ed espressivo, collettivo; non più «omogeneo e vuoto». Il tempo intenso di una vita degna di essere vissuta è un «lusso» – presagiva Hans Magnus Enzensberger – al quale i più non hanno modo di accedere.

Il ritmo del tempo

il tempo

a cui hai dato un tempo  

Contrariamente a quanto solitamente si pensa, il tempo infernale del lavoro contemporaneo, «24/7», è privo di ritmo. Lo aveva compreso Georg Simmel, pensando al dominio del denaro: nessuna libertà individuale, senza reificazione monetaria dei rapporti sociali – si esaltava; nella libertà del “potere nel portafogli”, però, il flusso – del lavoro, del consumo – è indifferente a ogni singolarità – comprendeva, come pochi, il «conflitto della civiltà moderna». L’intermittenza contrattuale, il part time involontario, la finta Partita Iva, il finto apprendistato, lo stage e il tirocinio: i nomi di un lavoro che non si ferma più, che non basta mai, che supplica conferma, che si piega senza sosta, che si umilia finché può. (la categoria di ‘umiliazione’ – subita e che ci si infligge – nel lavoro intellettuale contemporaneo pretende uno studio approfondito).  

I nati negli ultimi due/tre decenni devono aver capito, tanto che nessuno più li capisce. L’affollato mondo dei pensionati con sistema retributivo ha fatto mutui e comprato case, distribuito “paghette” e votato moderato, sempre convinto che il massimo che si potesse fare fossero le primarie.

Intanto, in Italia e in Europa, il ceto medio impoverito (dei bottegai, dei capannoni, ecc.) è tornato reazionario, razzista: più sputa sangue per poter mantenere i privilegi un tempo facili, più sputa odio contro migranti e poveri. Reazione patriarcale, dei maschi che non hanno più tradizione e denaro per poter dire, eretti con la schiena e il petto in fuori: «stai zitta, qui comando io; sono io che porto i soldi a casa, zitta e pedalare». No, non funziona più. E quando il linguaggio fa cilecca, ci pensano le botte a riconquistare il terreno perduto.

Fermarsi

il tempo che ti serve

per immaginare il tempo

L’immaginazione crea il nuovo. A volte, si tratta solo di afferrare aspetti per troppo tempo non visti (Wittgenstein, ancora). Di ripetere in modo inedito, di tornare per la prima volta lì dove si sta da sempre. E in verità non si sta mai davvero fermi, nella storia. Fermarsi, per costruire armi nuove, per non farsi trovare più al solito posto, per diffondere esperimenti e regole «minori»: tutto un formicolare di nuove istituzioni del tempo collettivo. Il tempo dell’immaginazione politica è, nel nostro tempo, out of sync.

Si tratta dunque di farsi da parte, di coltivare “belle” comunità bucoliche? Di confondere «minore» con «minoritario»? Il contrario: sarà ancora possibile essere «dentro e contro», a patto di non farsi prendere dalla corrente, facendo finta che il “nuovo” sia sempre buono in quanto “nuovo”; e senza, con ciò, affogare per aver nuotato in modo scomposto contro i flutti più violenti. Un’arte della vita politica capace di «parare i colpi», di fare a meno del broncio, di creare con quello che si ha. L’incertezza ci ammala, soprattutto quando si cronicizza e si fa tecnica di governo della forza-lavoro; ma è anche, e sempre, il tempo del possibile (l’incertezza di chi comanda forza-lavoro). Con le parole, l’incitazione di Cat Power: But you got nothing but time.

* Ringrazio le studentesse e gli studenti di Roma Tre, con loro ho avuto modo di discutere quanto rappreso, in poche battute, poco sopra. To be continued

Immagine di copertina Foto di WagnerAnne da Pixabay. Immagine dentro l’articolo da Caro Diario di Nanni Moretti