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Il reddito minimo non è carità né lavoro forzato

Con “Welfare e trasformazioni del lavoro” (Ediesse) Giacomo Pisani analizza il cambiamento dei meccanismi del mercato e della sovranità e come le varie proposte di reddito minimo si collocano nella crisi del modello fordista

Parlare oggi di reddito di cittadinanza fa storcere il naso ai più. Effetto della sciagurata legge restrittiva e punitiva cui si è ridotta la chiassosa campagna del M5S per acchiappare voti nel Mezzogiorno, senza nessuna idea dei contenuti, delle prospettive e delle risorse impiegabili per finanziarla.

Il progetto originario pentastellato, poi ulteriormente compresso per risparmiare sui costi e per sopravalutazione delle adesioni a causa dei difetti di impostazione, si iscriveva fra quelle soluzioni cui gli Stati europei avevano fatto ricorso per fronteggiare la disoccupazione e l’insicurezza sociale mediante programmi di reddito minimo condizionato all’accettazione di lavori malpagati e destinati a casi di marginalità sociale. Una brutta copia, in breve, del tedesco Hartz IV, con l’aggravante di non avere una struttura per le strategie di attivazione e soprattutto di non avere posti da offrire. Il ritardo con cui si è mossa Italia non era certo aiutato dalla massiccia presenza di lavoro nero e della feroce quanto implausibile minaccia di sanzioni draconiane per i “furbetti” e gli “sdraiati”, che si sono subito costituiti nell’immaginario mediatico quali beneficiari del provvedimento. Il fallimento o quanto meno la degradazione dell’operazione è apparsa subito inevitabile, perfino scoraggiando manovre migliorative.

Ben altro invece è stato il dibattito sul reddito di esistenza universale, cioè sul diritto della persona di esistere dignitosamente a prescindere dal posto che ciascuno occupa nel mercato del lavoro, dunque «un dispositivo dialettico, che assume la relazione costitutiva fra società e individuo, liberando i soggetti dal ricatto retributivo e creando le -condizioni per la riappropriazione dello spazio della decisione e dell’autodeterminazione. Possono così svilupparsi nuove forme di istituzionalità e di immaginazione politica della realtà, incrinando la stessa trascendenza della politica rispetto al sociale. Tanto più, aggiungiamo, che l’autodeterminazione, che consegue dal reddito incondizionato, si profila allo stesso tempo come un fattore di innovazione produttiva e una controtendenza alle conseguenze occupazionali dell’automazione.

Il bel libro di Giacomo Pisani, Welfare e trasformazioni del lavoro(Ediesse, Roma 2019), completato da un utilissimo glossario e da un’esauriente bibliografia, prende però le mosse, nel primo capitolo da un’analisi complessiva delle trasformazioni del capitalismo, in particolare del ruolo del “libero” lavoro salariato, architrave del moderno concetto e pratica della sovranità a partire da Hobbes.  Il regime fordista viene così a costituire, nella prima metà del Novecento in America e con una certa sfasatura temporale in Italia, il punto di incontro fra capitalismo organizzato, tecnologie tayloristiche, welfare keynesiano e cittadinanza sociale, così come si squaderna nella Carta Costituzionale italiana. La forma-merce foggia il diritto e costruisce identità collettive negoziabili e gestibili dai sindacati e dal sistema dei partiti di massa nel contesto dell’accumulazione capitalistica e di un’ideologia lavoristica condivisa anche da una socialdemocrazia integrata a pieno titolo nello sviluppo istituzionale del paese. Il welfare, per dirla con Foucault, diventa il principale strumento di governo delle popolazioni.

A partire dagli anni ’70 la rottura post-fordista – che l’autore legge in termini di estrattivismo biopolitico e non di postmodernismo comunicativo – rende secondario il riconoscimento contrattuale del contributo alla produzione e favorisce l’individualizzazione del rapporto di lavoro e dei meccanismi di sfruttamento, distruggendo l’organizzazione sindacale e la continuità dell’esperienza, nonché la fino allora prevalente dimensione dello Stato-Nazione. La sussunzione reale tende a ridursi a un prelievo parassitario sul valore prodotto dalla cooperazione, mentre la governamentalizzazione del potere sovrano poggia organicamente sulla dissoluzione delle precedenti soggettività collettive. La valorizzazione economica passa allora attraverso un investimento sulla sfera affettiva e relazionale dei soggetti, che tende a sempre più a confondersi o a sovrapporsi alla dimensione professionale.

Il secondo capitolo ripercorre in dettaglio (e in parallelo) l’evoluzione dei sistemi di welfare e dei diritti sociali, in cui il reddito di cittadinanza o di esistenza si inserisce nel momento della crisi della cittadinanza lavoristica e con opposti progetti di reazione o di ulteriore aggravamento. La lunga storia della demercificazione assicurativa, cioè del tentativo di sottrarre la cittadinanza sociale alla dipendenza dal mercato, si urta in difficoltà crescenti sia per l’individualizzazione dei progetti di vita e lo sfaldamento delle carriere fordiste, sia per la dissoluzione dello Stato-Nazione, quadro territoriale del welfare, in seguito ai meccanismi della globalizzazione. In particolare, il welfare italiano – malgrado la considerevole espansione post-bellica sul fronte del sistema sanitario e pensionistico – non è riuscito a superare la propria strutturale frammentarietà ed è stato facilmente disgregato, con l’avvento del post-fordismo, dall’emersione di soggettività eterogenee lavorative intermittenti, irriducibili ai vecchi schemi di protezione sociale e costituzionale fordista.

