approfondimenti

OPINIONI

Per uno sciopero europeo e sociale contro la guerra e il riarmo

Sabotare la macchina capitalista per fermare la folle corsa dei governi di tutto il mondo che sta trascinando il pianeta verso distruzione, povertà e catastrofe climatica

La guerra incombe sulle nostre vite. La continuazione del conflitto in Ucraina, l’acuirsi dell’occupazione del genocidio in Palestina, il divampare del conflitto in Medio Oriente dopo l’attacco di Israele all’Iran, la lotta per una nuova spartizione delle risorse africane che dilania il Congo. Sono tanti i teatri di guerra che ci mostrano un mondo in frantumi, nel quale il disordine travolge ogni giorno la vita di milioni di persone. In questo stesso mondo, Stati e grandi aziende tecnologiche guidano una nuova corsa agli armamenti che risucchia ricerca e risorse: dalla Cina che prepara l’esercito del futuro, ai paesi del Nord Africa, fino all’Europa.

Chi ha pensato che la guerra fosse un affare degli altri e non nostro deve oggi ricredersi. La guerra penetra nelle nostre società, cambia i bilanci degli Stati, pretende sacrifici, rende complice la ricerca, mette a tacere ogni alternativa.

Ciò a cui siamo di fronte non è una semplice sommatoria di molteplici scenari di guerra, ma rappresenta una risposta generale alla crisi irreversibile dei processi di accumulazione e dei meccanismi di comando del capitale sul lavoro vivo e sulla riproduzione sociale innescati con la crisi finanziaria del 2008 e che hanno trovato un ulteriore accelerazione con la pandemia. La guerra è un tentativo di “mettere ordine”, senza mai riuscirci del tutto, in presenza di molte crisi che agiscono simultaneamente su vari livelli – ecologico, economico-finanziario, geopolitico, istituzionale e sociale – e rispetto a processi transnazionali che trasformano ed erodono il potere degli Stati. Dietro il flettere i muscoli del militarismo e degli eserciti c’è il tentativo di riconfigurare i rapporti sociali e non certo a vantaggio di donne e uomini, precarie e precari e migranti.

Nella drammaticità del momento, riconosciamo nella guerra e nella sua contestazione un banco di prova decisivo per i movimenti organizzati e chiunque voglia qualcosa di più della miseria di questo presente. Questa guerra devasta e uccide, ma viene combattuta nella società e non solo nei campi di battaglia. Noi non siamo soggetti attoniti di fronte ai rulli di tamburi degli eserciti, non siamo materia residuale dietro le strategie dei generali e dei governi: siamo le donne, gli uomini e le persone LGBTQI+ che possono rovesciare il tavolo della guerra, bloccarne l’espansione, trasformare il cupo cielo del presente in un progetto comune di liberazione. Noi denunciamo, critichiamo, condanniamo chi bombarda, distrugge, uccide, e anche chi è colluso con questa macchina di morte ma non possiamo fermarci a questo.

Cogliere qual è la posta in gioco è oggi decisivo per non rimanere invischiati nella logica del nemico, nella geopolitica dei fronti e dei blocchi, nella ragione degli Stati, delle rappresentazioni omogenee e monolitiche dei popoli, delle identità, di tutti quei soggetti che si muovono all’ombra del capitale.

Organizzare l’opposizione alla guerra

Opporsi alla guerra e alle sue logiche è oggi il punto di partenza per ogni lotta che punti a non essere meramente residuale e reattiva: contrastare le pretese ordinatrici del militarismo, della violenza patriarcale, del razzismo, dello sfruttamento e della devastazione ambientale è il punto di partenza per fare della pace un orizzonte reale di lotta al di là di ogni condivisibile, ma insufficiente, evocazione morale. Serve costruire praticamente una politica altra, con una capacità di organizzazione transnazionale, che sappia finalmente produrre un piano di comunicazione tra soggetti sociali, precarie, migranti, donne e persone LGBTQI+ che subiscono ovunque gli effetti e i costi sociali della guerra e li rifiutano con i loro comportamenti e le loro rivendicazioni.

Organizzare l’opposizione alla guerra, imporre la sua fine, fermare il genocidio, vuol dire per noi oggi rifiutare ogni arruolamento nei suoi fronti, valorizzando le lotte attuali e attivandone altre più potenti, trovando così parole condivise per produrre iniziativa. Non ci serve infatti richiamare parole d’ordine abusate, insufficienti quando non controproducenti, ma costruire un discorso e una pratica condivisi capaci di fare i conti con le differenze tra soggetti organizzati, condizioni sociali e geografiche.

Sottrarsi, disertare, resistere, non è più sufficiente: ciò che è necessario è costruire le condizioni per le quali i soggetti colpiti dalla guerra e dalle sue logiche di sfruttamento, razzismo, patriarcato, devastazione ambientale possano convergere, acquisire potenza e sovvertire.

