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MONDO

Quando i repubblicani erano pro-choice

L’intera dirigenza del Partito Repubblicano ha unanimemente accolto come una vittoria politica la sentenza della Corte Suprema con cui è stata cancellata Roe v Wade. Eppure i repubblicani negli Stati Uniti non sono sempre stati pro-life, e fino alla metà degli anni Settanta le posizioni pro-choice erano addirittura maggioritarie. È solo negli ultimi decenni che le comunità religiose più oltranziste, sia cattoliche che evangeliche, hanno ribaltato gli equilibri all’interno del partito e ne hanno trasformato l’ideologia politica. Come risposta ai movimenti che affermavano una nuova idea di libertà femminile

In una gara di reazioni che sono andate da una fiera professione di orgoglio reazionario all’aperta misoginia al cringe, l’establishment repubblicano ha accolto la notizia della sentenza della Corte Suprema Dobbs v. Jackson Women’s Health, e la conseguente cancellazione di Roe v Wade, con un malcelato giubilo, la cui esibizione è andata avanti sui social e sulla stampa USA per svariati giorni (e che, a oggi, ahinoi, non si è ancora conclusa).

D’altra parte questa sentenza rappresenta non soltanto il definitivo allineamento della Corte Suprema alla parte più reazionaria del Partito Repubblicano, ma anche l’esito di un processo politico lungo decenni, di cui adesso si iniziano a vedere i primi frutti politicamente decisivi.

Nella gara per la reazione più imbarazzante il premio l’ha vinto senza dubbio la deputata al Congresso Karianne Lisonbee dello Utah, che sulla “Salt Lake Tribune” ha descritto un messaggio di pubblicità elettorale da lei ricevuto sul cellulare che la esortava a considerare anche le responsabilità degli uomini in caso di gravidanze indesiderate, a cui lei ha risposto: «mi si chiede di controllare le eiaculazioni degli uomini e non le gravidanze delle donne? Ma io mi fido sufficientemente del controllo che hanno le donne quando permettono a un uomo di eiaculare dentro di loro e del controllo che loro hanno sull’assunzione di sperma».

Si contende il primato con Sarah Huckabee Sanders, fedele trumpiana ed ex portavoce della Casa Bianca durante l’amministrazione Trump (e ora candidata e quasi certamente vincitrice delle prossime elezioni governatoriali dell’Arkansas) che durante un comizio ha detto: «Faremo in modo che quando un bambino è nel grembo materno, sia al sicuro esattamente come lo è in una classe a scuola, sul posto di lavoro, o in una casa di riposo: perché ogni fase della vita ha un valore, e nessuno è più grande dell’altro».

La cosa bizzarra è che il comizio si è tenuto il 25 maggio, ovvero nemmeno 24 ore dopo il massacro alla Robb Elementary School a Uvalde, Texas, che è stata la terza sparatoria più grave di sempre verificatasi in una scuola americana, dove hanno perso la vita 22 persone: un lapsus che rivela freudianamente quale sia l’idea inconscia di salvaguardia della salute del feto che tanto sta a cuore ai repubblicani.

Citando Slavoj Zizek (o Ennio Flaiano), si potrebbe dire che come spesso accade negli Stati Uniti la situazione è grave ma non è seria. Eppure c’è gran poco da ridere, soprattutto alla luce del fatto che in molti all’interno del Partito Repubblicano, dopo aver archiviato Roe v Wade, hanno già messo gli occhi sui diritti LGBTQ, per non parlare di un possibile ban all’aborto in sede di legislazione federale, che renderebbe illegale l’interruzione di gravidanza su tutto il territorio americano, senza esclusioni.

Una prospettiva che sembrava distopica fino a qualche anno fa ma che in vista delle prossime elezioni di midterm del 2022, per non parlare delle presidenziali del 2024, dove i repubblicani si aspettano di fare il pieno e di avere la maggioranza sia al Congresso sia al Senato, è tutt’altro che inverosimile.

