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Sanders vs Amazon. Segni di ritorno del socialismo

Il 2 ottobre Jeff Bezos ha annunciato un innalzamento del salario minimo dei dipendenti Amazon: una vittoria dei lavoratori e del movimento Fight for $15 che si batte per l’aumento del salario minimo negli Stati Uniti. Si tratta di inoltre di una vittoria del senatore socialista Bernie Sanders nella sua battaglia contro il fondatore di Amazon, parte di una strategia più ampia che punta il dito a quell’1% che detiene la quasi totalità della ricchezza prodotta nel paese. Questa vittoria offre uno spunto per riflettere sul ritorno e sull’ascesa del socialismo democratico negli Stati Uniti e nel Regno Unito

Mentre in Italia l’introduzione del reddito di cittadinanza provoca un dibattito sulla povertà, può essere utile guardare oltreoceano, per più motivi. Il primo: il ritorno in auge della parola socialismo poggia su un programma che è interessante indagare non solo per il tipo di risposte che propone, ma per il tipo di domande che impone. Mentre la domanda «come si sconfigge la povertà» può prestarsi benissimo a strategie (elettorali) improntate ora al paternalismo delle soluzioni una tantum, ora a crociate legalitarie da implementarsi con i vari corpi di polizia di cui lo stato dispone (la finanza per controllare gli acquisti dei poveri, la polizia per sgomberare gli immobili occupati, ecc.), la domanda che negli Stati Uniti veniva posta sulla povertà ha il pregio di non interrogare un soggetto generico e vuoto (“i poveri”) ma di interpellare soggetti specifici, individuabili, singoli. Il che equivale non a chiedere quali siano i “motivi” della povertà ma quali siano le sue cause. Nello specifico, la domanda circa la povertà negli Stati Uniti non interrogava direttamente i poveri, bensì quell’1% che detiene più dell’82% dell’incremento della ricchezza globale (nel 2017). Questa “domanda” apre una riflessione sul lavoro e sul reddito, e sulle conseguenze che una certa concezione della povertà ha sulla tenuta democratica delle nostre istituzioni.

 

La battaglia di Bernie Sanders contro Amazon

 

Ad agosto, il senatore socialista Bernie Sanders, twittava:

 

«Contate fino a dieci. In quei dieci secondi, Jeff Bezos, il proprietario e fondatore di Amazon, ha appena guadagnato più denaro di quanto guadagna il dipendente medio di Amazon in un anno intero. Un anno intero».

 

Quest’accusa, rivolta al fondatore di Amazon, tradisce una visione secondo cui la povertà non è un affare semplicemente sconveniente (di fronte a cui si può non avere i mezzi o le risorse di cui ci sarebbe bisogno), ma un problema sistemico – o, per usare le parole del sociologo Ulrich Beck, un effetto collaterale di un sistema che sta invece funzionando benissimo. Vale la pena notare un’altra cosa: il “dialogo” che da allora Bernie Sanders e Jeff Bezos intrattengono a colpi di tweet, comunicati, dichiarazioni, e petizioni, avviene a parti invertite rispetto a ciò a cui la politica ci ha abituati: Amazon promette la creazione di 50.000 posti di lavoro, Sanders attacca. E mostra la natura ricattatoria di questa offerta.

 

 

I lavoratori di Amazon sono costretti a ricorrere ai food stamps (carte di credito con cui persone a basso reddito possono comprare beni alimentari; rientrano nel Supplemental Nutrition Assistance Program), sono iscritti a Medicaid (programma federale sanitario che garantisce la copertura assicurativa alle fasce a basso reddito), e vivono in case popolari.

