approfondimenti

ITALIA
Referendum e trasformazioni sociali: uno sguardo storico. Intervista con Michele Colucci
In vista del referendum dell’8 e 9 giugno, tornano al centro del dibattito pubblico temi fondamentali come il lavoro e la cittadinanza. Quali connessioni esistono tra queste battaglie? E quale ruolo può giocare oggi lo strumento referendario? Ne abbiamo parlato con lo storico Michele Colucci del Consiglio Nazionale delle Ricerche
I referendum sono alle porte. L’8 e il 9 giugno lə elettorə si esprimeranno sui cinque quesiti. I primi quattro hanno a che fare con il diritto del lavoro; il quinto con l’accesso alla cittadinanza italiana per chi risiede stabilmente nel Paese. Attraverso un’analisi puntuale e appassionata, Michele Colucci, primo ricercatore presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche – Istituto di studi sul Mediterraneo – ci aiuta a orientarci in questa tornata referendaria, richiamando il significato storico e politico di questo strumento, tra conquiste passate e battaglie da rilanciare.
Dietro la frammentazione apparente tra “lavoro” e “cittadinanza”, dal dialogo con Colucci emerge un filo rosso che attraversa tanto la storia delle politiche migratorie quanto le trasformazioni del mercato del lavoro: l’indebolimento dei diritti e la precarizzazione delle vite passano spesso attraverso forme differenziali di esclusione. Anche per questa ragione, il referendum può avere un significativo impatto politico, anche al di là della sua funzione specifica – l’abrogazione di norme ingiuste. Può essere un’opportunità per riattivare immaginari collettivi e pratiche di trasformazione.
I referendum dell’8 e 9 giugno 2025 propongono modifiche in materia di lavoro e cittadinanza. Quali sono, dal tuo punto di vista, le potenzialità e i limiti di questi referendum?
Si tratta di tematiche molto importanti che hanno a che fare direttamente con la vita di milioni di persone. Inoltre, i cambiamenti che potrebbero introdurre avrebbero un effetto dirompente su tutta la popolazione. Facciamo qualche esempio per capire la portata di ciò di cui stiamo parlando. Iniziamo dal referendum sulla cittadinanza. Permettere un accesso più rapido all’acquisizione della cittadinanza può rendere meno precarie le persone che ne sono prive, meno ricattabili, più sicure a dal punto di vista giuridico. Aumentare la solidità sul territorio dei soggetti sociali serve a tutte e tutti, perché può garantire l’inversione di una compressione verso il basso dei diritti di tutta la popolazione. In presenza di una fascia ampia di persone prive della cittadinanza italiana, è molto più facile la diffusione di forme di sfruttamento che legittimano e rilanciano a dismisura la disuguaglianza: oggi tocca soprattutto alla componente straniera (ma non solo), domani può toccare a chiunque. È un percorso che conosciamo bene, che rivela tutte le sue insidie proprio sul tema del lavoro. Nei primi anni Duemila, quando si materializzò una complessiva riorganizzazione delle politiche del lavoro, venne approvata prima la legge Bossi-Fini (2002) sull’immigrazione e poi di lì a breve la legge 30 (2003) dedicata alla riforma del mercato del lavoro per tutta la popolazione.
Passando agli altri quesiti, il diritto al reintegro riguarda l’intero comparto del lavoro in realtà produttive con più di 15 dipendenti, un segmento estremamente ampio e diversificato che oggi non può ambire al reintegro del posto di lavoro a seguito di un licenziamento illegittimo. Anche il secondo quesito si occupa dei licenziamenti, ma è rivolto a estendere il risarcimento per dipendenti di aziende che hanno meno di 15 dipendenti, nelle quali non è mai stato previsto il reintegro. Il terzo quesito è orientato a una maggiore tutela del lavoro precario, ormai da tempo dilagante e sempre più privo di diritti e coperture. Il quarto è dedicato alla sicurezza sul lavoro e alla giungla di appalti e subappalti che ne peggiorano enormemente le garanzie: è un fronte su cui l’Italia è drammaticamente esposta ma dove non si intravedono mai interventi concreti, a parte chiacchiere di circostanza e lacrime di coccodrillo quando si verificano incidenti mortali.
Vedo che non sempre anche nei discorsi dei promotori riesce facile tenere insieme i quattro quesiti sul lavoro e quello sulla cittadinanza. In realtà sono tutti e cinque quesiti sulla cittadinanza e allo stesso tempo cinque quesiti sul lavoro. La ricerca sulla storia delle politiche migratorie e delle politiche sul lavoro in questo senso ci aiuta a capire le connessioni: come già accennato basta guardare a come le leggi sull’immigrazione hanno anticipato le leggi sul mercato del lavoro.
Aver riaperto una discussione su questi temi è già più di una potenzialità: è un passo in avanti nel dibattito pubblico, un merito della campagna referendaria che bisogna riconoscere.
