MONDO

Resistenze popolari allo specchio

Riflessioni di ritorno da un viaggio in Palestina e Israele con i NoTav della Valsusa.

Con il termine resistenza popolare di solito si fa riferimento alla partecipazione collettiva e dal basso ad una lotta, che si caratterizza per essere inclusiva di molti settori della società[…] senza distinzione di genere, età, cultura.

Anche se ogni lotta popolare ha sue specificità e caratteristiche, ci sono elementi comuni condivisi da tutte le lotte che si definiscono tali.

Il rifiuto di delegare a qualcun altro l’azione è uno di questi (ancora di più se questo altro è in una posizione superiore), la determinazione a partecipare, a riprendere in mano con responsabilità la propria vita e il proprio destino personale e comunitario.

Tutte le lotte popolari hanno in comune la capacità di scegliere da che parte stare, la determinazione a rivendicare dignità, il desiderio di reagire a violenza, repressione, abuso di potere. Una lotta popolare nasce quando un gruppo di persone smette di rimanere indifferente.

Una lotta è popolare quando è fatta da uomini e donne, quando non è solo agita da leader ma anche da gente semplice, quando giovani e vecchi possono partecipare ciascuno con il proprio piccolo o grande contributo.

In una lotta popolare, il processo collettivo di attivazione che si porta avanti è altrettanto o addirittura più importante dei risultati che si possono ottenere.

Sono da poco tornato da un viaggio molto speciale, tra Israele e Palestina, attraverso esperienze di lotte popolari, da Nabi Saleh ad Al Araqib, da Bil’in alle South Hebron Hills, da Jaffa a molti altri contesti di Resistenza.

Ero con una delegazione di attivisti Notav, e il viaggio è stato pensato dal Servizio Civile Internazionale, che da tempo sostiene con convinzione sia la lotta popolare in Valsusa che quella palestinese. Si è pensato al viaggio perché le due comunità di attivisti avessero la possibilità di incontrarsi, conoscersi, scambiare idee e percorsi.

Il viaggio è stato estremamente intenso. C’è stato tempo per visitare ma pure per condividere emozioni e pensieri con attivisti palestinesi e israeliani.

Gli attivisti palestinesi sono rimasti sorpresi e fortemente coinvolti al conoscere la realtà valsusina, ai più completamente sconosciuta, così come è stato efficace per loro poter invertire i ruoli, e avere pure l’opportunità di imparare e ricevere e non solo di raccontare, come invece accade quando gruppi di internazionali vengono in visita nella West Bank.

I paralleli tra le due lotte popolari emergevano incessantemente, ogni giorno, assieme alla consapevolezza che l’occupazione israeliana rimane un sistema di oppressione molto più sofisticato e violento di quello in atto in Valsusa.

Le similitudini più interessanti non si sono trovate tanto in aspetti esterni quali gas lacrimogeni, muri o fili spinati, che, ovviamente, sono simili, ma invece sono emersi in aspetti più nascosti, individuati durante le lunghe chiacchierate fatte assieme.

Tra i tanti, ricorderò l’incontro di Al Araqib. Al Araqib è un villaggio beduino nel cuore del deserto del Negev. Dal 2010 ad oggi il villaggio è stato sgomberato e distrutto 57 volte, all’interno dei piani del governo Israeliano finalizzati alla marginalizzazione della popolazione beduina, e alla sottrazione della terra alla popolazione di origine araba. L’ultimo di questi piani di sgombero è il famigerato Prawer Plan, in queste settimane al vaglio della Knesset.

Ad Al Araqib, davanti al vuoto e le macerie di una terra violata e devastata si è percepito in modo toccante il comune legame con il proprio territorio, il comune sforzo per difenderlo contro violenze e espropri. Gli occhi e le menti di chi era con me, coinvolte dal racconto di Aziz, attivista beduino, viaggiavano rapidamente da lì alla Val Clarea, dove la devastazione del cantiere continua ad espandersi.

È stato anche interessante analizzare strategie parallele delle autorità al fine controllare le resistenze, con arresti, fogli di via, domiciliari con restrizioni per gli attivisti, estremamente comuni in entrambi i contesti. Proprio mentre eravamo in Palestina, Alberto Perino ha subito la perquisizione in casa con quella che è la tipica accusa rivolta ai leader dei villaggi palestinesi ogni volta che vengono arrestati, incitement, istigazione a delinquere.

E ancora, abbiamo chiacchierato a lungo con gli israeliani Anarchici contro il Muro, che ci hanno raccontato la contraddizione di quel “gap inquietante” tra la vita in West Bank e la città di Tel Aviv, dove si può vivere nel modo più normale possibile nonostante essa sia a soli 40 minuti in macchina dai villaggi palestinesi. Questa sensazione ha ricordato a molti ciò che implica vivere, da attivisti No Tav, a Torino, a 40 minuti dalla Valsusa, ma spesso lontana anni luce dalla violenza che si vive in quel contesto.

Un altro spunto interessante per immaginare un futuro lavoro assieme è stato il comune il bisogno di opporsi ad una idea ingannevole di lavoro. “Lavoro” è quello dei palestinesi nelle colonie o per italiani nella costruzione del treno ad Alta Velocità. Strettamente legato a questo aspetto, si è riflettuto a lungo sul modo in cui il capitale riesce a fare profitto sulle “occupazioni militari”, fino a sostenerle a tutti i costi, spesso anche in collaborazione a gruppi mafiosi.

È stato perciò ancora più importante condividere idee con persone coinvolte nel movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni, che è uno strumento concreto per lottare contro i profitti in un contesto di ingiustizia come quello di una occupazione militare.

Si sono inoltre condivise le difficoltà interne, quali la pesantezza di dover aspettare risultati che arriveranno solo nel lungo termine o la difficoltà di rimanere in piedi nonostante la forte repressione ed, infine, l’importanza di superare il senso di ritualità e stanchezza che spesso contraddistingue lotte che vanno avanti da così tanti anni.

C’è poi un altro elemento che è emerso spesso. Gli attivisti che portano avanti una lotta popolare non lottano solo per i propri diritti e libertà, né solo per i diritti e la libertà della propria comunità. Grazie al potere simbolico della loro lotta, essa diventa spesso un modello per battaglie per diritti e libertà che vanno molto aldilà del proprio territorio. La lotta popolare diventa spesso modello di quello scontro paradigmatico e quasi archetipico tra il potere e le persone.

In tal senso luoghi come Nabi Saleh, un villaggio di 500 abitanti che ogni venerdì affronta uno degli eserciti più potenti del mondo è abbastanza esemplare, così come lo sono tanti cortei in Valsusa che si scontrano con la violenza di tutti gli apparati di sicurezza del nostro paese.

In virtù di queste sue caratteristiche paradigmatiche, una lotta popolare può così essere riprodotta e sopratutto diventare ragione di ispirazione per altre lotte (basta pensare a quante lotte territoriali italiane hanno come modello la resistenza valsusina).

Si è ribadito molte volte, durante i giorni in Palestina, l’importanza di costruire alleanze popolari e internazionali dal basso, contro i centri del potere economico e politico.

Non è facile unificare e consolidare le lotte popolari, ed è ancora più difficile costruire alleanze e fare rete tra diverse resistenze nel mondo.

Il viaggio è stato un piccolo contributo in tal senso, che speriamo possa portare risultati in futuro.