DIRITTI

Rompere il ricatto

Recensione del libro Libertà e lavoro dopo il Jobs Act. Per un garantismo sociale oltre la subordinazione (ed. Derive Approdi) che sarà presentato il 19 dicembre alle ore 18 a Esc in occasione del festival L/ivre. Diritti e cittadinanza contro la torsione neoliberale del lavoro e del welfare.

Il saggio di Giuseppe Allegri e Giuseppe Bronzini, Libertà e lavoro dopo il Jobs Act. Per un garantismo sociale oltre la subordinazione (ed. Derive Approdi), è un contributo prezioso al dibattito politico e sindacale, sopratutto se lo analizziamo a partire dalla transizione che sta scuotendo il nostro Paese fallito. Attraverso il Jobs Act, completato dai decreti attuativi approvati nel corso del 2015, il governo Renzi-Poletti ha fatto in pezzi il diritto del lavoro, cancellando lo Statuto del 1970. Di più: complementari all’intervento sul lavoro, la riforma del sistema degli ammortizzatori sociali e il riordino delle politiche attive, che hanno cominciato a definire, anche in Italia, il regime neoliberale del welfare to work.

Il testo, a mezzo di una dettagliata restituzione del dibattito italiano ed europeo in merito, dedica massima attenzione a una pretesa che più di altre ha segnato la storia dei movimenti sociali italiani degli ultimi venti anni: liberare dalle «catene della subordinazione» l’accesso alla cittadinanza e alle tutele. Anni di lotte e ricerca politica sono stati spesi, non solo per il riconoscimento di diritti dentro la condizione del lavoro (precario, autonomo, impoverito), ma, sopratutto, per la costruzione di un nuovo welfare, universale e inclusivo: diritto comune, dentro i rapporti di lavoro (subordinato e non), e anche all’interno di quella zona d’ombra dove si alternano periodi di disoccupazione, lavoro nero, invisibile, intermittente. Per milioni di donne e uomini lasciati scoperti dalla contrattazione collettiva, rompere il ricatto per conquistare libertà di scelta e autodeterminazione è significato e significa porre al centro del dibattito e dell’azione politica la rivendicazione di un reddito di base, sganciato dalla prestazione lavorativa e incondizionato. E la rivendicazione non può che rafforzarsi in un periodo, come quello nel quale siamo immersi, segnato dall’indebolimento radicale della contrattazione nazionale, sostituita con accordi e incentivi fiscali, dalla contrattazione di secondo livello o aziendale. Quest’ultima, detta fuori dai denti, ha un unico grande obiettivo: comprimere i salari legandoli completamente alla produttività.

Di fronte a noi, dunque, un vero e proprio passaggio d’epoca. Mentre il governo mette in campo, dal punto di vista simbolico oltre che reale, un processo di ri-subordinazione del lavoro, dichiarandone la centralità («il contratto a tempo indeterminato diventa finalmente la forma di assunzione privilegiata creando nuova occupazione stabile»), nei fatti svuota come non mai i diritti legati alla subordinazione stessa, rendendoli oggetto di esclusiva celebrazione storica (lo Statuto dei lavoratori che nel 2015 compie 45 anni). Nella nuova disciplina dei licenziamenti, facciamo i conti con «il potere illimitato dei datori, evidente attraverso una totale inesigibilità anche giudiziale» (prendendo a prestito le parole del giuslavorista Alessandro Brunetti). Come abbiamo già scritto, non basteranno i trucchi statistici del governo, perché, finiti gli incentivi alle imprese (ridotti, ma rifinanziati anche nel 2016), scopriremo gli effetti nefasti sulla vita di milioni di donne e uomini, giovani e meno giovani. La condizione di “pieno impiego a termine” sarà evidente, perché il contratto a tutele crescenti non è che un’altra modalità di assumere in maniera temporanea, con alla base un ricatto costante e uno sfruttamento intensivo della forza-lavoro, tra l’altro accompagnata dalle de-contribuzione alle imprese a carico della spesa pubblica.