Il problema è nelle conseguenze che si porta dietro la scadenza referendaria: in caso di mancato raggiungimento del quorum o di sconfitta dei “sì” l’impatto potrebbe essere molto pesante. Sarà dura soprattutto nel breve periodo riproporre le battaglie oggetto di un pronunciamento netto da parte della popolazione. E, visto che si tratta di battaglie cruciali su questioni che resteranno in campo indipendentemente dall’esito referendario, ci sarà molto da fare per riuscire a riproporle in forma vertenziale.
Il quesito sulla cittadinanza mira a ridurre da dieci a cinque anni il periodo di residenza legale richiesto, insieme a molti altri requisiti, per ottenere la cittadinanza italiana. Quali implicazioni storiche e politiche vedi in questa proposta? Qual è la sua portata?
Non è una riforma che inverte la rotta rispetto alle modalità con cui si ottiene la cittadinanza, ma rappresenta una semplificazione che migliora sensibilmente la vita di molte persone. La cittadinanza resta intimamente legata alla dimensione familista, ai vincoli di sangue. In caso di vittoria dei “sì” resteranno in campo tutte le discriminazioni economiche e burocratiche che la contraddistinguono. Ma l’intervento sui tempi permette di ridurre il disallineamento sui tempi di vita che spezza drammaticamente in modo razzista la società italiana. Con la vittoria dei “sì” non finirà il razzismo istituzionale. Anzi, andando ben oltre il referendum, dobbiamo sapere che anche se di colpo tutte le persone residenti in Italia diventassero cittadine italiane, resterebbero aperte altre forme di disuguaglianza che pesano sui rapporti di forza e sugli equilibri sociali.
Nella vita quotidiana delle persone straniere la variabile del tempo è però una delle forme di discriminazione più subdole e pervasive: si perde tempo in attesa davanti alle questure, si perde tempo nelle Asl, si perde tempo nei centri di orientamento al lavoro, si perde tempo nelle anagrafi e negli uffici municipali, si perde tempo al caf, si perde tempo dall’avvocato. Perciò un intervento sui tempi di attesa per richiedere la cittadinanza ha un valore concreto e un valore simbolico. Concretamente serve a semplificare, ma interviene sulla diminuzione di quel limbo che per molte e molti non rappresenta una breve parentesi ma una dilatazione all’infinito di una vita di serie B.
In termini storici non ci sono grandi cambiamenti, può essere utile ricordare che la proposta referendaria interviene sui tempi previsti dalla legge del 1992 (dieci anni di residenza prima di chiedere la cittadinanza) per tornare alla legge del 1912 (cinque anni): sul nesso residenza/cittadinanza/persone straniere il Parlamento liberale 113 anni fa fu più aperto del Parlamento repubblicano 33 anni fa!
La storia della Repubblica è stata segnata dai referendum, a cominciare dal suo momento fondativo. Quali sono stati i referendum che, più di altri, hanno contribuito a ridisegnare il profilo del Paese?
Si tratta di una storia lunga e complessa. Quello del 2 giugno 1946 fu indubbiamente un momento di svolta, anche perché rappresentò la prima compiuta forma di suffragio universale nazionale non limitato alla componente maschile. La lista dei referendum che hanno inciso in modo determinante sulla società italiana è molto lunga. Rispetto alla situazione attuale è interessante ricordare che alcuni dei referendum più importanti sono stati pensati per interrompere l’effetto di leggi appena approvate dal Parlamento e voluti da soggetti politici che non gradivano una evoluzione della società sancita da quei passaggi legislativi. Pensiamo ad esempio al referendum sul divorzio del 1974 per abrogare la legge Fortuna-Baslini o a quello sull’interruzione volontaria di gravidanza del 1981 per abrogare la legge 194. I “no” all’abrogazione vinsero in maniera chiara in entrambi i casi, certificando in modo netto che le leggi conquistate grazie alla mobilitazione popolare erano del tutto in linea con il sentimento della popolazione. Oggi i referendum vengono proposti all’interno di una cornice rovesciata: il Parlamento non intende legiferare su alcuni nodi ritenuti cruciali dai promotori e attraverso i quesiti si cerca di affrontare l’esigenza di imporre una svolta alla legislazione.
Tornando agli anni Ottanta, due referendum ebbero indubbiamente una funzione periodizzante oltre a quello già citato sull’aborto: il referendum del 1985 sulla scala mobile e quelli del 1987 sul nucleare. La sconfitta dei promotori del referendum sulla scala mobile segnò in modo pesante la crisi della parabola della centralità delle lotte del movimento dei lavoratori e delle lavoratrici, rafforzando quella fase di riduzione del potere d’acquisto dei salari di cui oggi vediamo chiaramente gli effetti. La vittoria – schiacciante, contro ogni aspettativa – dei 3 referendum sul nucleare, arrivata a un anno dalla tragedia di Chernobyl, rese evidente le potenzialità e il ruolo crescente dei movimenti ambientalisti e pacifisti, insieme a una nuova sensibilità diffusa nell’opinione pubblica. Anche nel 2011 la vittoria dei “sì” ai referendum sull’acqua bene comune e sul nucleare suscitò molto clamore, dentro una congiuntura in cui la stretta della crisi economica mondiale sembrava togliere qualsiasi fiducia al ruolo dei movimenti sociali.
