ROMA

«Qual è il posto mio?». Torpigna by day

Una mattinata tra “manifesto”, caffè e insulti al nero sbagliato

«Che bello avere il giornale di carta la mattina appena sveglia» dice Vane Bix mentre sorseggia il caffè fumante e sfoglia le pagine del “manifesto”. Certe volte ti capitano dei privilegi che per quanto siano piccoli non smetti di gustare. In questo periodo il nostro è avere ogni sera alle 23 il quotidiano che l’indomani sarà in edicola. Stampato in bianco e nero, su paginoni A3. Un lusso.

Mentre commentiamo le notizie del giorno, da sotto arrivano delle urla. Sono le 10 di mattina in una tranquilla via del quartiere romano di Torpignattara.

Mi affaccio. C’è un ragazzo che dà uno schiaffo a un operaio del gas davanti a un fiorino. Intorno ci sono un collega dell’uomo e diverse donne. Il ragazzo urla qualcosa, ma da qua sopra si capisce poco. Si distinguono solo alcune parole: «razzista», «posto mio», «posto mio». Quelli intorno sono molto spaventati. Il tipo è enorme. È nero. Mentre si allontana qualcuno dice che ha un coltello.

Attraversa la strada e scompare sotto gli archi dell’acquedotto.

«Ma guarda questi qua». «Se ce stava mi’ marito l’ammazzava». «Girano cor cortello». L’operaio che ha preso lo schiaffo ha la faccia rossa. L’altro ha tirato fuori un tubo di metallo. Sembra che tutti diano ragione a quello del gas. Intanto per strada scendono altre persone, ascoltano il racconto dei presenti. Qualcuno vuole chiamare le guardie.  Qualcuno si innervosisce. Qualcuno annuncia reazioni.

Soltanto quello con la faccia rossa è silenzioso. Testa bassa. Fa le sue cose intorno al fiorino. «Lascia sta’, che le pizze passano» dice al collega che si affaccia sotto gli archi col tubo in mano e un fare minaccioso.

Riprendo caffè e “manifesto”. Ricomincio a leggere.

Nuove urla. Mi riaffaccio. Il ragazzo nero è tornato. Lancia felpa e zaino contro il muro. Apre le braccia grandi, apre le mani vuote. Si avvicina a quelli di prima. Li guarda uno a uno e grida «qual è il posto mio?».

Da sopra gli urliamo istintivamente di smetterla. «Basta, basta». Sembra voglia aggredirli.

Sotto lo guardano tutti, ma si allontanano uno a uno.

Lui si avvicina all’uomo che ha colpito pochi minuti prima. Sembra pronto a rifarlo con più cattiveria. Poi inaspettatamente dice di non voler picchiare nessuno. Pretende una risposta: «qual è il posto mio?».

Urla forte, a squarciagola. Sento un accento spagnolo.

Mi infilo le scarpe e corro giù per le scale.

Quando scendo anche quelli che all’inizio sembravano avercela con lui stanno cercando di calmarlo. Non so se il tipo ha spiegato qualcosa o incute troppo timore. È davvero grosso, enorme. E molto incazzato.

Tiro dritto verso di lui. Lo guardo in faccia. Attacco a dirgli cose in spagnolo per distrarlo. «¿Qué pasa, che? ¿Qué honda? Tranquiiiiilo, tranquiiiiilo». Cerco di portarlo via.

Mi inizia a spiegare quello che è successo, dice che l’hanno insultato. Ma non arriva alla fine. La rabbia gli offusca lo sguardo e gli storpia le parole in bocca.

Ha l’alito vinoso e gli occhi lucidi. Non sembra cattivo.

Si dispera, si accascia per terra, urla: «ditemi qual è il posto mio. Sono fuggito da un paese difficile, sono arrivato qua, lavoro tutto il giorno, ho la cittadinanza italiana. Ditemi: qual è il posto mio?».

Si allontana di nuovo.

Tre vicini del palazzo accanto mi bloccano: «Cos’è successo?». Gli spiego quello che so. Il più giovane esclama sentenzioso: «Se l’hanno insurtato, er nero c’ha ragione».

Intanto il tipo si è sdraiato su un fianco, sopra il cruscotto di una macchina in sosta dall’altro lato della strada.

Scompare di nuovo sotto gli archi dell’acquedotto.

Lo seguo.

Supera uno spiazzo.

Lo chiamo.

Gira dietro un muro.

Lo trovo seduto. A terra. Da solo.

La testa tra le mani. Piange a dirotto. Quando si gira ha il volto rigato di lacrime.

Lì per lì penso che dentro ogni macho si nasconde un bambino che preferirebbe l’abbraccio della mamma alle risse per strada.

«Sono scappato da Cuba – racconta –. Ho due figli lontani. Mi sto separando da mia moglie che è ancora là. Lavoro cinque giorni a settimana dalle 10 di sera alle 5 e mezzo di mattina. Faccio il buttafuori. I ragazzini ubriachi che non si sanno divertire mi rompono le palle tutto il tempo…».

Si ferma, si asciuga le lacrime con il dorso della mano. Cerca di ricomporsi, di rimettere in ordine il labbro inferiore arricciato dal pianto.

