editoriale

Perché desideriamo la nostra schiavitù come se fosse la nostra salvezza?

Autoritarismo neoliberale e nuovo fascismo: per un’analitica del desiderio e del suo doppio canceroso.

1. Il momento d’inizio del governo Salvini, della sua escalation inarrestabile, sono gli spari di Macerata. Come sempre, la violenza viene prima dei voti e delle norme: verità materialista che tutti, materialisti inclusi, spesso dimenticano. Il cittadino che si fa giustizia da sé, che difende l’italica femmina dalla bestia africana, lavora nell’immaginario, al di sotto delle parole. Così succede che gli iscritti della CGIL o il “popolo della sinistra” – quello, non piccolo, che vota 5S – non solo sostengano il contratto giallo-verde, ma siano anche disposti a barattare il Decreto dignità con i porti chiusi. Il razzismo, contropartita inevitabile per cancellare Fornero e Jobs Act (ammesso che questo accada). Scambio effettuato, reale e simbolico, e siamo già in un’altra epoca.

Tutti si sbrigano a dire che siamo tornati negli anni Trenta, a Weimar, ecc. Vero. Eppure tutto ciò accade nella società del general intellect. Proprio ora, che linguaggio e affetti, scienza e relazioni, sono diventati le principali risorse produttive. Ora, che non smettiamo di comunicare e di guardarci vivere. Di più: non riusciamo a vivere senza esporci allo sguardo altrui, senza raccontare la storia fotografica delle nostre giornate. Meno vale la nostra vita, più vale la sua immagine. Qualcosa di simile avevano predetto Debord e soci. Bene, ora ci siamo, siamo nel mezzo della «tempesta di merda». Ma siamo anche soggetti immensamente produttivi, esito cangiante di processi di cooperazione mai così fitti; e neanche un presupposto tecnico manca per liberare donne e uomini dalla schiavitù del lavoro salariato.

2. Sul fascismo postmoderno ha scritto parole definitive, tempo fa, Paolo Virno. Riprese e complicate da Alberto De Nicola, in un recente editoriale che ci ha illuminato. Vorrei soffermarmi brevemente, invece, su una questioncina ontologica che fa gola quasi a tutti. Ai neoliberali in crisi, ai preti “democratici”, ai rosso-bruni di tutte le risme: il desiderio. Più nel dettaglio, vorrei presentare qualche riflessione disordinata sul desiderio di fascismo.

Nel 1977, Gilles Deleuze aveva avvertito: «C’è molto odio o paura nei confronti del desiderio, in una cultura del piacere». Così è accaduto. Il neoliberalismo si è innestato sul desiderio di libertà e di comunismo degli anni Sessanta e Settanta, desertificandolo in direzione del godimento senza freni, del consumo ossessivo e irresponsabile. Tanto è andato a fondo il neoliberalismo, che la bolla è esplosa; quella del debito privato e pubblico. Tra le macerie dell’euforia, smottamento dopo smottamento, il capitalismo ha accantonato il permissivismo post-edipico, la democrazia parlamentare, la programmazione e lo sviluppo. E ha riscoperto il calore del «peccato originale»: spoliazioni, nuovo colonialismo, criminalizzazione dei poveri, linciaggio delle donne senza lacci. Ovvio, attacco al salario – diretto e indiretto – e uso capitalistico della crisi (e della disoccupazione, delle migrazioni). Ma colpisce non poco la grande furia moralizzatrice.

Se c’è un tratto fondamentale dei populismi reazionari è la miscela di ultraliberismo economico e autoritarismo: lo strapotere di Wall Street con il suprematismo, il trionfo delle multinazionali e i dazi, la demolizione del welfare e l’apologia della famiglia.

Di più: si fanno via via più pressanti, oltre alle politiche di sicurezza, le retoriche contro la dissolutezza di giovani e giovanissimi, in generale contro l’edonismo occidentale. Nella provincia italica, meritano attenzione gli editoriali di Ernesto Galli della Loggia: dall’inchino degli studenti di fronte a docenti e presidi alla condanna della sessualità ambiziosa dei proletari, dall’elogio della sobrietà a quello della patria che figlia. Società aperta e tradizioni: non è forse Pinochet la verità, cristallina alla fonte, del neoliberalismo?

Seppur in buona parte corretta, la ricostruzione fin qui condotta ha una lacuna: non coglie a sufficienza, dietro al godimento sfrenato, il desiderio proletario di fuggire miseria e fatica.

