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Riesplode il conflitto tra Marocco e Fronte Polisario nel Sahara Occidentale

A dieci anni dall’accampamento di protesta di Gdeim Izik 19 attivisti saharawi sono ancora in carcere e sullo sfondo si riaccende la disputa sul Sahara Occidentale tra Marocco e Fronte Polisario: ieri operazione militare delle forze marocchine, crescono le tensioni

Ieri le forze armate marocchine hanno effettuato un’operazione militare nella zona cuscinetto di Guerguerat, al confine con la Mauritania. Il Fronte Polisario ha risposto al fuoco e si sta mobilitando nella zona. Il cessate il fuoco reggeva dal 1991. «L’operazione – si legge in un comunicato della Repubblica Democratica Araba Saharawi –, considerata una flagrante violazione dell’accordo, costituisce un attacco diretto contro il popolo saharawi e pone quest’ultimo e il suo movimento di liberazione nazionale, il Fronte Polisario, nella posizione di legittima difesa della sovranità e dell’integrità territoriale del Rasd». La situazione rimane in costante evoluzione e al momento in cui scriviamo non si segnalano vittime. Dall’Italia Piero Fassino, capo della Commissione Affari Esteri alla Camera dei Deputati italiana, ha espresso preoccupazione (ndr). 

 

L’8 novembre 2010, le forze dell’ordine marocchine smantellavano in maniera violenta l’accampamento di Gdeim Izik, composto da circa 6.500 tende allestite dalla popolazione saharawi un mese prima per protestare contro la marginalizzazione e le difficili condizioni socio-economiche nel Sahara occidentale controllato dal Marocco. Durante i violenti scontri avvenuti nelle operazioni di sgombero del campo e nel clima incandescente innescatosi anche nei giorni successivi nella limitrofa città di El Aaioun, hanno perso la vita 2 manifestanti e 11 membri delle forze dell’ordine marocchine.

 

Quelle giornate di manifestazioni e scontri, prodromo tra l’altro delle rivolte che hanno caratterizzato l’intera regione nel biennio 2010-2011, sono state segnate da una forte repressione conclusasi con l’arresto di 25 attivisti saharawi.

 

Nel 2013 un tribunale militare ha condannato 22 di essi a pesanti pene, basandosi quasi interamente su confessioni fatte alla polizia ed estorte in molti casi sotto tortura. Gli attivisti saharawi, sostenuti da diverse associazioni e ONG, hanno in più occasioni denunciato di essere stati picchiati e sottoposti a trattamenti inumani e degradanti, tra cui anche lo stupro, durante gli interrogatori e nei giorni di carcerazione preventiva.

Nel 2016, la Corte di cassazione ha annullato la decisione emessa dal tribunale militare contro gli imputati di Gdeim Izik in ragione del fatto che questo verdetto non era basato su prove sicure, rinviando il caso a un tribunale civile per un nuovo processo.

Nel 2017, la Corte d’appello di Salé, cittadina limitrofa alla capitale marocchina Rabat, ha dichiarato colpevoli i 22 attivisti nonostante la pronuncia del Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura del 2016, riguardante il caso di uno degli attivisti saharawi imputati, Naâma Asfari, che affermava come il Marocco non avesse indagato sulle accuse di tortura e che il tribunale militare si fosse basato su dichiarazioni estorte con metodi illegali caratterizzati da inquietanti abusi. Due degli imputati sono stati condannati a pene detentive che avevano già scontato e, quindi rilasciati, mentre i restanti 20, compreso un attivista che è stato processato in contumacia dopo essere fuggito in Spagna, sono stati condannati a pene che vanno dai 20 anni di carcere all’ergastolo.  Tali condanne hanno suscitato forte disappunto non solo tra i sostenitori della causa saharawi ma anche dal Gruppo di lavoro sulla detenzione arbitraria dell’Alto Commissariato per i diritti umani dell’ONU.

Nonostante le molteplici richieste di una loro liberazione e gli scioperi della fame che hanno posto in essere in questi anni per denunciare gli abusi subiti, oggi i 19 attivisti, molti dei quali noti esponenti della società civile saharawi, sono ancora in carcere.

 

Dopo dieci anni, a fine mese, precisamente il 25 novembre, la Corte di cassazione marocchina è chiamata a emettere un giudizio che potrebbe porre fine, da un punto di vista legale, alla vicenda.

 

L’esito, però, appare alquanto scontato e difficilmente cambierà la sorte degli attivisti saharawi nel senso del rispetto dei diritti umani e politici, anche perché si inserisce in un contesto di rinnovata ostilità, in realtà mai sopita, tra il Marocco e il Fronte Polisario, rappresentante del popolo saharawi.

Dal cessate il fuoco tra le due parti del 1991 con il conseguente inizio della missione ONU MINURSO, incaricata di vigilare sul rispetto della fine delle ostilità e di tracciare un percorso che avrebbe dovuto portare alla realizzazione di un referendum popolare sull’indipendenza del Sahara Occidentale, è andata in scena una lunga battaglia diplomatica e politica che ha di fatto lasciato in una fase di stallo la situazione fino a oggi.