Senza entrare nel dettaglio, analizzando sinteticamente gli ultimi dati INPS pubblicati a dicembre dall’Osservatorio sul precariato, nel mese di ottobre emergono alcuni nodi fondamentali che hanno caratterizzato i primi dieci mesi di agevolazioni alle aziende: aumento delle trasformazioni a tempo “indeterminato” di rapporti a termine; la gran parte dei contratti attivati è ancora a tempo determinato (senza causale); l’aumento vertiginoso dell’utilizzo dei voucher destinati al pagamento delle prestazioni di lavoro accessorio (del valore nominale di 10 euro), che risultano venduti (91.867.175) con un incremento medio nazionale, rispetto al corrispondente periodo del 2014 (54.800.369), pari al 67,6%. Se obiettivo della sbandierata “primavera occupazionale” di Renzi-Poletti era la crescita del lavoro accessorio, dequalificato, senza dubbio è sotto i nostri occhi. Ma un dato fondamentale per comprendere quello che sta avvenendo nel mercato del lavoro viene sottolineato dall’indagine Labour market reforms in Italy: evaluating the effects of the Jobs Act.: secondo i ricercatori Dario Guarascio, Marta Fana e Valeria Cirillo, il 90% dei nuovi contratti è stato stipulato avvalendosi della de-contribuzione sul costo del lavoro previsto per le imprese. Da gennaio 2016, gli sgravi diminuiranno sensibilmente, in questi giorni le aziende si accalcano per accaparrarsi le ultime “iniezioni”. Quanto queste assunzioni o trasformazioni siano l’incremento della produzione nei settori trainanti, è un dato tutto da dimostrare.

Stesso dramma riguarda il riordino degli ammortizzatori sociali, che avrebbe dovuto garantire una «maggiore equità sociale anche tramite l’universalizzazione degli strumenti di sostegno al reddito per chi è disoccupato». Nei fatti, continuiamo ad avere a che fare con un sistema assicurativo immaginato su misura del lavoro subordinato (basti pensare a NASpI, ASDI e all’Assegno di ricollocazione), che penalizza chi ha una storia contributiva e lavorativa intermittente. Nella legge di Stabilità 2016 apprendiamo del rifinanziamento della DIS-COLL, ma siamo lontani dalla sua estensione.

Fanno bene Allegri e Bronzini dunque a riproporre con forza il problema di un garantismo sociale capace di tutelare la «cittadinanza laboriosa»; a criticare duramente le responsabilità dei sindacati confederali, veri e propri protagonisti della marginalizzazione sistematica del lavoro autonomo e di quello precario; a invocare un nuovo Statuto dei lavori capace di recepire anche diritti e normative europei decisamente più avanzati del disastro italico. Fanno bene, eppure ci permettiamo di porre loro alcune questioni, decisive, a nostro avviso, per incarnare i processi di trasformazione nel volume correttamente sollecitati.

La prima, che rilancia una prospettiva «monista», seppur molto arricchita: è pensabile mettere al centro di un nuovo costituzionalismo sociale soltanto il lavoro autonomo e indipendente – e dunque i diritti nel mercato – senza fare i conti con il Far West efferato e padronale che sta travolgendo la subordinazione? La seconda: non è forse giunto il momento di combinare la proposta normativa con sperimentazioni organizzative capaci di rinnovare radicalmente e in autonomia la forma sindacato? Ancora: non sono proprio e solo i fenomeni di sindacalismo sociale che possono imporre quel nuovo garantismo di cui vanno alla ricerca gli autori? La terza: è ancora sufficiente il richiamo all’Europa – in particolare quella di Nizza – cancellata irreversibilmente dalla crisi del 2008? Certo, Hartz IV continua a essere meglio di Ichino, Sacconi e Taddei, ma pur sempre combina sotto-occupazione a welfare to work. Infine: come far sì che la produzione cartista – pensiamo al prototipo avvincente, di cui siamo parte e animatori, della “Coalizione 27 febbraio” – solleciti percorsi di lotta radicalmente anti-corporativi?

Sappiamo già che Allegri e Bronzini, alle domande poste, darebbero le risposte che cerchiamo. Ma ci sembrava comunque opportuno, a partire dal loro bel volume, avviare il confronto pubblico.