EUROPA

Regno Unito, tra Brexit Bond e distributori chiusi

Esce in tutte le sale del regno “No Time to Die”, l’ultimo film con il personaggio creato da Ian Fleming. Arriva in un paese impegnato a ripensarsi tra la Brexit che è arrivata davvero e la difficoltà nel fare rifornimento. Qualche nota da un paese in transizione

Ci sono davvero, le code ai distributori di benzina, non è la solita esagerazione dei media mainstream italiani. Alcuni, molti, sono proprio chiusi, o lo sono stati per giorni. Secondo l’associazione di categoria, a Londra e nel sud del paese circa in circa un quinto delle stazioni di servizio non si può fare rifornimento e la situazione è in miglioramento. Il problema non è il petrolio, quello c’è ancora, sono i camionisti che non ci sono.

La Brexit non c’entra nulla, mi ha spiegato convinto un tassista di Londra la settimana scorsa, mentre passavamo davanti a un distributore chiuso in pieno centro della città. È tutta colpa della lentezza nel rilasciare le patenti per i camionisti, sosteneva. Anche questo è un problema, senza dubbio, ma la Brexit c’entra eccome, con le migliaia di camionisti tornati in paesi europei, anche a causa del Covid.

L’ambasciatore albanese, riportava lunedì il “Guardian”, metteva a disposizione migliaia di suoi concittadini che, gratis, guiderebbero i camion per spostare petrolio – ma anche altre merci che non arrivano sugli scaffali, mentre fra le altre materie prime mancano persino il vinile per fare i dischi e l’anidride carbonica per l’industria alimentare (fondamentale per la birra, tanto cara da queste parti). Si parla di visti temporanei per far arrivare un tot di camionisti e poi rimandarli a casa fra qualche mese (soprattutto in paesi dell’Est Europa): carne da lavoro, un serbatoio a cui attingere, più che esseri umani.

A parte rimedi estemporanei (come l’impiego dei militari per guidare le autocisterne…), il futuro non è certo di quelli più rosei, per un paese che in alcuni mesi dell’anno importa oltre il 70% del fabbisogno alimentare, ha reintrodotto i dazi e ha una mancanza non trascurabile di forza lavoro.

Il Regno Unito (specie la Gran Bretagna) è un paese in transizione. Brexit is real, e forse solo ora molti britannici cominciano a rendersi conto di quello che hanno votato e delle conseguenze che sta avendo, anche sull’immaginario di un paese che si è pensato leader mondiale per qualche secolo. E che ora arranca, che non trova giovamento neanche nella politica – si sono tenuti i congressi di entrambi i partiti principali proprio in questi giorni, ne escono confusi e litigiosi, soprattutto il Labour, più focalizzato nell’epurazione della sinistra corbyniana che nell’elaborazione di visione alternativa di paese – o nelle note vicende sportive dell’estate passata (it’s coming home, cantavano gli inglesi, ma non gli scozzesi e i gallesi).

Un paese che non sembra davvero avere un’idea di futuro, di essere proiettato verso un luminoso avvenire – ma, se volete, in qualche locale si può già prenotare il pranzo di Natale e nei super mercati già si trovano le decorazioni natalizie. Il vero futuro forse è il Natale.

(immagine da commons.wikimedia.org)

C’è voglia di ripartenza, di vedersi, stare insieme, godersi gli ultimi giorni di sole anche se c’è già quel freddo pungente autunnale, di correre i 42 km della maratona di Londra (che è tornata domenica scorsa dopo 889 giorni, 36mila partecipanti, mezzo milione di spettatori), di mettersi alle spalle questi mesi di pandemia e buttare via queste noiose mascherine. Ecco, forse troppa voglia: per chi arriva da fuori l’impatto di luoghi al chiuso, metro incluse, con tantissima gente senza mascherina è davvero violento, anche se il tasso di contagi, seppur alto, non è incredibilmente elevato considerato il “liberi tutti” in vigore.

Non c’è più obbligo di mascherina, in alcuni luoghi solo un’indicazione e, anche quando gli annunci (per esempio sui mezzi pubblici di Londra) intimano di indossare la mascherina, l’abitudine va ormai in una direzione diversa. Alcuni negozi insistono per fartela indossare, in altri posti si viene guardati male e basta – qualche giorno fa, al pub, un frequentatore non sobrissimo ha tirato fuori davanti a chi scrive la scheda di avvenuta vaccinazione sostenendo «potete stare tranquilli qui, toglietevi pure la mascherina».

In questo panorama vagamente fosco e sicuramente incerto è arrivata la scorsa settimana il ciclone James Bond. Uno di quei miti nazionali ancora fortissimo. Nella multisala Odeon di Coventry ci sono nove sale. No Time to Die viene proiettato in tutte le sale, con il primo spettacolo alle 9 di mattina e l’ultimo alle 11. Non è un’eccezione, decine di multisala hanno fatto questa scelta. Anche a Londra si fa quasi fatica a vedere qualcosa che non sia il bel double0seven Daniel Craig.

In termini di numeri significa: la «widest theatrical release of all time», il maggior numero di copie distribuite di sempre (dicono alla Universal), 772 cinema in Gran Bretagna e Irlanda. Più di sei milioni di dollari di incasso il primo giorno, 21 milioni di sterline in un weekend, trentamila persone che si sono precipitati a vederlo a mezzanotte e zero uno del giorno dell’uscita – neanche fosse un film di Zalone! – e 1.620,000 biglietti comprati in anticipo per i primi quattro giorni. Numeri notevoli, specie in un periodo di crisi. Del resto il film è, come si dice da queste parti, timely, arriva cioè al punto giusto: nonostante sia stato girato prima della pandemia, parla di contatto, di contagio, di quanto starsi troppo vicini può uccidere.

Un film crepuscolare, dai toni bui, triste in alcuni passaggi, con un eroe ancora molto aitante ma anche vulnerabile e vulnerato, a tratti autoironico. Anche il maschio Bond è in crisi, questo lo sapevamo, sempre meno amante, sempre più desideroso di famiglia. Su un’isola dove avvengono strani esperimenti genetici (no, sarebbe troppo vederci una metafora delle isole britanniche) succede l’irreparabile, ma evitiamo gli spoiler che il film è ancora in sala, o meglio in molte sale.

Per gli appassionati, su quell’isola c’è anche un meraviglioso piano sequenza salendo le scale e in generale il film è Bond all’ennesima potenza, con riprese spettacolari, cambi di location, cocktail bevuti al volo e tutto il campionario bondesco, con qualche cambiamento ed evoluzione.

In fondo ai credits appare la scritta «James Bond will return», nonostante le apparenze, nonostante le incertezze, James Bond c’è. Magari la Gran Bretagna è ripiegata su un futuro incerto, magari il cinema è morto, ma Bond is alive and kicking.

Immagine di copertina: Daniel Craig in No time to die