 

Eppure sono le stesse città a fare offerte al ribasso, peraltro segrete, al gigante dell’e-commerce, in una gara per accaparrarsi il prossimo quartiere generale di Amazon, HQ2: incentivi finanziari, una tassazione inesistente, in cambio di 50,000 posti di lavoro e «investimenti da 5 miliardi per la città che si aggiudicherà la gara». Neanche i consiglieri comunali delle città in lizza possono accedere alla documentazione delle offerte – le trattative sono spesso in mano a privati o alle camere di commercio che non hanno l’obbligo di rendere pubblici i documenti. Persino Richard Florida, membro del comitato promotore di Toronto, unica città non americana in gara, ha dichiarato che la mancanza di trasparenza di questa operazione è allarmante – motivo per cui si sarebbe dimesso. Ha aggiunto che: «Tutto questo deve essere reso pubblico, perché si tratta dei soldi dei contribuenti» e che, quando ai cittadini della città che si aggiudica la sede fosse stato «rivelato quanto soldi sono stati promessi ad Amazon, pagarli sarà una cosa infernale». Altrove ha scritto: «C’è una parte della competizione HQ2 di Amazon che è profondamente inquietante – mettere in competizione le città tra loro in una guerra dispendiosa ed economicamente improduttiva per offrire le migliori tasse e altri incentivi. Essendo una delle aziende più preziose al mondo, Amazon non ha bisogno di – e non dovrebbe rincorrere – i dollari dei contribuenti che potrebbero essere utilizzati meglio per scuole, parchi, trasporti pubblici, abitazioni o altri beni pubblici di cui c’è bisogno».

 

Le città sono, in questa gara, assets da svendere o svalorizzare e i beni pubblici di una città sono parte di un pacchetto da offrire per avere posti di lavoro in cambio. Il guaio è evidente, perché in questo caso i posti di lavoro che hanno motivato l’investimento di soldi pubblici non producono reddito ma altri poveri, che hanno bisogno di altri soldi pubblici, nella forma di sussidi, per non scivolare sotto la soglia di povertà.

 

Ad agosto Bezos ha contrattaccato: ha risposto al tweet di Sanders sostenendo che la paga oraria dei lavoratori Amazon è di 15 dollari l’ora e che le accuse di Sanders sono «ingannevoli». Il senatore ha ribattuto che questi dati si riferiscono ai lavoratori assunti direttamente da Amazon e che la forza lavoro impiegata da Amazon è composta da un 40% di lavoratori assunti tramite agenzie interinali. Sanders ha esortato Bezos a rendere pubblico il numero di lavoratori assunti tramite queste agenzie e a dichiarare il loro salario. Ha inoltre creato una sezione sul suo sito dove raccogliere le esperienze in prima persona di quanti sono impiegati dal gigante del’e-commerce. Amazon ha risposto creando una pagina uguale, chiedendo ai propri lavoratori di accettare l’invito di Sanders e raccontare la verità sulle (buone) condizioni di lavoro. Secondo un portavoce di Sanders, le storie postate sulla pagina di Amazon sono state 100, tutte rintracciabili a soli 4 indirizzi IP, localizzate a Seattle. Altri, nel frattempo, hanno cercato di calcolare esattamente quanti benefici, in forma di incentivi per lo sviluppo economico e sgravi fiscali, sono stati offerti ad Amazon dalle città e dagli stati in cui opera: secondo Good Jobs First tra il 2000 e il 2018 Amazon ha ricevuto più di un miliardo di dollari di fondi pubblici.  

 

In realtà la situazione è peggiore di quello che sembra: da un’inchiesta emerge che è proprio per poter ricorrere a questi incentivi che Amazon assume più lavoratori di quanti ne avrebbe effettivamente bisogno.

 

Non solo ai lavoratori viene detto che possono andare via prima della fine del loro turno, ma spesso sono mandati a casa prima ancora di iniziare. Questo comportamento è stato persino formalizzato e reso motivo di vanto dall’azienda. Si chiama Voluntary Time Off, descritto da una portavoce della compagnia come l’ennesimo beneficio si cui possono godere i dipendenti: «Nel mese di novembre, quando assumiamo decine di migliaia di lavoratori stagionali abbiamo l’opportunità di offrire  tempo libero volontario (VTO), un beneficio per i nostri impiegati che possono prendersi una pausa prima che il lavoro aumenti nel periodo delle vacanze». Il VTO viene usato in una maniera ancora più inquietante: può infatti accadere che un impiegato riceva “offerte” di tempo libero mentre lavora, mentre percorre a piedi i chilometri di scaffali alla ricerca della merce da selezionare. Sullo scanner che usa per individuare la merce possono comparire delle “offerte” fino a venti volte al giorno e ci sono casi di impiegati che riportano di come, per “convincerli” a usufruire del tempo libero non retribuito durante la giornata lavorativa, può capitare che le singole merci da recuperare siano disposte talmente lontane l’una dall’altra da rendere il loro lavoro umanamente impossibile.

