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«Proteggere l’Amazzonia per affrontare la crisi climatica»

Martina Borghi è campaigner foreste di Greenpeace Italia. Ha vissuto e lavorato in Amazzonia per diverso tempo, osservando lo sviluppo degli incendi nel corso degli ultimi anni e denunciando il loro intreccio al modello di produzione e consumo dei paesi occidentali. «Serve un nuovo paradigma per il sistema agro-alimentare, promuovendo pratiche agricole sostenibili ed ecologiche», afferma in questa intervista

Come si è comportato Bolsonaro nei confronti della popolazione indigena che vive nell’Amazzonia?

Già durante la campagna elettorale dell’anno scorso, Bolsonaro aveva minimizzato le preoccupazioni ambientali, minacciando di abbandonare gli impegni presi con l’accordo di Parigi sui cambiamenti climatici, di non creare nuove riserve indigene e promuovere un maggiore sfruttamento minerario ed economico dell’Amazzonia. È risaputo che il neopresidente brasiliano gode del supporto dalla potente lobby dei grandi produttori agricoli: il Brasile è uno dei principali esportatori mondiali di carne bovina e di soia. Non a caso, tra le prime promesse elettorali mantenute da Bolsonaro c’è quella di rendere il Ministero dell’Agricoltura responsabile della decisione sulle terre rivendicate dalle popolazioni indigene. Questa decisione è particolarmente allarmante non solo perché indebolisce l’ente preposto agli affari indigeni (Funai), ma anche perché la nuova ministra dell’Agricoltura, Tereza Cristina Corrêa da Costa Dias, è da sempre vicina agli interessi del cosiddetto “blocco ruralista”, che difende gli interessi dei grandi latifondisti e produttori agricoli.

 

E adesso?

Bolsonaro ha fatto anche numerose dichiarazione contro i popoli indigeni e il loro diritto alla terra. Ma in un momento in cui la deforestazione è di nuovo in aumento, escludere i popoli indigeni e le comunità forestali tradizionali dalla conservazione dell’Amazzonia (e dalle foreste in generale) è una pessima decisione, che può avere impatti negativi sia per il clima, sia in termini economici, come dimostra anche un rapporto realizzato da Rights and Resources Initiative in collaborazione con la Relatrice Speciale dell’Onu per i Popoli Indigeni, Victoria Tauli-Corpuz. A far parlare di sé, lo scorso febbraio, è stato anche il Ministro dell’Ambiente Ricardo Salles, che ha conquistato l’attenzione della stampa internazionale per aver affermato, durante un’intervista televisiva, di non conoscere Chico Mendes, storico sindacalista e difensore dell’Amazzonia, assassinato negli anni ottanta da sicari dell’industria del legname.

 

Gli incendi sono collegati all’agricoltura fondata su produzione di mangimi, biocombustibili e agli allevamenti di bestiame?

In Amazzonia incendi e deforestazione vanno di pari passo. Di solito si procede prelevando le specie arboree con alto valore commerciale (come ad esempio il pregiatissimo teak, nel caso dell’Amazzonia). Poi l’area viene data alle fiamme per ottenere rapidamente spazio per il pascolo estensivo oppure per renderla immediatamente coltivabile e fertilizzata anche dalla cenere prodotta. Quest’anno oltre il 75 per cento dei focolai si è verificato in aree che nel 2017 erano coperte dalle foreste e che successivamente sono state deforestate o degradate per lasciare spazio a pascoli o aree agricole. Negli stati di Rondônia e Pará, ad esempio, gli incendi mostrano chiaramente l’avanzata dell’agricoltura industriale nella foresta, spesso per far spazio a pascoli per il bestiame e colture, soia in particolare, destinate alla mangimistica o alla produzione di biodiesel.

 

Gli incendi riguardano solo l’Amazzonia di Bolsonaro?

Per quanto le politiche anti-ambientalista di Bolsonaro abbiano giocato un ruolo chiave nel provocare la drammatica situazione che ha colpito l’Amazzonia, quanto detto sopra accade nella maggior parte delle grandi foreste intatte del mondo (e dei Paesi che coprono) a causa di un modello industriale di sfruttamento delle risorse. Non a caso, l’agricoltura industriale è responsabile dell’80% della deforestazione a livello globale. A partire dal 2010, la produzione e il consumo di prodotti agricoli legati alla deforestazione – tra cui carne, soia, olio di palma e cacao – sono aumentati vertiginosamente. E continuano ad aumentare. Tra il 2010 e il 2020 almeno 50 milioni di ettari di foresta, un’area delle dimensioni della Spagna, saranno stati distrutti per fare spazio alla produzione industriale di materie prime agricole.

 

Quanto è collegata l’industria degli allevamenti brasiliana con l’esportazione verso i paesi del Nord del mondo e quindi con il nostro stile di vita e di alimentazione?