Ciò rende decisivo collocarsi oltre i confini nazionali, ripensare l’internazionalismo oltre la tradizione dell’internazionalismo stesso. Per quanto possiamo considerare odiose e bisognose di risposta le politiche portate avanti dal governo o le condizioni che dobbiamo affrontare nei territori e negli spazi metropolitani, infatti,non è più rinviabile riconquistare una capacità di immaginazione e azione transnazionale. Ciò non significa solo riconoscere che tutte e tutti siamo presi in processi che agiscono su questa dimensione, ma anche comprendere che qui possiamo trovare la forza necessaria per contrastare quei processi.

L’Europa come spazio minimo di lotta e movimento

Contestiamo il piano di riarmo dell’Unione Europea e contestiamo il vertice NATO che pretende di deciderne i dettagli, spingendo gli Stati Membri ad aumentare la loro spesa militare. Tuttavia, la nostra opposizione deve puntare a rovesciare un’Europa di guerra che va ben oltre il piano di riarmo e incide nella società il suo codice fatto di sfruttamento, autoritarismo, patriarcato, razzismo e devastazione ambientale. Essere parte dell’elaborazione di un discorso e di una pratica di lotta transnazionali ed europei, capaci di guardare l’Europa oltre i suoi confini istituzionali, è parte integrante dell’opposizione alla guerra.

Lo scenario di guerra ha reso per l’ennesima volta evidente come i diritti umani rappresentino oggi un mero strumento retorico che l’Unione Europea ha continuato a sbandierare mentre consentiva che l’Italia facesse dell’Albania un centro di detenzione per migranti, stabiliva liste dei paesi “terzi” sicuri in cui deportarli, continuava a fare accordi con lo Stato genocidario di Israele. I governi sovranisti promuovono politiche esplicitamente neoautoritarie che colpiscono direttamente l’involucro formale democratico: Stato di diritto, pluralismo, libertà di informazione, separazione dei poteri.

La torsione autoritaria, tuttavia, riguarda tutti i governi europei, in forme diverse, anche i più “democratici”, e si incarna in misure razziste, patriarcali e in un militarismo che punta a imporre un presente di povertà, sfruttamento e a chiudere ogni spazio di opposizione e lotta.

Questa erosione della democrazia è il segno di un cambiamento epocale che attraversa tutti gli Stati e ovunque spinge ad un nuovo protagonismo gli organi esecutivi sopra i parlamenti, inserisce i governi dentro reti di rapporti e decisioni sovranazionali in cui i loro spazi di manovra sono sempre più limitati, limita gli spazi di movimento e di libertà rinforzando comando e obbedienza. Non tifiamo per il tanto peggio tanto meglio, né crediamo che ciò che fanno i governi sia indifferente. Ma sappiamo che non sarà resuscitando la rappresentanza democratica e neanche un’ipotetica Europa dei diritti che possiamo conquistare una nuova politica di liberazione. Questo non significa che dobbiamo smettere di pretendere dalle istituzioni, nazionali ed europee, ciò di cui abbiamo bisogno, rivendicando spazi di libertà e di giustizia, ma che dobbiamo organizzare la nostra forza oltre quello, per prendere di più di quanto esse sono disposte o possono darci.

Alla sterile opposizione tra europeisti e non europeisti rispondiamo dicendo che dobbiamo organizzarci necessariamente dentro a questa Europa, sapendo che lo dobbiamo fare contro di essa e anche oltre i suoi confini istituzionali.

Oltre il riarmo

Con il piano ReArm Europe il peso della guerra entrerà ancora più direttamente nei bilanci e nelle politiche della Commissione Europea e degli Stati Membri, per quanto con ritmi e intensità differenti tra i diversi paesi. Ma la folle corsa agli armamenti, che il piano vuole accelerare e finanziare, non ha semplicemente la funzione di preparare l’Unione Europea all’allargamento dello scontro militare già mondiale. Certo, i piani di riarmo producono strumenti di guerra e arricchiscono i produttori di armi. Nel suo complesso, tuttavia, il piano ReArm Europe rappresenta soprattutto uno degli strumenti con cui saranno intensificate, su scala europea, politiche di disciplinamento sociale. Dobbiamo essere in grado di leggere il filo che lega ciò che vediamo accadere intorno a noi, il filo che connette condizioni e realtà differenti, per opporvi le nostre connessioni e la nostra organizzazione.

ReArm Europe non è solo un piano industriale militarista che pretende di asservire alla guerra la produzione, la ricerca e le spese sociali degli Stati e i fondi dell’Unione, ma è anche parte di una più generale intensificazione del comando sul lavoro vivo e sulla riproduzione sociale.

Le misure autoritarie e di criminalizzazione che abbiamo visto in Italia con il d.l. Sicurezza, l’attacco alle proteste contro il genocidio a Gaza che abbiamo visto in Germania, la minaccia costante contro i corpi non conformi che si scarica ovunque con violenza contro le soggettività lgbtqia+ – trova l’appoggio esplicito di governi di Stati europei – il razzismo istituzionale e le politiche di deportazione delle e dei migranti che accomunano le politiche della Commissione e quelle degli Stati europei anche extra UE (si veda l’UK): sono tutti tasselli che compongono il nuovo puzzle europeo segnato dall’inasprimento dello sfruttamento, dalla coazione al lavoro, dalla precarietà come unico orizzonte possibile.