Il terzo capitolo è quindi dedicato, con un’analisi dettagliata e un esame scrupoloso della letteratura in materia che qui non possiamo riassumere, alle risposte “dal basso” alla crisi del welfare, in particolare alla sharing economye in generale alle numerose iniziative ascrivibili alla galassia della sussidiarietà, della mutualità e del volontariato. Questo potenziale di innovazione sociale, che specie nei servizi comporta un elevato livello di disintermediazione e di più o meno apparente scambio peer-to-peer, è soggetto a spinte contrastanti, di integrazione o modificazione dell’assetto imprenditoriale capitalistico, tra condotte di asservimento e di autonomia, tecnologie di comando e di controllo ed esigenze di auto-valorizzazione. Contraddizioni che peraltro rendono impossibile, quale che sia il modo in cui vengono risolte, un ritorno alle categorie tradizionali del lavoro e della solidarietà. Il cosiddetto capitalismo delle piattaforme è un luogo esemplare per postulare modalità diverse di organizzazione sindacale e di mutualismo.

Proprio l’eterogeneità fra le varie modalità in cui si esplicano le metamorfosi del modello lavorativo – dal coworkingal lavoro on-demand– pone il tema di un nuovo welfare universale, sganciato dalle arcaiche classificazioni giuridiche di lavoro indipendente e dipendente e della dicotomia pubblico-privato così tipiche della dimensione sovrana e nazionale messa in crisi dell’affermazione di una governance neoliberale. Il quarto e ultimo capitolo affronta infatti il ricorso a tipi di reddito minimo con cui, a partire dalla fine degli anni ’70, in parallelo alla restrizione del welfare fordista gli Stati europei hanno cercato di affrontare le sfide poste dalla disoccupazione e dell’insicurezza incalzanti. Si tratta di forme di reddito “condizionate”, applicabili ai casi di marginalità sociale e povertà assoluta e rivolte all’inclusione lavorativa dei percipienti il contributo. Le strategie di attivazione al lavoro si sono sempre più accompagnate a parametri di condotta molto rigidi per i beneficiari e l’Italia non ha fatto che adeguarsi a questa schema, con grande ritardo e risorse piuttosto magre – come abbiamo all’inizio sottolineato a proposito della conclamata “abolizione della povertà” con il reddito pentastellato di cittadinanza.

A questa misure workfaristiche, moderna riedizione delle Poor Lawse che, al massimo, tendono ad adeguare gli esclusi a un livello minimale di consumo, l’autore contrappone le varie proposte di reddito di esistenza universale, che riconoscono la possibilità e il diritto della persona di esistere in un dispositivo dialettico di rapporti fra individuo e società, che rappresenta la pre-condizione fondamentale per la riappropriazione dello spazio della decisione e dell’autodeterminazione. Riprendendo i principi di un reddito minimo garantito esposti nella ben poco applicata Carta di Nizza europea (2009) e mal tradotti nei dispositivi workfaristici di Hartz IV e consimili misure, ivi compresi benintenzionati ma limitati sussidi assistenziali regionali nel nostro Paese, si sono sviluppate diverse tendenze: dalla scuola “liberale” e neo-contrattualista di Philippe van Parijs alla riflessione post-operaista di Toni Negri, che poggia sulla remunerazione del carattere cooperativo della produzione di valore e di soggettività. Pisani propende per una soluzione che favorisca una liberazione non solo dalla mancanza di denaro, ma anche dalla “mancanza di lavoro”: poter quindi scegliere fra lavoro retribuito, di cura, di formazione, disarticolando dall’interno l’organizzazione mercantile dei rapporti collettivi. Insomma l’autore insiste sulla valenza politica di un reddito di base incondizionato che rompa materialmente i rapporti di dominazione esistenti, senza aspettarsi l’avvento di un modello astratto di emancipazione. A testimoni di questo orientamento sono indicati Rodotà, Bauman, Ferrajoli e Wright, nonché alcune esperienze pratiche in Alaska, Canada, Finlandia, California, ma anche in India e Namibia. Altrettanto interessanti, per la completezza della proposta e dei modi di finanziamento,sono gli insegnamenti del referendum svizzero in materia, sebbene sconfitto da un’ovvia coalizione di interessi politici e finanziari.

Non a caso, conclude l‘autore (p. 221), le esperienze più significative di reddito di esistenza si verificano laddove «più elevato è il grado di innovazione e creatività: [esse] assumono la cooperazione come fattore centrale di organizzazione produttiva, devono di necessità scontrarsi con un contesto sociale ed economico in cui continua a essere dominante la logica accumulativa, fondata sulla subordinazione e sulla dipendenza materiale». Il discorso va dunque ben al di là del superamento delle forme imperfette o negative con cui si presentano in Italia il reddito di cittadinanza targato 5 Stelle o il precedente reddito di inclusione targato Pd, aprendo piuttosto un nuovo terreno di iniziativa e di scontro largamente coincidente con quello della precarietà occupazionale ed esistenziale e della contrattazione sindacale sul nuovo mercato del lavoro.