Nell’indebitamento privato dei precari americani occorre afferrare, sempre, l’impoverimento imposto dalla controrivoluzione neoliberale di Reagan e successori, e, nello stesso tempo, l’esplosione dei bisogni, dalla casa alla formazione. Non casualmente, allora, il capitalismo contemporaneo combina senza posa profitto e ipertrofia normativa, mercato e violenza statale, libertà e autoritarismo. Se nella fase espansiva della globalizzazione si trattava di fomentare il soggetto irresponsabile e post-ideologico, oggi, del soggetto laborioso, va esaltato anche il risentimento razzista. Chiara Ferragni e Matteo Salvini: l’incubo, è servito.

3. Ma torniamo alla domanda, fin qui solo accennata: perché il desiderio di fascismo circola con tanta insistenza, in Europa come negli Stati Uniti? Da quanto scritto, pare che l’autoritarismo dei nostri giorni sia il frutto maturo del godimento senza limiti. Ma forse è tutto più complicato. Se è vero che il piacere scarica, puntella e prosciuga il desiderio, non è vero che smettiamo di desiderare. Soprattutto, ed è questo il tema da approfondire, il desiderio può piegarsi contro se stesso, può duplicarsi, ammalarsi, farci combattere per la schiavitù come se fosse la nostra salvezza – così ci ha insegnato Spinoza.

Una lettura sincera di Millepiani, contrariamente a quanto ripetono i preti della Legge, può senz’altro aiutarci. La premessa ontologica è interamente spinoziana: il conatus di ogni ente persevera nell’essere. Essenzialmente, il desiderio afferma sempre: produce e connette. Ma il desiderio è singolare e molteplice; nell’esistenza, dunque, ci sono composizioni e distruzioni, amore e odio, misericordia e invidia, concordia e guerra. Parte dell’infinita potenza di Dio, ovvero della Natura, il desiderio che ci costituisce e ci accompagna è la nostra placenta, la nostra infanzia cronica.

Se il desiderio corre troppo veloce, ci dicono Deleuze-Guattari, esplodono i suoi doppi: nel primo caso, diventiamo un buco nero; nel secondo, dei fascisti.

Spieghiamo. Se ci sbarazziamo in modo frettoloso e violento di tutto ciò che mette in forma il nostro desiderio, da una certa organizzazione del corpo e dei suoi gesti ai poteri che ci assoggettano e definiscono la nostra vita sociale, d’improvviso cominciamo a precipitare. Accade al tossicodipendente, che non smette di perdersi nel buco nero ritrovandosi nella dose. Accade al fascista, che in verità, precipitando, si avvinghia alle forme in via di disfacimento, esaltandole senza posa: al declino dello Stato-nazione imposto dalla globalizzazione, si combina il desiderio dello Stato forte e poliziesco; al multiculturalismo, la riscoperta della superiorità bianca e coloniale; alla libertà delle donne, la violenza machista e vendicativa. E così via.

Capitalizzando la rivoluzione del Sessantotto e degli anni Settanta, la governance neoliberale ha fomentato deterritorializzazioni di ogni genere, smobilitando le forme della modernità nella velocità del mercato e della finanza. Il desiderio, normato dal piacere e trascinato via dagli shock continui, non ha smesso di cadere nel vuoto. E ora che la crisi devasta le ultime rigidità conquistate dalle lotte, ora che la globalizzazione presenta il conto, disponendo i salvati e i sommersi, chi è rimasto a galla ma sa che sta per affogare tenta l’ultima carta: si aggrappa agli strati in via di disfacimento e li rilancia contro chi sta già nel fondo. I bambini in gabbia di Trump, i porti chiusi di Salvini, il filo spinato di Orbán. Mentre il lavoro costa quasi nulla e le banche hanno succhiato senza sosta risorse pubbliche, quelli che stanno perdendo tutto, o lo hanno già perso, si accaniscono con gli ultimi, e gli ultimi degli ultimi.

4. Non stupisce che anche la sinistra provi, a suo modo, a riproporre i «bei tempi andati». E magari lo faccia dopo aver concorso al disastro neoliberale degli anni Novanta. Contro il godimento berlusconiano, ecco che rispuntano Berlinguer e la questione morale. Per tenere a freno l’orda, bene tutto, anche i tabù. Riscoprendo l’autorità, sia essa il padre o lo Stato, finalmente si rimette ordine. L’autonomia della politica contro il mercato peccaminoso. Ma come cacciare, oggi, i mercanti dal tempio?