 

Sembra, in altre parole, che il segreto di Amazon, che consente a questa azienda di “creare” migliaia di posti di lavoro, sia immettere la disoccupazione direttamente dentro al lavoro, tenere alti i livelli di ricattabilità che sono inversamente proporzionali ai margini di profitto. Un profitto che è finanziato, proprio per questo motivo, direttamente e indirettamente, dai soldi dei contribuenti.

 

Inseguendo questa logica, a settembre Sanders ha avanzato una proposta di legge chiamata Stop Bad Employers by Zeroing Out Subsidies Act (detta anche “Stop BEZOS Act”), che, tradotto, chiede ai datori di lavoro di cominciare a pagare i sussidi che lo Stato elargisce ai loro dipendenti: una tassa da far pagare alle imprese con più di 500 impiegati sui sussidi che i loro dipendenti ricevono dallo stato. «Se un impiegato Amazon riceve 2000 dollari in food stamps, allora Amazon verrà tassata per 2000 dollari per coprire il costo». Il modo in cui Sanders ha illustrato la sua proposta è significativa: si tratta di mettere fine a una situazione in cui i «contribuenti finanziano le persone più ricche del paese che pagano salari inadeguati ai loro lavoratori» – che in un anno consentirebbe di far risparmiare circa 150 miliardi di dollari ai contribuenti americani. Se i sussidi sono ottenuti con le tasse pagate dai contribuenti, dare sussidi a quanti lavorano per Bezos equivale di fatto a fornire un aiuto da parte dello stato all’uomo più ricco del mondo.

 

A quanto pare ha funzionato. Il 2 ottobre Jeff Bezos ha annunciato che a partire dal primo novembre il salario minimo di tutti i dipendenti salirà a 15 dollari l’ora, con un incremento dagli 11 dollari attuali e quasi il doppio della paga minima federale, ferma a 7,25 dollari da quasi un decennio.

 

L’aumento riguarderà i lavoratori part-time, i lavoratori stagionali, gli impiegati presso la catena Whole Foods, quelli assunti tramite agenzia interinale, ed è previsto un aumento anche per i lavoratori assunti a tempo pieno direttamente da Amazon (l’aumento riguarderà anche gli impianti dislocati in Gran Bretagna). Una vittoria, e uno scambio di tweet a cementare questo rapporto Sanders-Bezos che assume toni quasi smielati: il senatore americano annuncia la decisione presa dal manager ed esorta le corporazioni nel resto del mondo a seguirlo, Bezos ritwitta e dopo aver ringraziato il suo rivale aggiunge: “siamo felici, speriamo che altri ci seguiranno”. Annuncia poi l’intenzione di fare “lobbying” a Washington per alzare la paga minima federale.

 

 

 

Mentre i sindacati inglesi già denunciano come gli aumenti di salario verranno compensati con il taglio di bonus, in generale la stampa è concorde nel ritenere che la ripresa della situazione occupazionale ora in corso negli Stati Uniti gioca un ruolo importante e c’è infine da aggiungere – per spiegare le dichiarazioni di Bezos – che negli Stati Uniti le campagne di “shaming”, che lavorano sulla reputazione delle persone, funzionano. L’immagine di Amazon aveva toccato il fondo, con le inchieste sulle condizioni di lavoro all’interno degli stabilimenti, e dopo aver ottenuto l’abrogazione di una misura per tassare le imprese con un fatturato annuale di almeno 20 milioni, approvata all’unanimità dal consiglio comunale della città di Seattle. La tassa avrebbe fruttato 48 milioni di dollari alle casse del comune da utilizzare per affrontare la crisi abitativa (Seattle è la terza città negli Stati Uniti per numero di senzatetto).