Di tale circostanza chi ne ha tratto maggiore vantaggio è il Marocco che in questi anni ha mantenuto il controllo di gran parte del territorio del Sahara Occidentale, soprattutto l’importante fascia costiera con le principali città, in seguito all’erezione del muro di sabbia Berm che ha relegato la Repubblica Democratica Araba Saharawi (RASD) ad amministrare solo una piccola parte di territorio prevalentemente desertica ai confini tra Algeria e Mauritania. Il nodo delle importanti risorse economiche della regione, soprattutto per quanto riguarda la pesca e il fosfato, resta uno dei punti del contendere, oltre alla questione politica relativa alla sovranità territoriale e al diritto all’autodeterminazione della popolazione saharawi. La zona controllata dal Marocco è quella più ricca di risorse e il regno non ha mai interrotto i propri tentativi di sfruttarle appieno.

 

Il territorio del Sahara Occidentale è inoltre strategicamente di fondamentale importanza a livello regionale, essendo una porta verso il sud e l’Africa Occidentale, area che da un punto di vista economico e politico la monarchia marocchina sta guardando con sempre maggiore interesse.

 

Non è un caso che l’importante lavoro diplomatico messo in campo in questi anni abbia portato al rientro ufficiale del Marocco nell’Unione Africana nel 2017, da cui era uscito negli anni ’80 proprio in seguito al riconoscimento da parte dell’Unione della RASD (membro tuttora dell’UA) e all’instaurazione di uno stretto legame con alcuni stati, soprattutto della costa occidentale, i quali hanno sostenuto le rivendicazioni marocchine con l’apertura simbolica di sedi consolari nelle principali città della costa saharawi. In tal senso non sorprende che ultimamente lo scontro tra la popolazione saharawi ed il governo marocchino si sia intensificato, con manifestazioni e blocchi, nella zona cuscinetto al confine con la Mauritania di El Guerguerat, da cui il Marocco si era ritirato in maniera unilaterale proprio nel 2017 e che invece, secondo le accuse saharawi, continua a utilizzare per diversi traffici diretti proprio verso sud.

La tensione tra le due parti si è intensificata in seguito al perenne rinvio di una risoluzione della questione, in cui ha un peso rilevante il ruolo della Francia, membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’ONU che, in virtù della salda partnership con Rabat, ha da sempre ostruito la strada verso il referendum. L’ennesimo rinnovo annuale della missione MINURSO, con il conseguente perdurare di una fase sostanzialmente di stallo, è stato duramente criticato dal fronte Polisario e considerato invece una vittoria diplomatica da parte marocchina.

 

Una situazione che indubbiamente rafforza la posizione del Marocco, che continua ad accrescere il proprio vantaggio sia economico che diplomatico.

 

Nel discorso alla nazione del 7 novembre, in occasione del 45 anniversario della marcia verde (evento che diede inizio all’occupazione del Sahara Occidentale), il re Mohammed VI ha sottolineato le recenti vittorie diplomatiche marocchine e ha annunciato l’intenzione di sfruttare appieno le potenzialità dei territori occupati tramite importanti progetti infrastrutturali come quello del porto di Dakhla da ampliare e collegare con quello di Tangeri, attualmente il più grande di tutto il continente africano.

Toni sprezzanti coadiuvati da altri avvenimenti significativi sul versante diplomatico come l’annunciata apertura di una rappresentanza consolare degli Emirati Arabi Uniti a El Aaiun, che sarebbe la prima di un paese arabo. Tale apertura rappresenta una rottura rilevante dell’approccio assunto finora da tutti i membri della Lega araba riguardo la questione saharawi. L’appoggio degli Emirati, però, non arriva a caso ora e si lega alla politica estera in altri scenari scottanti come quello palestinese, che potrebbe mettere in imbarazzo Rabat, dal momento che gli emiratini sono in prima linea nel propagandare l’implementazione del cosiddetto patto di Abramo e la normalizzazione dei rapporti con Israele.

Nonostante il Marocco non abbia relazioni ufficiali con Israele e il primo ministro El Othmani lo scorso agosto abbia ribadito la contrarietà del proprio esecutivo al processo di normalizzazione, confermando il sostegno alla causa palestinese, il paese maghrebino è da tempo un osservato speciale di Israele che lo considera uno dei paesi arabi più papabili da convincere per normalizzare i rapporti con Tel Aviv.

Non è un mistero che il governo di Netanyahu abbia cercato, finora senza successo, la sponda degli Stati Uniti nel riconoscere ufficialmente la sovranità marocchina sui territori del Sahara Occidentale in cambio dell’impegno di Rabat a normalizzare i rapporti con Israele.

 

Immagine di copertina: jaysen naidoo. Commemorazione del trentennale della Repubblica Saharawi, 2006