C’è poi la cosiddetta «variante populista». Quest’ultima non ha dubbi: all’origine del male ci sono globalizzazione e cosmopolitismo, cooperazione intelligente e migrazioni, femminismo e sotto-culture. Nel nome di Gramsci, povero, occorre tornare a farsi Stato, popolo virile e nazione. Se il socialismo ha perso, le colpe non sono certo dello stalinismo, ma della mollezza dei movimenti alternativi degli anni Sessanta e Settanta.

Il desiderio, anche in questo caso, si ritrova nel suo doppio canceroso. Confondendo il lavoro cognitivo con i manager della Silicon Valley, il femminismo con Hillary Clinton, i migranti in mare con Soros, i populisti rossi pensano di poter battere Salvini sul suo stesso terreno. Ma, come dimostrano i sondaggi ultimi, se il terreno dello scontro è quello del razzismo di Stato neanche i 5S possono nulla.

 5. In un testo, assai noto e di ineguagliabile potenza, Frantz Fanon scriveva:

La tensione muscolare del colonizzato si libera periodicamente in esplosioni sanguinarie: lotte tribali, lotte di congregazioni, lotte tra individui. Al livello degli individui, si assiste a una vera negazione del buon senso. Mentre il colono e il poliziotto possono, per intere giornate, picchiare il colonizzato, insultarlo, farlo mettere in ginocchio, si vedrà il colonizzato tirar fuori il coltello al minimo sguardo ostile o aggressivo di un altro colonizzato. Poiché l’ultima risorsa del colonizzato è difendere la sua personalità di fronte al proprio simile. Le lotte tribali non fanno altro che perpetuare vecchi rancori conficcati nella memoria. Lanciandosi a pieni muscoli nelle sue vendette, il colonizzato tenta di persuadersi che il colonialismo non esiste, che tutto si svolge come prima, che la storia continua. Qui afferriamo in piena luce, al livello della collettività, quei famosi comportamenti elusivi, come se il tuffo in quel sangue fraterno permettesse di non vedere l’ostacolo.

Si tratta di un altro mondo, quello delle terre africane nel fermento delle lotte anti-coloniali degli anni Cinquanta. Si tratta di lotte tribali, mentre nel razzismo, di oggi come di ieri, vige l’arroganza bianca. Si tratta di urgenze tattiche, e pratiche di lotta, distanti dalle forme di vita nelle quali siamo immersi. Ma c’è una mossa analitica che illumina le nostre diagnosi: la violenza tra poveri come condotta elusiva. Invece di battermi contro il colono, perché timorato, o perché intimamente attratto dal suo potere, piego il mio simile. O, da penultimo, affogo l’ultimo.

Sono paura e superstizione, indubbiamente, che ci spingono a desiderare la nostra schiavitù come se fosse la nostra salvezza. Ma è l’impotenza – e su questo tema ha ragione da vendere “Bifo” – a fare, dei perdenti, i razzisti efferati del nostro tempo. Impotenza maschile e bianca che uccide la moglie e la sorella, mentre chiude i porti al “negro”.

L’unico movimento globale che ha rovesciato la violenza subita in potenza collettiva, lo diciamo da un pezzo, è quello femminista. Così come tanto possono le pratiche mutualistiche di nuova generazione. Moltiplicare istituzioni del lavoro vivo è l’alternativa, vivente, alla contemporanea idolatria dello Stato e della patria.

Vale la pena chiedersi, però, se non diventi via via più necessario un contro-orientamento, non elusivo, della rabbia sociale. In primo luogo, uno spostamento dei colpevoli: dalla casta (politica) alle banche, dai migranti alle aziende multinazionali, dai rom ai ricchi. In secondo luogo, e nelle condizioni di possibilità del nostro tempo, forme di lotta efficaci che rendano gli appalti anti-economici, gli algoritmi docili, i caporali inoffensivi. Senza divisione del popolo e conflitto sociale, non c’è secessione del lavoro intelligente che possa salvarci.

 

* Con queste brevi note raccolgo e sviluppo quanto detto in un seminario che si è svolto il 25 maggio scorso presso il Casale Garibaldi, durante il Festival delle CLAP. Alle compagne e ai compagni del Casale Garibaldi, alle CLAP e ad Alberto De Nicola, col quale ci siamo affiancati nel seminario, sono grato per l’occasione.