L’innalzamento del salario minimo per i lavoratori di Amazon è una grande vittoria: non solo di Sanders ma di una fetta importante di lavoratori e sindacati che hanno cementato le loro battaglie in questi anni, a partire dalle mobilitazioni dei lavoratori della food industry cominciata nel 2012 e cresciuta con l’organizzazione del movimento Fight for $15. Come nota Jeremy Corbyn, l’aumento del salario minimo non è un “regalo” ma la conquista di una battaglia organizzata.

 

 

La legislazione antitrust e i nuovi monopoli

Eppure, alcune critiche a Bernie Sanders vengono da sinistra e insistono sul fatto che proposte di legge come quelle avanzate dal senatore non bastano, perché per quanto l’idea vincente di Sanders sia di spostare l’onere della spesa sociale sugli attori che sono alla radice dell’ineguaglianza sociale – in crescita esponenziale – allo stesso tempo, queste misure non riformano il sistema economico esistente. Imporre alle aziende di finanziare la costruzione di case popolari nella città in cui operano non intacca il potere economico delle grandi multinazionali e misure del genere sono, casomai, tentativi da parte della classe politica di rimediare alle politiche di amministrazioni precedenti (o presenti) che hanno rovinato le città, svendendole ai privati. Il ciclo si è concluso, gli effetti sono visibili e sono devastanti. Per questo motivo non servono politiche volte a ripulire, rimediare, a reimmettere nelle città parte di quella ricchezza che è stata estratta, bisogna aggredire il meccanismo che consente alle multinazionali di continuare a operare con logiche ricattatorie che producono miseria ed emarginazione.

 

Secondo alcuni, per esempio, ciò su cui non ci si concentra abbastanza sono le leggi antitrust, che hanno smesso, negli Stati Uniti, di essere applicate in maniera effettiva più o meno a partire dagli anni ‘70.

 

Dietro al loro non operare – le leggi antitrust dovrebbero limitare la concentrazione del potere economico, ovvero i monopoli, in nome della libera concorrenza – c’è una precisa volontà politica che si tiene, o si teneva, sul mito dei prezzi bassi, di cui avrebbero beneficiato i consumatori – o, più precisamente, il consumo. Quando si nominano le leggi antitrust, infatti, si tende a pensare a operazioni che mirano a tenere alto il prezzo di un bene, o a cartelli di aziende unite in questo obiettivo. Si tende, in altre parole, a non pensare al monopolio come a qualcosa che ha cambiato natura e che opera tenendo i prezzi bassi.

 

Quando la legislazione è stata piegata a una determinata scuola di pensiero (a partire dalla Scuola di Chicago) e si è unita a una volontà politica che dagli anni ‘70 l’ha resa inoperante, ha trionfato il credo che i prezzi bassi siano una buona cosa, proprio perché in grado di garantire la concorrenza.

 

Quello che non funziona della teoria che collega l’offerta e il consumo in questo modo (trattando il consumo come la parte finale e più importante del sistema, in grado di alimentarlo interamente) è che i monopoli non influenzano solo i prezzi ma il meccanismo stesso di produzione (basti pensare agli effetti di Amazon sull’editoria). In particolare, Amazon deve la sua fortuna a una strategia basata sui prezzi predatori, che riduce il prezzo di un bene al di sotto dei costi marginali di produzione, ciò che ha garantito la sua espansione sul mercato. Questo tipo di espansione determina un monopolio molto diverso da quello “classico”, che impone prezzi alti e una produzione bassa. Secondo Lina Khan, esperta di legislazione antitrust e tra le più autorevoli critiche del sistema-Amazon, un monopolio cessa di essere una mera impresa e diventa un’«istituzione». Da un punto di vista economico, questo significa che qualsiasi decisione prenda un’impresa di tali dimensioni, costringe il resto del mercato a seguire. Motivo per cui ad Amazon basta semplicemente annunciare che ha intenzione di fare concorrenza in un determinato settore per causare il crollo di imprese più piccole. C’è però un effetto di questo stato di cose che non è solo economico e che riguarda gli effetti che le relazioni economiche hanno sulla sfera politica: secondo Lina Khan «per la maggior parte delle persone, l’interazione quotidiana con il potere non è con il rappresentante al Congresso, ma con il proprio superiore. Se nella tua vita di tutti i giorni sei trattato come un servo nelle tue relazioni economiche, che effetto ha questo sulle tue capacità civili, per la tua esperienza di democrazia?».