Sono molti i referendum dimenticati, non solo quelli nazionali ma anche quelli comunali, che però possono avere solo carattere consultivo. Tra i referendum comunali recenti più rimossi dalla discussione pubblica voglio ricordare quello bolognese del 2013, quando il 59% dei cittadini e delle cittadine del comune di Bologna votarono contro il finanziamento pubblico alle scuole paritarie. La campagna elettorale spaccò gli schieramenti politici tradizionali (come avviene con la tornata di oggi) e rivelò l’importanza del dibattito sulla scuola, la sua dimensione pubblica e la sua importanza nella società.
Un referendum che ha visto una grande partecipazione della popolazione italiana si è tenuto nel 1970, ma non in Italia, bensì in Svizzera. Ci sono alcune analogie con l’attuale referendum sulla cittadinanza: a mobilitarsi nelle strade e nelle piazze furono, come oggi, persone di origine straniera, che non avrebbero avuto diritto di voto alla scadenza elettorale per la quale si stavano impegnando. Il referendum in Svizzera venne promosso da uno schieramento conservatore contrario all’immigrazione, capeggiato da James Schwarzenbach, promotore dell’iniziativa referendaria contro quello che definiva “inforestieramento” della Svizzera. Si trattava di un referendum contro l’immigrazione, in caso di vittoria circa un terzo degli immigrati stranieri sarebbe stato espulso: una sorta di progetto di “remigrazione” ante litteram. La Svizzera aveva già norme rigidissime sull’immigrazione e il clima sociale non era particolarmente favorevole alle comunità straniere: sembrava scontato l’esito. Invece grazie a una mobilitazione senza precedenti del mondo dell’immigrazione, delle tante realtà solidali, a partire dal sindacato, delle associazioni, il risultato fu sorprendente: il referendum venne respinto dal 54% dei votanti. All’epoca, quella italiana era l’immigrazione più presente in Svizzera, per questo pur non essendo un referendum italiano ha avuto effetti importanti sulla popolazione italiana.
Un caso interessante da ricordare è quello del 2005, quando si tenne il referendum per abrogare alcuni divieti contenuti nella legge 40 del 2004 in materia di fecondazione assistita e ricerca sulle cellule staminali: i votanti si espressero massicciamente per l’abrogazione, non fu raggiunto il quorum, ma la legge 40 venne negli anni seguenti smontata in molte sue parti dalle sentenze dei tribunali.
Qual è l’attualità di questo istituto, anche alla luce della crisi profonda nella partecipazione al voto che investe, in maniera crescente?
Il referendum di per sé non è più o meno attuale di altre forme di partecipazione politica. La crisi della partecipazione alle elezioni si riflette anche nella crisi di molte altre forme di partecipazione alla cosa pubblica. La via referendaria è spesso oggetto di discussioni, anche molto accese. Ci sono contesti territoriali attivissimi sul piano della mobilitazione sociale dove i soggetti protagonisti delle battaglie civili hanno combattuto l’idea di far esprimere la popolazione con un referendum: si pensi ad esempio allo scontro sul TAV in Piemonte. I comitati e i movimenti contrari hanno sempre guardato con scetticismo alla chiamata alle urne, rivendicata semmai a volte dalla controparte, dai favorevoli alle cosiddette “grandi opere”. Il referendum può anche avere una funzione tombale sui movimenti sociali, nel momento in cui può servire a chiudere le stagioni di attivazione collettiva. Credo che sia importante valutare caso per caso, a seconda dei contesti e delle differenti congiunture storiche e politiche.
Alla luce della tua esperienza di studio dei movimenti sociali e delle trasformazioni nel lavoro e nella cittadinanza, che ruolo pensi possa avere oggi il referendum nel riattivare processi collettivi e partecipativi?
Mi pare che possa avere un ruolo importante, come è evidente dalle tantissime iniziative di questi giorni. Se per risvegliare la coscienza sociale serve un referendum ben venga il referendum. Non credo tuttavia che la mobilitazione eccezionale per una scadenza straordinaria possa sistematicamente sostituirsi alla dimensione quotidiana della partecipazione, fatta di momenti “normali”, magari apparentemente ordinari, che rappresentano però l’ossatura di una rete di azioni capace di garantire un livello alto di partecipazione e di attivazione svincolato dalle scadenze elettorali. Per capirci: lo stillicidio degli incidenti sul lavoro continuerà, ma se dopo il referendum cambierà l’attenzione e si registrerà un incremento delle proteste e delle lotte collegate significa che il referendum è servito, al di là del risultato delle urne. Questo è solo uno dei tantissimi esempi possibili.
Immagine di copertina di Myousry6666, wikicommons
SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS
Per sostenere Dinamopress abbiamo attivato una nuova raccolta fondi diretta. Vi chiediamo di donare tramite paypal direttamente sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno