OPINIONI

Referendum costituzionale, minoranze e partecipazione popolare

La Costituzione necessita di importanti cambiamenti, ma per salvaguardare gli ecosistemi, per il diritto alla casa, alla banda larga, ai diritti riproduttivi, non per una maldestra ed equivoca, sebbene spettacolare, riforma della rappresentanza

Il 20 e 21 settembre saremo chiamate/i alle urne per approvare o respingere la riforma che riduce il numero dei parlamentari: da 630 a 400 alla Camera dei Deputati, da 315 a 200 al Senato, modificando gli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione. È diffusa la comprensibile sensazione di essere chiamate/i a votare qualcosa di inutile perché mera bandiera della superiorità morale di chi vuole ridurre i “privilegi della casta dei rappresentanti”, di inconsistente perché in sé nulla promette in termini di miglioramento della qualità della vita delle rappresentate/i.

Per di più per andare a votare verranno richiuse le scuole che si sono appena aperte, per i e le fortunati/e, dopo essere state sigillate per quasi sette mesi. Le scuole sì che migliorano la qualità della vita, non solo dei rappresentati ma soprattutto delle rappresentate che in questi mesi hanno sostenuto un aumento del lavoro di cura incommensurabile, incluse forme molto vicine alla home schooling. Le scuole soprattutto migliorano la qualità della vita culturale e sociale delle bambine/i e dei giovani, costruendo le loro prospettive come cittadine/i, ben prima che come lavoratrici/lavoratori del futuro.

Saranno chiuse le scuole per più del solo giorno di votazione ordinaria per i referendum costituzionali, ma per più giorni, a causa della “interessata” decisione di accorparla alle elezioni regionali. Interessata, tale decisione, a favorire la partecipazione a un referendum che altrimenti rischia di passare del tutto inosservato, non mobilitante le coscienze.

 

Con il risultato di promuovere la partecipazione al voto con un animo ostile alla classe politica che antepone le proprie bandiere al diritto sociale più trascurato, il diritto all’istruzione, fomentando la voglia di rivalsa sociale nei confronti di rappresentanti così poco rappresentativi dei bisogni della popolazione.

 

La questione in gioco è, d’altra parte, proprio la rappresentatività, intesa come effettivo rapporto rappresentativo basato sulla partecipazione attiva, non svilita a mera apparenza. La questione in gioco, quindi, è quanto dei bisogni e delle esigenze dei singoli territori e della popolazione, soprattutto della parte di essa più fragile, si fa (o almeno ha la possibilità di farsi) strada nelle stanze della rappresentanza.

Già ora è impresa ardua. Le alchimie delle varie formule elettorali adottate dal 1993 in poi, infatti, hanno reso caratteristica strutturale della nostra democrazia che una minoranza relativa del corpo elettorale possa ottenere la maggioranza assoluta dei seggi parlamentari. Alle ultime elezioni, ad esempio, ben 3 milioni di voti validamente espressi non hanno contribuito a eleggere alcun rappresentante, allo stesso tempo sono aumentate le astensioni, le schede nulle e quelle bianche. Quasi un terzo dell’elettorato è rimasto senza alcuna forma di rappresentanza. Risultato decisamente lontano dall’obiettivo della piena partecipazione alla vita politica che la Repubblica dovrebbe perseguire ai sensi del principio di uguaglianza sostanziale (art. 3 della Costituzione).

Questo scollamento tra partecipazione attiva e rappresentanza parlamentare spiega il protagonismo popolare negli ultimi due referendum costituzionali sulle riforme riguardanti la Parte II della Costituzione: sia nel 2006 (riforma proposta dal Centro-Destra) che nel 2016 (riforma proposta dal Centro-Sinistra), a seguito di una mobilitazione attivata da una minoranza, la partecipazione popolare alle consultazioni referendarie è stata sorprendentemente consistente, superando qualsiasi ipotetico quorum di validità che non esiste per i referendum costituzionali.

