MONDO

(Ri)produrre la vita comune

Uno sguardo dall’America Latina. Intervista a Raquel Gutierrez Aguilar.

Quali sono i problemi centrali nei processi di autonomia sociale? Perché organizzare e sostenere la vita vanno insieme? Come coprodurre un “noi” non identitario? Cosa sono le trame comunitarie? È possibile trasformare le istituzioni usando la razionalità dello Stato? Che collegamenti esistono tra i governi progressisti e la logica maschile? Queste sono alcune delle importanti domande che Raquel affronta in questa conversazione con la precisione e la sensibilità enormi che la caratterizzano.

Raquel Gutiérrez Aguilar militò nel EGTK (Esercito Guerrigliero Tupac Katari) insieme ad altri come Felipe Quispe, attuale leader del Movimento Indigeno Pachacutik-MIP, e Álvaro García Linera, vicepresidente della Bolivia. Nell’aprile del 1992 è detenuta per aver partecipato alla guerriglia. Esce dal carcere nel 1997 e torna all’attività politica, partecipando più avanti alla Guerra dell’Acqua. Rientra in Messico nel 2001. Tutta la sua vita è legata ad esperienze di autonomia in America Latina, come dice lei stessa, un continuo tessere, tessere e tessere. Di formazione matematica e filosofa, Raquel è professoressa alla Benemérita Università di Puebla, dove coordina il Seminario di Ricerca Permanente “Trame comunitarie e forme del politico”, insiema a Mina Lorena Navarro e Lucía Linsalata. Nei suoi libri Desandar el Laberinto. Introspección en la feminidad contemporánea (1999) e ¡A desordenar! Por una historia abierta de la lucha social (2006), riflette sul potere, i suoi anni in carcere, i processi collettivi, la costruzione e ribellione al femminile… Raquel è pura ispirazione per pensare il nostro tempo. Oltre ad offrirci una mappa per orientarci a pensare in un altro modo (sovversione femminista del pensare?), insiste in una chiave da applicare a tutti gli ambiti della vita: disordinare, deformare, mai, mai conformarsi.

L’intervista è intenzionalmente lunga, anche a rischio di perdere i tempi dell’immediatezza. Tuttavia, la parola di Raquel merita un tempo più calmo, transitabile e fluido, analogo al tempo dei processi collettivi.

 

SOSTENERE I DESIDERI COLLETTIVI, COPRODURRE UN NOI INCLUSIVO

Quali domande ti hanno accompagnato lungo il tuo cammino e, in qualche modo, continuano a servirti per pensare la trasformazione sociale?

La domanda che mi ha sempre accompagnato si può riassumere così: come si garantiscono le condizioni per la sostenibilità della vita? Mi sono sempre occupata di come fare per sostenere la vita, in termini individuali come in termini collettivi. È una domanda dal carattere ineffabile perché è un problema che non stava nelle lotte; anche se le accompagnava durante tutto il 20esimo secolo, non era chiaramente espresso né visibile.

Per molti anni ho militato in un’organizzazione politica guerrigliera che non accettò mai finanziamenti da nessuno. I compagni usavano la formula “chi paga comanda”. Qui l’idea è chiara: non c’è autonomia politica senza autonomia materiale. La cosa certa è che ho potuto vedere cose molto sordide rispetto a cosa può accadere e come si può indebolire l’autonomia attraverso la cooperazione internazionale – come con l’ingerenza di paesi che appoggiavano la rivoluzione in El Salvador negli anni 80 –.

Quindi a partire da questa domanda, intrecciamo ciò che vogliamo: come troviamo la capacità per potenziare un desiderio collettivo che si costruisce in continue riflessioni. Non si tratta solo di fantasticare, bisogna anche riuscire a plasmare questa capacità. Nel momento più potente della lotta armata, durante l’ultima ondata degli sforzi emancipatori in America Latina, ciò che ho visto in Bolivia, in Argentina e ciò che ho più o meno percepito in Ecuador, è collegato a questo problema di sostenibilità, non in termini di sostenibilità economica, di come il capitale possa continuare a girare, ma di organizzazione dei processi materiali ed emozionali che aprono la possibilità di godere e creare ciò che più o meno intendiamo per vita vivibile o vita degna.

