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La valigia mai disfatta di Walter Benjamin

Marina Montanelli, con “Il palinsesto della modernità. Walter Benjamin e i Passages di Parigi”, Mimesis 2022, ci offre un’analisi completa della massa di versioni e frammenti che il filosofo tedesco ha prodotto negli ultimi e drammatici anni del suo esilio e tuttora oggetto di edizione da parte dei curatori tedeschi e italiani

Quanto si è favoleggiato sull’ultima valigia che Walter Benjamin si sarebbe portato dietro nella sua fuga attraverso i Pirenei e il cui contenuto di manoscritti sarebbe scomparso – la più recente e filologicamente indocumentabile è che Lisa Fittko se l’è scordata dopo il suicidio del proprietario e la cameriera dell’albergo di Portbou l’ha svuotata senza trovarci niente (Transatlantic). Ma per tutti gli ultimi anni della sua vita, da Charlottenburg a 10 rue Dombasle, dal campo di Nevers a Marsiglia, in effetti il Nostro si è portato dietro una valigia di appunti intorno a un unico nucleo tematico, di volta in volta intitolato Passaggi o Baudelaire o Storia e che tutti insieme costituiscono quel palinsesto della modernità cui fa riferimento, sin dal titolo, il bellissimo libro di Marina Montanelli, già benemerita riordinatrice, insieme a F. Desideri, e interprete delle molteplici  redazioni dell’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica.

Quella valigia – per variare l’immagine del palinsesto – è come il carretto dello straccivendolo, aperto e rinchiuso a ogni stazione di vendita, una collezione portatile di oggetti da montare, smontare  e rimontare ogni volta, non solo come i 36 convoluti del Passagen-Werk o meglio della Passagen-Arbeit, ma come i singoli pezzi di ogni convoluto: il cavallo supplementare da attaccare sulla salita verso Montmartre a Notre-Dame-de-Lorette, l’enigmatica contrazione sotterranea di due strade di superficie nel nome Sèvres-Babylone di una stazione del métro, il giocatore ossessionato dai numeri…tutti i frammenti luriani dell’irreparabile unità primigenia. Un film mai finito che cambia titolo nelle sue diverse versioni e assembla inquadrature sempre più ravvicinate, schegge di uno specchio infranto che riflettono in un fuggevole momento tutto il mondo circostante. E alla fine, la valigia svuotata, con il solo carico letale di morfina, è trascinata lungo il sentiero Fittko o WB Route, oggi ben segnalata per i turisti: difficoltà media, 11,6 km e 4 ore e mezza di tempo.

Per fortuna Montanelli non ci aduggia con metafore impressionistiche ma di fronte, appunto, a un laboratorio ininterrotto (Arbeit) e non a un’opera compiuta (Werk) sceglie di organizzare il materiale disperso per renderlo intelligibile senza forzature semplificatorie.

Così il primo dei tre capitoli, circoscritti fra l’introduzione e un blocco bibliografico esaustivo di ben 31 pagine, è dedicato alle vicissitudini di stesura e parziale pubblicazione dei manoscritti intorno ai Passages e a Baudelaire, dando il giusto rilievo anche ai saggi editi in vita, in particolare su Kafka, Proust e Fuchs, nonché ad alcune traduzioni. L’accavallarsi dei progetti e delle parziali realizzazioni definisce lo schema del palinsesto e la molteplicità dei carotaggi stratigrafici effettuati fra le macerie della modernità sotto la non sempre produttiva supervisione dei coniugi Adorno e di Horkheimer.

Il secondo capitolo chiarifica e dissolve la nebbia onirica del primo approccio, dove è preminente la lezione di Balzac e dei surrealisti (l’Aragon di Le paysan de Paris, in primo luogo, e Nadja di Breton). La città labirinto infero e sogno è una percezione ancora subalterna al mercato come labirinto. Il punto è come uscirne, è il momento e la pratica del risveglio – e qui confluiscono Proust e i surrealisti, ma si tratta di un risveglio storico collettivo e non individuale, dell’illuminazione profana come soglia di transizione materialistica verso un cambiamento dei rapporti di produzione e non ennesima esperienza mistica, magari di tipo batailleano, o il soggiorno nella mitologia parigina alla Caillois. L’eterogeneità dei tempi, in cui si articola entrata e uscita dal labirinto dove la merce fa da Minotauro, è il passaggio dal vecchio che muore al nuovo che nasce – l’interregno gramsciano dove i mostri si aggirano fra le rovine incessantemente prodotte dallo stesso sviluppo capitalistico. Benjamin, come nel Trauerspiel, denuncia la ripetizione, l’Eterno ritorno di un tempo circolare come eternizzazione mitologica dei rapporti di produzione, di cui il dominio del denaro (nel senso di Simmel) è la forma allegorica compiuta e la fantasmagoria tangibile e spendibile.