Un’immagine dal comizio di Sarah Huckabee Sanders del 25 maggio scorso

Il fatto che nessun membro di livello nazionale del Partito Repubblicano abbia dissentito, o nemmeno espresso blanda preoccupazione, rispetto alla sentenza della Corte Suprema non si può certo dire che sia sorprendente. A oggi, nel 2022, è ormai evidente come il Partito Repubblicano abbia lavorato con una prospettiva di lungo termine su temi come aborto, matrimoni omosessuali, diritti LGBTQ, ma ormai anche attacco all’insegnamento di Critical Race Theory e Gender Studies in scuola e università, e li abbia fatti diventare una questione fondamentale della propria ideologia politica.

Eppure non molti sanno che l’aborto, che è sicuramente stata la questione su cui maggiore è stato l’investimento politico negli ultimi decenni, non è sempre stato affrontato in questo modo all’interno del Partito Repubblicano.

Se noi fossimo andati alla Convention repubblicana del 1976 in Kansas, per esempio, quella dove venne candidato il Presidente uscente Gerald Ford (che andò a sfidare, perdendo, contro Jimmy Carter), avremmo trovato una situazione completamente diversa. Meno del 40% dei delegati si potevano definire pro-life, mentre gran parte dei dirigenti nazionali avevano preso posizione a favore del diritto all’aborto, tra cui Mary Louise Smith, all’epoca Chair del Republican National Committee, o la First Lady Betty Ford che definì la sentenza di Roe v Wade «a great great decision».

Il vicepresidente uscente Nelson Rockefeller, da governatore di New York (fu Governatore dello Stato di New York per quattro mandati dal 1959 al 1973), favorì addirittura nel lavoro legislativo del proprio stato un allargamento dei casi per cui l’aborto veniva permesso e si fece promotore se non proprio di una politica pro-choice quanto meno di una limitazione dei casi in cui lo Stato poteva intromettersi nelle prestazioni sanitarie che riguardavano una donna.

Il principio naturalmente che stava alla base di questa sensibilità non era tanto l’autodeterminazione femminile quanto l’idea che uno Stato dovesse il meno possibile prendere delle decisioni riguardo alle condotte morali dei propri cittadini. Eppure che un partito ultra-capitalista con tendenze libertarian com’è sempre stato quello repubblicano dovesse prendere di mira i diritti riproduttivi non era assolutamente scontato.

Secondo Daniel K. Williams, Professore di Storia all’Università della West Georgia, all’epoca della convention in Kansas i sondaggi riportavano che gli elettori repubblicani erano addirittura in media più vicini alle posizioni pro-choice di quanto non fossero quelli democratici.

Nell’articolo The GOP’s Abortion Strategy: Why Pro-Choice Republicans Became Pro-Life in the 1970s pubblicato nel 2011 su “The Journal of Policy History”, lo storico mostra come la vera frattura all’epoca, non era tanto tra l’elettorato democratico e quello repubblicano, ma tra le comunità protestanti e quelle cattoliche.

Venendo da una cultura tradizionalmente più aperta verso il matrimonio sacerdotale, l’uso degli anticoncezionali e in generale più consapevole dell’importanza dei diritti individuali, le comunità protestanti americane si dimostrarono all’inizio più possibiliste verso il riconoscimento del diritto all’interruzione di gravidanza, se non in qualunque caso quanto meno nella maggioranza dei casi.

Si trattava di un atteggiamento più liberale nei confronti dei diritti riproduttivi che erano considerati come uno strumento necessario a una più consapevole progettualità famigliare e che non sarebbe andato a scalfire la moralità della famiglia, ma che anzi l’avrebbe aiutata.

La ex-First Lady Betty Ford, che definì la sentenza Roe v. Wade «a great great decision» (NARA & DVIDS Public Domain Archive)

Diverso invece fu l’atteggiamento delle comunità cattoliche, storicamente negli Stati Uniti più tradizionaliste e financo reazionarie, che si opposero sempre a ogni riconoscimento dei diritti riproduttivi di ogni tipo (dall’uso degli anticoncezionali fino naturalmente all’interruzione di gravidanza) ma che furono d’altro canto sempre più vicine al Partito Democratico (un legame che poi divenne ancora più forte durante la presidenza Kennedy). Lo spettro delle posizioni era insomma in buona sostanza rovesciato rispetto a quanto avviene ora.