Non dobbiamo dimenticare che entrambe le dimensioni sono congiunte: sono processi materiali ed emozionali di produzione di legami; un tipo di legami che genera capacità. Alla questione dell’equilibrio emozionale dò molta importanza perché sono stata mediatrice di conflitti in contesti molto difficili. Questo mi ha fatto capire l’importanza non tanto della tolleranza, ma della disposizione a produrre un legame forte. In questo senso, bisogna saper distinguere quando rompere, quando confliggere, e quando ciò che conviene è accettare di essere accusata, di essere un bersaglio per neutralizzare le tensioni e tornare a giocare. Questo è un processo emozionale che ha a che vedere con la “dimensione sensibile del politico”: essere al corrente della dimensione sensibile, di quello che proviamo e che, pertanto, sappiamo.

Che strumenti pensi che siano utili per sviluppare questa dimensione sensibile del politico della quale parli?

Non saprei, è pura intuizione, però ho provato un paio di cose che potrebbero essere utili.

È molto importante se la prima volta che percepisci aggressività in un intervento la interrompi di netto. Io sintetizzo questo con l’espressione “dispiegare la capacità di castrazione”. Quando avviene che dei compagni uomini cominciano a squalificare l’altro per imporre il loro punto, l’importante è interrompere subito: o si parla in un altro modo oppure una abbandona la discussione. È qualcosa che ho sperimentato molte volte. Luisa Muraro lo chiama esercizio di autorità, ed ha a che vedere col fatto che tutti possano entrare, tutti devono entrare. C’è una specie di autorità simbolica che può mobilitarsi. Non è un’autorità prescrittiva, autoritaria o gerarchica del tipo “perché comando io”, ma un’autorità che gli altri ti riconoscono. E senza questo riconoscimento non si produce.

Aggiungerei che dobbiamo discutere con parole dolci: bisogna prendersi cura, non offendersi. Quello che noto con gran sorpresa, nella mia particolare sensibilità latinoamericana, è la rudezza spagnola, dove non sai se ti stanno rimproverando, se stanno litigando, o cosa. È molto difficile. Bisogna fare tutti gli sforzi per discutere con parole dolci, perché anche questo significa porre al centro la cura in contesti dove dominano forme più rigide e gerarchiche.

In America Latina, c’è un altra abitudine della parola, della poesia, ci sono forme differenti del dire che non passano solo per il razionale, per il discorso, e questo è presente anche in politica.

Sì, forse questo ha a che vedere con la possibilità di produrre “noi”. E produrre noi significa coprodurre un dispositivo di inclusione; significa coprodurre il dispositivo che ci include, non ci identifica razionalmente, però ci include.

Nei processi politici si percepisce se c’è la possibilità di coprodurre il dispositivo inclusivo che ci interessa, che ci fare stare uniti in obbiettivi concreti e particolari. E poi in altri ed altri. Per questo l’assunto dell’identificazione mi spaventa molto. E, per questo, nella mia esperienza, per i gruppi potenti, quei gruppi così ferocemente vigorosi ed energici, e molto vitali, è molto difficile darsi un nome. Perché darti un’identità ti fissa, ti rende inamovibile.

Puoi spiegare ancora questa idea di produrre “noi” non a partire dalla identificazione razionale ma dall’inclusione? C’entra il fatto che una identificazione rigida avrebbe bisogno di una sostanza esterna aprioristicamente opposta ad altre?

Sì, se ti fissi ti chiudi. E quindi si innesca il dispositivo aristotelico per eccellenza, il principio del terzo escluso. Qualcuno si appropria della prerogativa di escludere. E quindi comincia un conflitto perché si allarghi la possibilità di escludere e si trascurano totalmente le forme e le condizioni di una inclusione amorfa, più vitale, dove siamo presenti, senza lacerazioni perché entriamo o usciamo, dove non è sì o no, ma esiste una gamma di grigi.