Gli incendi in Amazzonia non avvengono per caso. Sono spesso appiccati per lasciare spazio a pascoli e monocolture. I pascoli sono utilizzati per l’allevamento estensivo di animali destinati al macello (il Brasile è il principale esportatore di carne al mondo). Molte monocolture, invece, sono di soia. Questo legume è largamente utilizzato come mangime per gli animali (ma anche per il biodiesel). Il problema, più che l’Amazzonia, interessa il Cerrado brasiliano, cioè la savana con più diversità al mondo. La crescente domanda mondiale di carne fa aumentare la richiesta di mangimi e quindi di terreni da occupare con colture e pascoli. Una dieta più sana, con meno carne e pasti più ricchi di verdure e proteine di origine vegetale, aiuterà a migliorare l’equilibrio tra foreste e terreni destinati alla produzione agricola. Ma agire per porre fine alla deforestazione, dell’Amazzonia e di tutte le foreste del pianeta, deve essere anche un obiettivo globale della comunità internazionale. Per questo Greenpeace chiede alle multinazionali e ai governi di proteggere le foreste e proporre un nuovo paradigma per il sistema agro-alimentare, promuovendo pratiche agricole sostenibili ed ecologiche.

 

Gli incendi di queste settimane hanno qualche relazione con la recente approvazione di un nuovo trattato di libero commercio tra Europa, il cosiddetto “Ue-Mercosur”?

L’Unione Europea, durante l’ultimo G7 ha dichiarato di voler difendere l’Amazzonia stanziando fondi contro gli incendi ma a fine luglio ha elaborato un piano d’azione contro la deforestazione che non affronta i costi ambientali e umani delle politiche commerciali e agricole dell’Ue, continuando a permettere a una manciata di multinazionali di accedere a nuovi mercati a scapito della necessità di valutare il costo ecologico, climatico e umano degli accordi commerciali in cui è coinvolta. È quello che sta accadendo con l’accordo di libero scambio Ue-Mercosur, che oltra al Brasile coinvolge Argentina, Paraguay e Uruguay e che – almeno così com’è – aumenterà le importazioni di materie prime agricole in Europa (a cominciare da carne e soia) con conseguenze devastanti per il clima, le foreste e i diritti umani, sacrificati ancora una volta sull’altare del profitto. Ogni accordo commerciale, invece, dovrebbe evitare di far aumentare crisi climatica e perdita di biodiversità in corso. Conseguentemente l’Ue-Mercosur deve essere sospeso fino a quando le foreste – l’Amazzonia e non solo – saranno adeguatamente protette e il testo comprenda misure efficaci per rispettare l’Accordo di Parigi sul clima, la Convenzione sulla diversità biologica e gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Onu.

 

La difesa dell’Amazzonia è una questione locale?

Gli incendi non hanno un impatto solo locale dovuto alla distruzione di porzioni di foresta: impatto comunque gravissimo, che, oltre a minacciare la salute di molte persone (la nube di ceneri e fumi provocata dagli incendi in molti casi ha raggiunto centri abitati e grandi città), spesso colpisce le basi della sussistenza materiale e della vita spirituale di centinaia di popolazioni native. La distruzione delle grandi foreste tropicali ha effetti gravissimi sulla biodiversità del nostro pianeta e sui cicli bio-geochimici che ne governano gli equilibri. Con l’aumentare degli incendi, aumentano anche le emissioni di gas serra (oltre alle emissioni provocate dagli incendi stessi, il carbonio immagazzinato nella foresta viene liberato e si trasferisce in atmosfera), che favoriscono ulteriormente l’innalzamento della temperatura globale e, di conseguenza, il verificarsi di altri incendi ed eventi meteorologici estremi in tutto il pianeta. La distruzione delle foreste è una delle principali cause del cambiamento climatico e della massiccia estinzione delle specie animali a cui stiamo assistendo, oltre ad essere spesso associata alla violazione dei diritti umani. Come è stato ribadito dall’Ipcc (Gruppo intergovernativo delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici), se non decidiamo di proteggere seriamente le foreste, non saremo in grado di affrontare la crisi climatica che stiamo attraversando.

 

Abbiamo visto immagini di grandi cortei in molte città brasiliane. Come sta reagendo la società civile brasiliana agli incendi?

Secondo i dati dell’indagine realizzata a fine agosto da Datafolha, che ha incluso 2.878 persone in 175 città, per il 75% dei brasiliani l’interesse internazionale per l’Amazzonia è valido e la foresta amazzonica è effettivamente a rischio. L’indagine ha anche mostrato che il 51% dei brasiliani pensa che Bolsonaro stia gestendo male o molto male l’allarme incendi. Sempre secondo la stessa fonte, la popolarità di Bolsonaro è in calo: la percentuale di disapprovazione del presidente brasiliano è passata dal 33% al 38% rispetto al precedente sondaggio, risalente a luglio 2019.

 

Foto di Nacho Yuchark, lavaca.org, scattata nella regione amazzonica dell’Acre