Il problema di Sanders sarebbe dunque proprio quel tweet in cui Bezos si augura di essere preso ad esempio da altri nella sua decisione di alzare lo stipendio minimo dei lavoratori. È proprio il fatto di essere un gigante che probabilmente determinerà questo cambiamento – magari per il solo fatto di averlo annunciato. Tuttavia, non solo Sanders ha probabilmente individuato Bezos come suo “interlocutore” privilegiato proprio per questo (nominando molte altre industrie senza però attaccare direttamente i loro fondatori), ma c’è motivo di credere che questa vittoria non sia isolata, bensì il frutto di una strategia che, se perseguita, potrebbe segnare un nuovo corso. La prossima battaglia di Sanders, annunciata il giorno dopo la vittoria contro Amazon, sarà per l’applicazione della stessa logica alle grandi istituzioni finanziarie (JPMorgan Chase, Citigroup, Bank of America, e Wells Fargo), che «se sono troppo grandi per fallire, sono anche troppo grandi per esistere».

 

«Too big to exist» significa attaccare i monopoli che si reggono, direttamente, o indirettamente, sui soldi dei contribuenti.

 

Nel caso delle istituzioni finanziarie la logica del “renderle più piccole”, intende avanzare una legislazione che operi esattamente su quella nozione di “rischio” che è stata la causa della crisi economica del 2008 – e delle politiche di austerity che hanno dimezzato la spesa pubblica nella quasi totalità dei paesi colpiti. Dunque se per un verso il modo in cui Sanders prende di mira imprese e istituzioni nominandole fa pensare a una politica “punitiva”, che dunque si limiterebbe a “togliere ai ricchi per dare ai poveri”, è guardando al disegno complessivo (e ai programmi degli altri candidati che stanno raccogliendo consenso dietro all’espressione «socialismo democratico») che queste stesse azioni sembrano indicare qualcosa di diverso. Attacchi come quelli di Sanders mirano a colpire ingranaggi specifici e concreti di un meccanismo che fino a oggi era stato percepito, forse nel suo essere sovranazionale, impersonale, astratto, non imputabile. Per citare di nuovo Beck, se il capitalismo globale si caratterizza per la mancanza di “centri d’imputabilità”, la vittoria dei lavoratori Amazon potrebbe essere anche un primo segnale di un’inversione di tendenza, dove gli “imputabili” vengono indicati e obbligati ad agire.

 

Corteo pro-Sanders

 

Ciò che infine colpisce di questa vittoria è il suo essere il frutto di un lavoro di opposizione, il fatto che l’operato di Sanders avviene nel contesto di una politica fiscale nazionale che è marcatamente opposta alla sua.

 

Che Amazon alzi il salario minimo nello stesso momento in cui Donald Trump regala immensi tax breaks alle aziende, offre importanti spunti di riflessione: a pagare, nella battaglia di Sanders ad Amazon, è stata la radicalità dell’attacco, radicale non tanto nel suo portato ideologico, quanto nelle capacità di individuare le dinamiche su cui si regge l’economia contemporanea.