Fa abbastanza impressione pensare che in passato tra i sostenitori di Planned Parenthood, la più grande associazione americana di promozione dei diritti riproduttivi e di difesa del diritto all’aborto, ci furono persino il repubblicano Senatore del Connecticut Prescott Bush e il figlio George H. W. Bush, così come Peggy Goldwater, moglie dell’ex-candidato Presidente del GOP alle elezioni del 1964 Barry Goldwater che fondò la sede di Planned Parenthood dell’Arizona, o persino l’ex-Presidente Dwight Eisenhower, che negli anni Sessanta fu addirittura Presidente Onorario dell’associazione.

Così come fa impressione pensare che in uno stato tradizionalmente democratico come la California, i vescovi cattolici locali riuscirono a far fallire le prime iniziative legislative democratiche di legalizzazione dell’aborto nel 1962 e 1965 e che ci volle un certo Roland Reagan per fare approvare nel 1967 la prima legge dello stato che riconosceva alle donne il diritto all’aborto nei casi in cui la loro salute fisica o mentale era in pericolo.

Come mai allora negli anni Settanta la situazione cambiò? Com’è che il Partito Repubblicano a un certo punto decise di sposare la linea delle più reazionarie comunità religiose e diventare, da partito liberale e liberista del laissez faire, il partito reazionario e moralizzatore del fondamentalismo religioso?

Una prima risposta è che Richard Nixon spinse i repubblicani a riconsiderare l’importanza del voto dei cattolici, che fino a quel momento era stato egemonizzando dai democratici (solo il 33% dei cattolici votò repubblicano nel 1968) ma che se organizzato dai repubblicani avrebbe invece potuto ribaltare i rapporti di maggioranza nel paese.

Punto di riferimento fu il libro The Emerging Republican Majority di Kevin Phillips che all’alba del Voting Rights Act del 1965 elaborò quella che poi divenne nota come la “Southern Strategy” del GOP: l’idea cioè che il movimento dei diritti civili aveva spostato l’elettorato bianco del Sud a destra e che l’ago della bilancia sarebbe stata la capacità di egemonizzazione di quello scontento.

All’inizio Nixon fu tutt’altro che convinto di questa strategia, soprattutto perché una svolta a destra del partito avrebbe rischiato di alienargli parte del suo vecchio elettorato. Williams ricorda che durante il suo primo anno da Presidente Nixon dichiarò che «a nessuna donna americana doveva essere negato l’accesso ai servizi di pianificazione famigliari per via delle proprie condizioni economiche» e che a capo della Commissione per la Crescita della Popolazione mise un certo John D. Rockefeller III, uno che proponeva la distribuzione di contraccettivi come strumento di pianificazione demografica.

Fu soltanto quando nel marzo del 1971 il Senatore democratico del Maine Edmund Muskie si candidò per le primarie e dichiarò la sua assoluta contrarietà a ogni forma di legalizzazione dell’aborto che Nixon iniziò a cambiare la propria strategia e a prendere risolutamente una posizione contraria a ogni forma di legalizzazione dell’interruzione di gravidanza.

È insomma solo durante la campagna elettorale del secondo term di Nixon che la questione dell’aborto inizia a prendere il centro del dibattito politico nazionale ed è attorno a questi anni che Nixon coglie l’occasione di usare l’aborto per spostare a destra il Partito Repubblicano e provare a egemonizzare il voto cattolico (cosa che comunque gli riuscì e che gli garantì la rielezione con l’impressionante plebiscito del 1972).

E tuttavia vi è anche una seconda risposta, forse ancora più convincente, e che riguarda un cambiamento del significato stesso dell’aborto a partire da quando i movimenti femministi degli anni Sessanta e un nuovo protagonismo politico dal basso che attraversa la società americana in quegli anni inizia a porre il problema della giustizia riproduttiva e della liberazione della sessualità femminile anche dai limiti riproduttivi della famiglia come una questione politica fondamentale.

