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Pirati di fine millennio

Un romanzo di formazione controculturale a Milano, con porti, fiumi, pirati all’arrembaggio, punk, vittorie, ferite, rabbie e paranoie: dalla fine degli anni Ottanta agli esordi del nuovo millennio

L’identità del Quartiere Ticinese di Milano è quella di una città portuale. La sua storia si identifica con la storia della Darsena dei Navigli che è può essere considerata il porto della città almeno fino alla fine degli anni Trenta. Così spiegava Primo Moroni nel primo numero di Decoder: «qui si è formata attraverso gli anni una diversificata composizione di comportamenti collettivi che fondevano, senza conflitto, il legale con l’extralegalità, la malavita leggera, artigiani e proletari».

Nascono qui, alla metà degli anni Ottanta, I pirati dei Navigli che Marco Philopat racconta nel suo ultimo lavoro autobiografico (Bompiani, Milano 2017, 320 pp. 17,00 €).

La vicenda da cui viene il titolo, è quella di un arrembaggio carnevalesco a un comizio della giunta comunale PCI-PSI guidata da Pillitteri durante l’annuale Festa dei Navigli. Il palco era stato costruito sulle acque della Darsena e per raggiungerlo il corteo sceglie la più inattesa delle tattiche. Una piccola flotta di canotti comprati alla Standa discende lungo il Naviglio Grande e tenta l’arrembaggio al palco sventolando le bandiere Jolly Roger.

È il giugno del 1989 e la ciurma che prende d’assalto il palco è quella degli occupanti sgomberati dal Centro Sociale Conchetta 18. Philopat è a bordo di uno di quei gonfiabili e ci fa remare assieme a lui con le esili pagaiette in plastica in dotazione mentre tra la concitazione e gli slogan urlati contro le autorità respiriamo la fogna dei Navigli prima di essere presi a calci dai poliziotti che difendono il palco.

È la stessa estate in cui sarà sgomberato e immediatamente rioccupato il Leoncavallo così come, pochi mesi dopo il corteo nautico, i pirati dei Navigli riprenderanno possesso del Conchetta (in questi giorni di nuovo al centro di attacchi stampa a seguito della sconfitta in cassazione per l’assegnazione dello spazio).

Sono le ultime pagine di un libro che racconta in una soggettiva intimista le gesta di un manipolo di personaggi che anima la Milano della seconda metà degli anni Ottanta. Sono gli anni del craxismo, della Milano da bere, degli yuppie e dei paninari e, mentre sulla superficie scintillano le sfilate di moda e le televisioni di Berlusconi, nei meandri della città del porto si coagula una riottosa moltitudine che la risacca degli anni Settanta ha abbandonato sulle banchine. Sono membri delle sottoculture giovanili, militanti della sinistra extraparlamentare, tifosi del Milan, appassionati di tecnologia, scoppiati vari e punk, tanti punk.

Il libro comincia infatti là dove Costretti a sanguinare. Romanzo sul punk 1977-1984 si chiudeva. «Lo sgombero del Virus ci ha tolto la vita, il progetto, la casa e la musica. Siamo messi peggio di quattro anni fa, quando giravamo per la città scrivendo no future sui muri. Adesso quello slogan ci pare vecchio come un calzino bucato e non avrebbe senso gridarlo in faccia ai passanti. Noi il futuro eravamo stati capaci di costruirlo dentro al Virus. Ora che ce l’hanno rubato la faccenda si è complicata…».

Da qui Marco Philopat ci accompagna lungo un viaggio di cinque anni di vita in cui le sue vicende personali si incastrano con quelle tensioni e quelle trasformazioni epocali che il milieu di cui si trova a far parte anticipano socialmente, culturalmente e politicamente.

Sebbene il volume possa – e debba – essere anche letto come il sequel di Costretti a sanguinare, cioè come una storia di punk, di occupazioni e di sgomberi, di lotte, di concerti, di droghe e di provocazioni, qui il protagonista è letterariamente un altro. A venti anni di distanza il rapporto tra autore e protagonista è completamente ribaltato. Laddove il Philopat di Costretti a sanguinare è un protagonista duro, sicuro e obiettivo, sebbene più giovane di quello dei Pirati dei Navigli, qui la scrittura più matura consente all’autore di raccontarsi senza censurare i dubbi e le fragilità che accompagnano chi da giovane si ritrova a vivere da protagonista nel mezzo dei conflitti. Sono le situazioni di disagio in un appartamento condiviso, il senso di inadeguatezza di fronte a una citazione, la paranoia per una frase di troppo detta durante un’assemblea.

È in questo incespicare delle emozioni che Philopat lascia emergere quel mutamento violento ma ancora invisibile che negli anni Ottanta è destinato a segnare la fine delle grandi organizzazioni politico-sindacali, la crisi del modello fordista, le trasformazioni urbane degli spazi pubblici oggetto della gentrificazione dei quartieri popolari. Sono trasformazioni che lo sguardo leninista delle organizzazioni di sinistra non è capace di intercettare, può farlo assai meglio una ciurma di pirati con sincero e singhiozzante entusiasmo. Il vento di quel cambiamento si deve ancora alzare, le vele sono lacere e non c’è una rotta da seguire, può improvvisare solo chi non vede futuro ma continua a guardare lontano con rabbia.

E mentre Philopat naviga a vista da una occupazione all’altra, circondato da punk, squatter e creature simili, c’è un faro che ritmicamente si accende nelle pagine del libro: è Primo Moroni, intellettuale “di strada”, punto di riferimento per un pezzo della sinistra e delle controculture, che con la sua libreria Calusca, come una cambusa dispensa libri e cibo per la mente ai protagonisti (tanti gli stralci dai suoi scritti e discorsi). La sua voce accompagna la schiuma che si alza nella storia di Philopat a sostenere lo spessore di un libro che può così essere compiutamente un pezzo di storia dell’antagonismo milanese.

Ovviamente nella narrazione si susseguono soprattutto una moltitudine di luoghi, persone, aneddoti, storie d’amore, concerti, irruzioni, scorribande, scontri con la polizia che spiegano bene come dopo il reboot della Pantera, a Milano come nel resto d’Italia, sia partita la fervida stagione dei Centri Sociali degli anni Novanta.

Non poteva qui mancare la genesi di “Decoder” di cui Philopat è stato redattore. Quella “Rivista Internazionale Underground” uscita dal 1987 al 1998, che tanto merito avrà negli anni Novanta nel trasformare lo spirito di quella ciurma di pirati in una realtà culturale importante di questo paese. Non solo direttamente attraverso la rilettura politica del cyberpunk (uno specifico tutto italiano) ma soprattutto attraverso quell’entusiasmo hacker che dalle tecnologie arriva al gioco sull’immaginario collettivo con una serie di progetti diversi – da Luther Blissett a San Precario – che accompagneranno i movimenti fino ai primi anni Zero.

Per questo I pirati dei Navigli di Marco Philopat è un vero e proprio romanzo di formazione controculturale che non risparmia ferite, rabbia, delusioni. Come è giusto che sia.