I passages sono la forma espressiva sovrastrutturale della struttura (che vi retroagisce attivamente, come la surdeterminazione di Althusser), il deposito dei sogni stroncati della e dalla modernizzazione capitalistica. Assumono un aspetto spettrale, una volta che si è esaurita, con l’avvento dei grandi magazzini, la loro primitiva funzione di esposizione delle merci e di luogo della socialità. Ora davvero i loro ingressi sono assimilabili alle bocche di discesa agli inferi, gli ingressi del métro, segnati dalle luci rosse dei lampioni guimardiani. Il disincanto della città, il ritorno positivo del represso si manifesta nelle pratiche artistiche alla William Morris della Commune, quando la riesumata barricata si fa immagine dialettica del rovesciamento della barbarie in cultura, della hausmanizzazione parigina in insorgenza. Appassionato di film sovietici, Benjamin aveva di sicuro visto Novyj Vavilòn, 1929, di Grígorij Kosincev e Leonìd Trauberg, colonna sonora di Šostakovič, sottotitolo “Assalto al cielo”, dove la nuova Babilonia è la Parigi del Secondo Impero e, per metonimia, il grande magazzino “La nouvelle Babylone”, dove lavora la commessa Louise (come Louise Michel e come la lorette dell’opera libertaria di Charpentier), sfruttata e molestata dal padrone, e che andrà a battersi sulle barricate della Commune finendo fucilata. La barricata utilizzerà anche la bambola gigante simbolo del Grande Magazzino: il sogno si converte in strumento del risveglio.

Il terzo capitolo studia il soggetto sociale e politico dell’incantamento fantasmagorico e del risveglio dialettico, la massa, scomposto nelle sue principali tipologie umane: il flâneur, il giocatore, l’operaio, l’eccentrico e la prostituta – tutti segnati dallo choc e dall’uniformazione meccanica del principio-fabbrica. Se i primi quattro prefigurano, per effetto o per reazione, le dinamiche del taylorismo e del fordismo ancora da venire, la prostituta (ma in parte anche l’opportunismo improvvisativo dell’eccentrico) con il suo keep smiling anticipa addirittura la femminilizzazione del lavoro post-fordista. Essa incarna non solo la logica integrale del mercato – essendo simultaneamente nell’uso del proprio corpo venditrice e merce – ma la messa in valore, in regime di intermittenza e precarietà, delle capacità relazionali e affettive. Le figure sunnominate si annodano tutte nel personaggio-Baudelaire, la cui opera raccoglie tutte le ambivalenze del secolo, culminando con la scena archetipica della perdita di aureola e della sottomissione al mercato, controbilanciata dalla rivolta sterile.

Si apre qui – da questa impasse – il filone dell’accesso al risveglio attraverso il ricordo. Il motivo baudelairiano delle “corrispondenze”, che collega per somiglianza e risonanza, viene usato per spiegare il rapporto fra passato e presente ovvero la presentificazione del passato, mediante l’accostamento con la memoria involontaria di Proust (che riattualizza ciò che non è stato vissuto consapevolmente, il contrario di un Erlebnis, di una “esperienza vissuta”), con la riscrittura delle tracce mnestiche del Notes magico di Freud e con il concetto (e il raro termine) di Eingedenken, che in Ernst Bloch indicava l’irruzione nel presente di una potenzialità non attuata del passato, che domanda redenzione. Il risveglio (storico e collettivo, come già si è detto) costituisce questa redenzione per citazione all’ordine del giorno, che si ispira alle cicatrici del passato degli oppressi più che all’utopia del futuro – agli avi asserviti più che ai liberi nipoti, dirà nella dodicesima Tesi sul concetto di storia.  Il soggetto dell’Eingedenken è anche il soggetto del risveglio (dell’Erwachen), dunque della storia, e il trauma degli choc metropolitani ripetuti anestetizza ogni pretesa di Erlebnis restituendolo all’esperire oggi più semplice e comune, all’Erfahrung del pericolo nella crisi della modernità e nel ravvivamento del passato inconcluso. Qui la scienza della congiuntura si fa anche scienza della felicità, del riscatto delle sconfitte – come, in termini fin troppo messianici, era stato intuito nel Frammento teologico-politico del 1920/23.

L’immagine tratta dal film di Grígorij Kosincev e Leonìd Trauberg, Novyj Vavilòn, è in creative commons