L’ampiezza e il contenuto della risposta che il quesito referendario ha avuto in questi casi mette in scena la capacità di una minoranza di farsi maggioranza ovvero semplicemente denuda il peso minoritario nel paese di forze che vantano la maggioranza dei seggi parlamentari.

 

Gli ultimi due referendum costituzionali, quindi, hanno dato forma a una piena ed effettiva partecipazione popolare che ha sconfessato la volontà dei rappresentanti. Questa, d’altra parte, è la natura del referendum costituzionale: nonostante l’uso sconsiderato della denominazione di “confermativo” è uno strumento che i Costituenti forgiarono come “oppositivo” alla riscrittura della Costituzione e, dunque, per definizione nelle mani della partecipazione popolare.

 

Se i precedenti richiamati del 2006 e del 2016 denudano la difficile tenuta di un sistema che distorce il principio rappresentativo, svilendo ogni seria ed effettiva partecipazione alla determinazione della politica nazionale da parte dei rappresentati, la riforma sulla quale siamo chiamate/i a pronunciarci, riducendo di un terzo il numero dei parlamentari in assenza di un metodo strettamente proporzionale di trasformazione dei voti in seggi, incide profondamente nella (già misera) capacità di rappresentare le minoranze, i territori, le diverse posizioni politiche esistenti nel paese: ci vorranno oltre 800 mila abitanti per avere un seggio uninominale al Senato.

Al di là dei territori tagliati fuori, i seggi in palio rimasti saranno ancor meno contendibili da candidature tutt’oggi considerate “di nicchia” in base al sesso, al genere, all’orientamento sessuale, alla razzializzazione ma anche alle opinioni politiche. In tal modo, oltre ai conosciuti meccanismi di esclusione e autoesclusione dal sistema rappresentativo dei soggetti a qualunque titolo “non conformi”, sarà sempre più arduo contaminare gli orientamenti politici prevalenti con un pensiero politico altro, con posizionamenti percepiti come dirompenti o scomodi.

Il consacrato «valore costituzionale della rappresentatività» (Corte cost., sent. n. 35 del 2017) viceversa non può che alimentarsi della piena ed effettiva partecipazione di tutte e tutti, con la pari dignità delle posizioni delle minoranze. Per far questo non servono formule matematiche né tagli lineari, ma una nuova pratica politica orientata alla maggiore compenetrazione possibile tra popolazione e istituzioni: il sistema proporzionale certamente non immunizza dalle piaghe di qualunque parlamentarismo, ma perlomeno risponde alla consapevolezza che non esiste un miglior controllo e un modo più efficace di far valere la responsabilità politica diffusa se non quello fondato sulla partecipazione e sulla formazione del Parlamento come proiezione del pluralismo esistente.

 

Altri tempi quelli in cui si proponeva la riduzione dei parlamentari per dare maggiore centralità alla Camera dei Deputati eletta con il sistema proporzionale, in un contesto di fortissimo radicamento territoriale dei partiti di massa e dei movimenti.

 

Oggi, soprattutto in assenza di un netto e definitivo ritorno al proporzionale, la riduzione del numero dei parlamentari significa solo rendere ancora più anguste le vie per mettere in connessione le rivendicazioni di massa (spesso disorganizzate o comunque disorientate) e le mobilitazioni di maree (spesso scambiate per torrenti) con chi approva le leggi, sostiene o fa cadere un governo, modifica la Costituzione per sentirsi più onesto e moderno.

La Costituzione necessita di importanti cambiamenti, sì, per salvaguardare gli ecosistemi, per un chiaro diritto alla casa, alla banda larga, ai diritti riproduttivi, al vincolo di bilancio per i diritti sociali, alla cittadinanza, per arginare le derive secessioniste e così via, non per una maldestra ed equivoca, sebbene spettacolare, riforma della rappresentanza.

 

L’autrice insegna Diritto costituzionale all’Università degli Studi del Molise ed è attivista di Non una di Meno