«Stavo passeggiando. Stavo cercando un amico. Non ricordo dove abita. Mi sono fermato sul portone del palazzo provando a individuare casa sua. Ho chiesto un’informazione a una signora. Quella mi ha preguntado se vivo là, perché non mi conosce. Giusto. Le ho risposto di no. Che stavo solo cercando un amico…».

Muove la testa sul collo da destra a sinistra. Negli occhi gli entra una luce diversa.

«… poi passa questo, mi guarda e mi dice: ‘stai al posto tuo’ e con il dito indica il marciapiede…».

La faccia si contorce in una smorfia cattiva risalita da un pozzo profondo. Delle lacrime è rimasto il solco sulle guance. Gli occhi sono socchiusi, la mandibola tesa. Mi prende per le spalle e mi guarda dentro le pupille.

«Hermano yo te mato con estas manos. Hermano, a mi me dices ‘Stai al posto tuo’? Hermano, a mi me hablas como a un perro? Yo te mato hermano. Soy 40% bandito e 60% una persona buona. Ho dovuto fare cose brutte in vita mia. Molto brutte. Tu non puoi capire. Sono venuto qua. Mi faccio un culo così per mandare i soldi ai miei figli. Ho un sacco di problemi. Pero hermano la dignidad de un hombre non devi toccarla. Se mi parli come a un perro… hermano yo te mato. Hermano».

Si chiama Mike, o qualcosa del genere. È un lottatore di Mma, Muay thai e varie altre discipline. Non fatico a credergli. È davvero una bestia. Vederlo piangere e poi tirare fuori quell’espressione cattiva mi fa pensare che dentro quell’omaccione deve essere in corso una gran brutta tempesta.

«Quando fai male a una persona – dice leggendomi nello sguardo – è come se metti un chiodo. Prima o poi però il chiodo cade. E rimane un buco. Se metti tanti chiodi, rimangono tanti buchi. Se la tua coscienza è piena di buchi devi lottare per sopravvivere. Io sto lottando contro la mia coscienza. Ma nessuno mi deve parlare come a un perro. Sono in Italia da otto anni, faccio il bravo e questi razzisti di merda mi parlano così solo perché sono negro. Ho la cittadinanza italiana e mi dicono di stare al posto mio. Ma qual è il posto mio?».

Ricomincia a lacrimare. Ci abbracciamo. Si tranquillizza.

Camminiamo un po’ insieme.

«Se mi parli come a un perro la cinquina parte in automatico. Come il distributore che ti dà le sigarette quando metti i soldi», dice prima di salutare. Stavolta se la ride.

Ripassiamo sotto gli archi. Ognuno si avvia per la sua strada.

Dopo pochi passi vedo una macchina dei carabinieri che sta risalendo controsenso. Con la coda dell’occhio ne sento arrivare un’altra. Lui guarda dritto. Quelli si scambiano un cenno, da una volante all’altra.

Lo indicano. Lo accerchiano. Lo fermano.

Mi avvicino.

Mike si agita di nuovo e ricomincia a urlare. Quelli lo vedono urlare e si irrigidiscono. Un agente tira fuori il manganello. Mi metto in mezzo. Palmi aperti e braccia distese. Dico che il ragazzo si era tranquillizzato, di evitare di fare casini.

Vogliono sapere se ha un coltello. Lo chiedono anche a me. Io non ho visto niente. Lui si fa perquisire senza problemi.

«Tengo queste mani – e mostra i pugni ai carabinieri – a cosa mi serve un coltello? Soy un luchador».

«Che sport?».

«Mma».

L’agente che ha fatto la domanda lo guarda inclinando leggermente la testa su un lato. Tira indietro i bordi della bocca. La smorfia esprime la speranza di non trovare coltelli, di non avere ragioni per intervenire contro quella montagna allenata a dare pugni e calci.

Gli frugano nelle tasche. Gli svuotano lo zaino. Trovano solo un iPad con la foto di una figlia.

Gli animi si distendono. C’è qualche battuta.

«Documenti?».

«En casa – ride – Sono uscito a divertirmi. Se li porto dietro li perdo».

«Dove abiti?»

«Magliana, via del….».

«Il permesso di soggiorno ce l’hai?».

«No, ho la cittadinanza italiana. Te doy mi nombre e lo cerchi».

Lo scrive su un foglietto. Quelli comunicano i dati al terminale. Ma dicono qualcosa di sbagliato. Mike ride e li prende in giro. Dice che non riescono a leggere il suo nome.

«Precedenti?».

«Nessuno. Anzi no – mormora avvicinando e allontanando due dita dalla bocca – una volta mi hanno preso mentre fumavo le canne. Una canna, dai. Stavo fumando».

Ride e mi guarda: «Questi quando vengono nelle discoteche dove lavoro io non li faccio entrare».

Finito il controllo lo lasciano andare.

Dopo aver salutato i carabinieri uno a uno con energiche strette di mano, Mike si ferma in mezzo alla strada e si volta verso di loro: «Adesso però dovete rispondere voi a una domanda, perché ancora non l’ho capito: qual è il posto mio?».