Se negli anni Sessanta i Repubblicani avevano sostenuto il diritto all’aborto (anche se per lo più si trattava di aborto “terapeutico” e solo in alcuni casi) dato che pastori e ministri protestanti l’avevano associato come un diritto della classe media “rispettabile”, all’inizio degli anni Settanta il panorama cambia radicalmente.

Come scrisse un editore battista fondamentalista del Tennessee nel 1971: «Quelli che vogliono legalizzare l’aborto di solito sono parte della stessa gente: di sinistra, manifestanti, socialisti, dimostranti per i diritti civili… Sono a favore di una ‘nuova morale’. Quelli che lottano per l’aborto non sono brava gente e non sono dei buoni cittadini americani».

A fronte di movimenti che rivendicano il diritto all’aborto come un’espressione assoluta della libertà femminile, le comunità evangeliche iniziano allora a cambiare il proprio atteggiamento e iniziano un processo di organizzazione di un movimento pro-life che pian piano diventa una costola fondamentale del Partito Repubblicano fino poi a stringere un’alleanza organica con il GOP durante l’amministrazione Reagan.

Anti-ERA women watching a committee meeting of the Florida Senate in 1979, where consideration of the ERA was postponed, thus effectively killing the resolution for the 1979 session. (Wikipedia)

Figura chiave in questa sorta di movimento di evangelizzazione del Partito Repubblicano fu Phyllis Schlafly, che divenne famosa per la sua lotta contro l’Equal Rights Amendment (ERA), un emendamento costituzionale che, se approvato, avrebbe dovuto rafforzare l’uguaglianza dei diritti senza distinzioni di sesso, fornendo al Congresso poteri speciali rispetto a quelli dei singoli stati.

Fu grazie a lei che uno degli strumenti legislativi in difesa dei diritti civili delle donne allora più avanzati venne definitivamente affossato e non venne mai più discusso dalle assemblee legislative americane. La sua lotta contro la legalizzazione dell’aborto fu la prima ad acquisire dei tratti esplicitamente anti-femministi e fu la prima che associò l’aborto con il crescente protagonismo politico femminile radicale di quegli anni.

Le comunità evangeliche e protestanti furono tra le prime a comprendere che la rivendicazione della liberalizzazione dell’aborto era diventato nei movimenti degli anni Sessanta e Settanta quello che Ernesto Laclau e Chantal Mouffe in Hegemony and Socialist Strategy chiamano un «significante fluttuante», una questione cioè che oltre a sé stessa, articola una lunga serie di altre rivendicazioni che sono a essa implicitamente “incatenate” anche se magari non esplicitamente affermate.

Che in questo caso, oltre ai diritti riproduttivi e a un trattamento sanitario per l’interruzione di gravidanza adeguato e sicuro, riguardano la rivendicazione di una libertà femminile al di fuori dei limiti della famiglia e l’affermazione di un rapporto diverso e più consapevole con la propria sessualità.

Phyllis Schlafly insomma aveva compreso che dietro alla questione dell’aborto vi è il problema politico della libertà femminile, che una volta rivendicata costrinse l’intero fronte del Partito Repubblicano a rivoluzionare i propri principi fondanti e ad abbracciare una politica morale reazionaria ed esplicitamente evangelica (la Schlafly ne scrisse anche un libro nel 2016 pochi anni prima della sua morte che oggi suona tristemente profetico: How the Republican Party Become Pro-Life).

Forse anche oggi, in un momento dove l’aborto è ritornato prepotentemente al centro del dibattito politico nazionale americano, è bene ricordarsi che dietro all’enorme investimento politico fatto dal GOP e dagli evangelici (ormai divenuti la forza culturale-religiosa trainante la destra americana) c’è ancora una volta la questione politica fondamentale della libertà di autodeterminazione femminile.

Una libertà che ancora spaventa e contro la quale il Partito Repubblicano sembra aver deciso di sferrare un attacco di una violenza inaudita e senza precedenti. Roe v Wade rischia di essere solo l’inizio.

In copertina Gerald Ford e Betty Ford partecipano a un evento elettorale presidenziale a Grand Rapids insieme a Dwight e Mamie Eisenhower (Wikimedia Commons)