Ma cosa c’è dietro il mostrare i muscoli di Stati e Commissione? Sbaglieremmo a pensare che siano il segno della loro forza, così come sbaglieremmo a pensare che siano il segno di una loro grande debolezza. La crescita del militarismo, il costante richiamo alla sicurezza e l’individuazione di nemici che assumono di volta in volta la faccia di migranti, donne, persone trans, lavoratori e di chiunque mostra comportamenti disallineati dalle università alle periferie, esprime soprattutto la ricerca di nuovi strumenti di disciplina sociale e quindi di coazione al lavoro per garantire i processi di accumulazione dentro un disordine che li mette costantemente a rischio. Da questa prospettiva, la guerra è sia il segno sia l’esito di questo disordine. Ed è in questo campo di tensione che dobbiamo collocarci e conquistare spazio. Questo intendiamo quando diciamo non si tratta di un mero “riarmo”: per lottare contro il riarmo, dobbiamo conquistare la capacità di colpire l’insieme di questi processi. Una capacità di pensiero e di azione. In una parola: riacquisire una capacità di organizzazione che ci è mancata in questi anni.

Come situarsi in questo contesto eterogeneo di guerra?

Uno sciopero contro la guerra

Vogliamo costruire una politica di parte in grado di intrecciare le lotte sul lavoro, sul terreno ecologico, femministe e trasfemministe, la cui frammentazione e chiusura è oggi intensificata dalla guerra, che impone fronti e blocchi. Dobbiamo recuperare e reinventare una capacità di comunicazione tra i soggetti e le realtà organizzate che travalichi i confini e le condizioni differenti, facendone punti di forza e di attacco per articolare un movimento di opposizione alla guerra in grado di affermare la nostra politica di pace e di lotta.

Non partiamo da zero: nonostante tale drammatica situazione, in Italia e nel resto del mondo, migliaia di persone continuano a mobilitarsi contro la guerra in tutte le sue forme, contro la complicità delle istituzioni statali e sovranazionali, a partire dalle mobilitazioni femministe e transfemministe, che per prime hanno legato l’opposizione alla guerra alla lotta contro il patriarcato, contro il razzismo, contro lo sfruttamento e la devastazione ambientale. Queste mobilitazioni mostrano che dietro lo sbigottimento e la paura che la guerra porta con sé cresce, all’interno della società, un sentimento di repulsione e rifiuto della guerra. Tuttavia, più in generale il piano della mobilitazione rimane parziale e frammentato. Non riesce ad andare al di là di un intervento su una singola questione o su un singolo scenario di guerra, restando spesso bloccato su posizioni campiste.

È sempre più urgente aprire un processo di organizzazione in grado di connettere chi oggi lotta contro il razzismo, il sessismo, la devastazione ambientale, la precarietà.

Un processo in grado di fare del piano transnazionale ed europeo un piano di contesa e di scontro che, al rifiuto dell’Europa del riarmo, non contrapponga la dimensione nazionale coi suoi confini. Sciopero perché deve puntare a interrompere i meccanismi di riproduzione della guerra: uno sciopero contro lo sfruttamento, contro la violenza patriarcale e razzista, contro la devastazione ambientale. Ma anche uno sciopero concreto contro le condizioni insopportabili del lavoro contemporaneo, che la guerra aggrava erodendo i salari già bassi con l’inflazione galoppante, comprimendo welfare e ammortizzatori sociali per finanziare le spese militari, contrapponendo lavoro e salute, lavoro e sicurezza, lavoro e sostenibilità ambientale.

Uno sciopero per ricomporre le soggettività del lavoro impoverito e frammentato che negli anni hanno perso capacità di organizzazione, di mobilitazione, di lotta. Uno sciopero sconfinato per conquistare il nostro tempo, il nostro spazio, la nostra libertà. Un processo di accumulo di forza e di capacità che chiamiamo sciopero sociale ecotransfemminista contro la guerra. La parola d’ordine dello sciopero contro la guerra deve attraversare a partire da oggi tutti gli spazi di mobilitazione e di attivazione, deve essere lo spazio di invenzione di una nuova capacità di organizzazione, il volano per la costruzione di linguaggi e discorsi comuni, un grimaldello che sfida i soggetti sindacali, la bussola che ci porti a costruire nuove connessioni attraverso i confini, la possibilità di una convergenza reale tra soggetti, condizioni, movimenti, la forza che spinge oltre i loro limiti tutte le mobilitazioni e le scadenze precostituite.

Costruiamo lo sciopero europeo contro la guerra!

L’immagine di copertina è di Jacopo Clemenzi

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