 

CRITICA ALLA CONOSCENZA OGGETTIVA: QUALCUNA TI HA PARTORITO, DUNQUE ESISTI

In alcuni testi insisti con l’idea di un materialismo differente, non in opposizione con l’idealismo classico, dove la materia si produce sempre soggettivamente. Da qui, metti in questione il fatto che esista qualcosa come una conoscenza oggettiva. A volte, quando si mette a critica l’oggettività, sembra di cadere irrimediabilmente in un relativismo dal quale non si può conoscere nessuna “verità”. Tuttavia, tu argomenti che in gioco c’è un’altra forma del conoscere, non meno valida e non meno veritiera, però capace di smontare le dicotomie convenzionali tra oggetto e soggetto, materia e idea… Quali sono le conseguenze di questa critica?

Mi piace molto la critica che è stata fatta al pensiero occidentale a partire dal pensiero femminista. Possiamo credere a dei padri, che letteralmente non hanno madri, che appaiono come se fossero nati dal niente? E poi viene il pensiero cartesiano a dirci “penso, dunque esisto”. Non è così, qualcuna ti ha partorito, è per questo che esisti.

Questo ha a che vedere con l’esperienza di una rottura, una separazione tra la capacità di sentire e quella di ragionare, e dei legami esistenti tra le due cose, anche quando inizialmente non vengono vissute come legate. Man mano che invecchi capisci che ciò che senti si trasforma in conoscenza e la conoscenza produce senso e, quindi, cambia la tua sensibilità, di modo che si amplia o si contrae la tua percezione. Quindi partiamo da qui, da questi legami.

Alla disgiunzione oggettivo/soggettivo, materiale/ideale, contrappongo due sguardi. Da una parte, ogni sapere è sempre intenzionale, ciò suppone tutta una discussione contro la neutralità della conoscenza oggettiva, c’è sempre un fine implicito. Quando studi come si combinano le molecole di idrogeno per fare la bomba atomica, hai un’intenzione concreta. Questo è l’esempio più brutto. Però anche quando ti occupi di misurare la povertà, lavori per costruire politiche pubbliche che contengono la povertà codificata e selezionata in un certo modo. Non si può negare l’intenzione. In questo senso forse ho il vantaggio di essermi formata primariamente come matematica; per questo so che anche la produzione del numero contiene un’intenzione. Può sembrare che quando lo quantifico divenga neutrale, ma non è vero. C’è tutta un punto filosofico qui.

L’altro sguardo viene dal fatto che durante tutta la mia vita ho notato la fluidità tra ciò che sai e ciò che senti, e che da questo incrocio si genera ciò che pensi. Il risultato è una conoscenza operativa, non una conoscenza teorica. È la conoscenza della lotta e la conoscenza della vita, è una sensibilità pratica. Di nuovo, la matematica: non è la stessa cosa sapere la proprietà commutativa dell’addizione e saper sommare. Sono due cose diverse. La seconda è una capacità di risolvere problemi: incontri un problema e lo risolvi, ne incontri un altro e lo risolvi e così via.

Quali conseguenze ha tutto questo per la politica? Ci dà nuovi strumenti per muoverci? Non è lo stesso partire da un argomento teorico finito che racchiude il senso della nostra lotta, oppure lanciarsi in un processo di percezione aperto continuando ad armarci di strumenti teorici?

Operativamente, esistono sostanzialmente due coppie fondanti della razionalità, il principio del terzo escluso e la contraddizione particolare/universale, due coppie molto discusse a partire da molti punti di vista. In realtà ho partecipato in maniera formale a questo dibattito solo poche volte. Però credo che alcune cose debbano essere molto chiare quando si vive, si lotta e ci si orienta: bisogna mostrare la vuotezza dell’universale e a partire dai casi particolari cercare un’ambizione di generalizzazione, sempre rinnovabile nella misura in cui è producibile, perché si sta effettivamente producendo, coproduncendo e anche ampliando, senza mai giocare a definire le leggi della logica.

 

SULLE TRAME COMUNITARIE

In “Desandar el Laberinto” [Ritracciare il labirinto, ndt], commenti che c’è una “peculiare costituzione dei soggetti nella modernità” che ha