 

Già all’epoca delle primarie, della corsa contro Hillary Clinton, la stampa americana di sinistra fu più o meno unanimemente sorpresa nello scoprire che l’agenda politica di Sanders non era affatto “estrema”, ovvero che, a studiarle, le sue proposte in materia di politica economica non erano affatto “leniniste”. Con una ragionamento inverso, le ultime vittorie dei candidati socialisti contro i candidati del partito democratico, sembrano porre la domanda: se si esclude l’innalzamento del salario minimo federale, la parità di retribuzione tra uomini e donne, l’accesso alle cure mediche per tutti, una tassazione progressiva, un’educazione gratuita, la fine delle politiche migratorie attuali, che cosa significa essere di sinistra?

 

 

Il Labour Party di Jeremy Corbyn

Il ruolo centrale che gioca la “ricattabilità” – città disposte ad accogliere questo modello di economia pur di aumentare i posti di lavoro – nella contesa interna alla sinistra è illustrato altrettanto bene dal caso inglese. In un certo senso la battaglia di “termini” – moderato, progressista, radicale, socialista – che vede i socialisti democratici gareggiare (e vincere) contro la sinistra liberale, sembra ruotare attorno alla possibilità di nominare le alternative, offrendo analisi che sottraggono la politica dal dominio del “così è”. In Gran Bretagna la partita tra moderati e “radicali” è stata già vinta dall’ “outsider” Jeremy Corbyn, candidato per errore, dato per perdente, divenuto (con doppia elezione interna, la seconda tesa a farlo fuori) leader del partito laburista e candidato premier alle prossime elezioni politiche.

 

Qui la battaglia, al pari di quella americana, ha messo in luce come risulti vincente avere un programma non schiacciato sulla fattibilità – intesa come rincorsa di quei risicati margini di agibilità interni alle logiche ricattatorie del mercato neoliberista – bensì su principi improntati a un’idea di giustizia sociale.

 

 

Lo stesso giorno (il 26 settembre) in cui Theresa May si rivolgeva ai mercati, promettendo che una volta fuori dall’Europa il Regno Unito avrebbe offerto «low tax and smart regulation» per le compagnie desiderose di investire, nello specifico di fare dell’Inghilterra una sorta di paradiso fiscale al centro del G20, il partito laburista durante il suo congresso illustrava il suo piano per una Inclusive Ownership Fund. La coincidenza è significativa: il rischio concreto è che la Gran Bretagna esca dall’unione europea senza alcun accordo e la notizia del giorno era la nomina di un ministro per gli approvvigionamenti alimentari – preposto a garantire la presenza di cibo nel paese nei sei mesi successivi la brexit. Quello che May stava facendo in realtà era implorare gli investitori in ginocchio.

 

Per contro, in quelle stesse ore i laburisti introducevano un piano per la proprietà condivisa: con un governo laburista tutte le imprese con più di 250 impiegati dovranno creare un fondo in cui trasferire un minimo dell’1% (e un massimo del 10%) del capitale con cui pagare i dividendi ai lavoratori, che diventano proprietari della quota.

 

Si stima che una misura del genere potrebbe significare che quasi 11 milioni di lavoratori nel settore privato potrebbero ricevere fino a 500 sterline l’anno. Soprattutto, essendo co-proprietari dell’azienda in cui lavorano, avrebbero diritto di votare e prendere parte alla «decision-making process», al pari di qualsiasi azionista.

 

Quelle laburiste sono misure che mirano a ripristinare un’idea di pubblico, di cittadinanza, in cui lo Stato non è meramente l’entità preposta alla gestione degli “effetti collaterali” della produzione di ricchezza.

 

L’analisi di che cosa significa lavoro in un contesto neoliberale – che dunque aggiorna la questione della povertà e dello stato sociale al contesto dominato dalle logiche del neoliberismo sfrenato – rende manifesto il fatto che l’interventismo statale non è mai scomparso. Lo scenario che emerge analizzando il ciclo di produzione di un impianto Amazon permette di fare un accostamento, forse inquietante, tra assistenzialismo statale di vecchio stampo – altra faccia di una disoccupazione sistemica – e le politiche di austerity che minano esattamente quella spesa pubblica che è a sua volta l’unico modo di ovviare a un mercato predatorio. Nessuna delle due interroga la ricchezza prodotta da un sistema che si tiene sulla disponibilità costante della disoccupazione, e della sotto-occupazione.

 

 

Se si interroga la nozione di povertà e di welfare alla luce di un tipo di ricchezza predatoria ed estrattiva, quella dell’1% per intenderci, emerge, di converso, una nozione di benessere (welfare) molto diversa da quella basata interamente sul consumo. Se il pubblico può sottrarsi – gradualmente e con specifici disegni di legge, o implementando le leggi già esistenti – a un meccanismo ricattatorio e reale (gli investimenti che si tengono sugli incentivi fiscali) è perché lo stato non può essere più pensato come l’istituzione il cui compito si esaurisce nell’accertarsi che i propri cittadini stiano consumando. Il fatto che Jeff Bezos abbia ceduto agli attacchi di Sanders sembra suggerire che un’idea talmente impoverita di cittadinanza, non più democratica, diventa sconveniente anche da un punto di vista economico.

 

La proposta inglese per un fondo di proprietà condivisa non è in questo senso una misura di espropriazione sociale, ma una proposta che pensa innanzitutto agli effetti che i moderni processi di produzione hanno sui principi fondanti della democrazia.

 

Sebbene il capitale che con la proposta laburista verrebbe ridistribuito tra impiegati di una grande azienda sia relativamente alto, 500 sterline l’anno per ogni impiegato non sono una cifra esorbitante. Quello che è significativo della visione di Corbyn è l’aver avanzato una proposta che tiene insieme l’idea di ricevere i dividendi di una compagnia con un’idea di partecipazione, di accountability, che semplicemente riaggancia il valore aggiunto di un’azienda a chi realmente lo produce. Questa proposta è il frutto di un dibattito molto ampio in cui in Gran Bretagna si discute del reddito di base, dell’incremento del lavoro automatizzato, della nazionalizzazione di aziende «troppo grandi per fallire» ma che soprattutto ricavano il loro profitto dalla collettività – vedi Facebook. Misure del genere mirano a colpire multinazionali e istituzioni finanziarie solo indirettamente, se vogliamo, ovvero solo dopo aver ripensato il ruolo del pubblico, dilaniato nello specifico dai tagli e dalle politiche di austerity dei Tories. È per questo motivo forse che Jeremy Corbyn può rivolgersi non ai mercati ma ai suoi elettori, non perché il problema degli investimenti non sia reale, ma perché c’è un limite oltre al quale la svendita di ciò che è pubblico diventa semplicemente insostenibile.

 

La forza dei partiti e dei candidati che si dichiarano socialisti negli Stati Uniti e in Gran Bretagna è probabilmente quella di aver intercettato questa insostenibilità, con un ragionamento che è sia articolato che frutto di una presa di posizione.

 

L’opposto, in altre parole, sia di nozioni indefinite e vuote quali poveri, popolo, o casta / establishment, e simili, che dell’atteggiamento sostanzialmente conservatore che tutt’al più propende per una ristrutturazione moderata del modello neoliberista (a destra come nella sinistra riformista). Queste sembrano essere le due grandi alternative a una presa di posizione e alla elaborazione di una strategia che permetta di situarsi nel luogo del ricatto. L’assenza di un’analisi aggiornata ed efficace, sembra costringere queste due grandi alternative a lavorare insieme, a darsi come due facce dello stesso problema, come fenomeni che si rinforzano a vicenda. Da una parte c’è un fronte che si esprime in maniera conservativa, dall’altra un fronte che rivendica sovranismo e autoritarismo, su quello stesso terreno che è il prodotto delle politiche neoliberiste, un terreno che dunque fa del populismo una forza reazionaria. Nessuna delle due interroga le dinamiche di produzione in questo caso della povertà, entrambe le alimentano. In questo scenario l’affermarsi del socialismo democratico negli Stati Uniti e in Gran Bretagna indica una via, una possibilità di affrontare i nodi dell’economia neoliberista situandosi nei luoghi delle sue maggiori contraddizioni.