ITALIA

«Partire da sé per cambiare il mondo». Il transfemminismo nell’epoca delle influencer

Movimenti come Non Una di Meno assegnano un ruolo politico molto importante alla comunicazione, provando a sfruttare le logiche dei social network a proprio vantaggio ma mantenendo sempre una visione critica e controculturale

Fra i movimenti e i soggetti che hanno raccolto l’eredità del mediattivismo digitale sviluppatosi a Genova e dintorni c’è sicuramente Non Una di Meno. L’attenzione alla comunicazione anche “social”, la costruzione di un immaginario altro e più inclusivo, ma soprattutto la critica alle narrazioni dominanti e a come queste in-formino le nostre società sono un tratto distintivo del movimento femminista che ha raggiunto ormai da anni un’importanza globale. Ambra, mediattivista e tra le responsabili della comunicazione di Nudm-Roma, ci racconta le evoluzioni e la complessità di questi aspetti, sempre più intrecciati con nuovo tipo di attivismo che prova a partire dall’io e dai vissuti personali per farsi rivendicazione collettiva.

Media e attivismo: in che relazione stanno, dal tuo punto di vista?

È interessante ricordare che nella Convenzione di Istanbul, siglata nel 2011, c’è l’articolo 17 in cui i media vengono sollecitati a utilizzare un linguaggio più attento per prevenire la violenza di genere. Si trattava di una grossa novità, di un ampliamento del discorso. E anche nel Piano di Nudm, rispetto alla questione del legame tra la narrazione mediatica e la violenza, noi partiamo proprio dal fatto che la convenzione di Istanbul abbia rappresentato un passo in avanti sul tema.


Quando, nel 2017, è partito il percorso di Nudm ci è sembrato naturale e necessario utilizzare i social ed essere presenti sui media. A ripensarci oggi, sembra passata un’eternità dal punto di vista della comunicazione: era l’epoca in cui tutti aprivano pagine Facebook ed era molto più semplice di ora ottenere likes, follower e avere un riscontro. Allora, la pagina di Nudm ci serviva principalmente come megafono, per lanciare la manifestazione che ci sarebbe stata il 26 novembre 2017.


Era, insomma, un modo per dire “ci siamo anche noi!”. Dopo la manifestazione nazionale, infatti, sono nate a livello locale tutta una serie di assemblee, sia cittadine sia territoriali sia trans-territoriali, così come i gruppi di libere soggettività, ciascuna delle quali si è creato il proprio spazio virtuale che tendenzialmente presenta rivendicazioni simili.

Vedi il rischio di un’eccessiva frammentazione o personalizzazione?

Esiste la trappola del cosiddetto brand feminism, per cui le rivendicazioni vengono svuotate di contenuto e il concetto di “femminismo” si utilizza quasi al pari di un marchio, un’etichetta. In questo Instagram gioca oggi un ruolo rilevante: è infatti il social dove molte influencer, anche a partire dalla loro bio, ci tengono a inserire parole come feminist, intersectional, ecc. Però poi nei loro post pubblicano grafiche e rivendicazioni un po’ di facciata, che sembrano davvero dei piccoli rivoli di Freeda.


Ma è la stessa logica di Instagram a incoraggiare dinamiche di questo tipo: il profilo di ogni utente costituisce una sorta di blog personale, in cui tante partono da sé, dalla propria esperienza e dalle violenze che hanno subito (di vario grado e genere: non necessariamente violenze sessuale, ma anche episodi di stalking, catcalling, ecc.). La persona stessa tende dunque a diventare un “marchio”, a brandizzarsi, e il suo profilo Instagram passa a essere un “prodotto” che deve essere mostrato a tutti.

A ogni modo, si tratta di figure e profili che spesso scrivono a Nudm, interagiscono, e che in fin dei conti dicono cose molto condivisibili e hanno la possibilità di farle arrivare a migliaia e migliaia di seguaci.


(immagine di Sofia Cabasino)

Dal nostro punto di vista, dunque, si tratta di un modo utile a far sì che i nostri contenuti vengano diffusi a una platea molto vasta alla quale noi non arriveremmo altrimenti, ma è chiaro che non si può ridurre tutto a uno slogan o a espressioni di facciata. La trappola della sussunzione del movimento femminista e transfemminista da parte del capitalismo delle grandi aziende è sempre alle porte.

Come evitare questa trappola?

Da un lato è normale che i social di Nudm vengano contaminati dalla facilità e dalla velocità di comunicazione che viene utilizzata dagli influencer di Instagram, visto che in un certo senso il loro modo di porsi diventa “legge” su quel social, dall’altro lato però con i nostri contenuti e con i nostri messaggi cerchiamo sempre di stare sul pezzo, di mantenere la barra dritta su certi principi e di esprimere il nostro punto di vista su eventi e ricorrenze che ci sembrano rilevanti da un punto di vista sociale (come la morte di Luana, o la festa della mamma nel segno di una narrazione della maternità, non in forma essenzialista e patriarcale…).


Intanto, credo sia necessario differenziare: i discorsi che rilanciamo sui social Facebook tendono a entrare a far parte del dibattito pubblico, vengono magari ripresi dalla stampa mainstream e spesso gli stessi giornalisti ci contattano su quella canale social pagina per richiederci interviste o commenti. Instagram al contrario ti permette di raggiungere un diverso target audience uditorio. Per esempio a Roma, Nudm ha intrapreso un percorso con la comunità studentesca di molte scuole, che ci scrivono spesso per invitarci a parlare di alcune tematiche che reputano rilevanti. È un tipo di interazione molto diretta per cui loro ci scrivono dicendo «Vorremmo affrontare la questione della violenza nei tribunali, oppure l’estrattivismo, il terricidio, il ddl Zan, ecc.» e invitano le persone a partecipare, sia nelle assemblee d’istituto, oppure con delle piccole dirette Instagram.


Ecco, rispetto a Facebook, Instagram permette allora un tipo di interazione più orizzontale. Spesso, riusciamo a organizzare delle azioni coordinate a livello studentesco proprio con questo social. Garantisce un tipo di diffusione per cui le persone producono contenuti autonomamente, anche grafiche, contenuti audiovisivi etc… cortometraggi o addirittura film che riguardano Nudm.

Sembra quasi una narrazione collettiva che, però, parte dai singoli soggetti…

È proprio il femminismo che ha portato la questione del partire da sé a livello di discorso politico generale. Esperienze come quelle del separatismo degli anni ‘70 nascono perché c’era l’esigenza di stare tra donne e parlare di questioni che molto spesso non si sarebbero potute nominare, anche in presenza di compagni. Nudm non è un gruppo di sole donne, ma accoglie al suo interno anche persone queer, soggettività non-binarie… ascoltare le esperienze personali e le storie di ciascuna di queste soggettività è pure un modo per imparare e per crescere politicamente.


Il contesto attuale è dunque un contesto in cui la pratica del partire da sé è letteralmente esondata dai propri argini più usuali. Ci sono tantissime persone che prendono parola per raccontare un vissuto che non è il mio, né quello di un’altra compagna o un altro compagno ecc… Non è semplice: credo che occorra essere pronti a rimettere in discussione alcuni principi e alcune modalità di azione. In questo senso, come Nudm, cerchiamo di usare una un tipo di comunicazione diversificata e plurale, per includere tutte le differenti visioni che attraversano il movimento.


(foto di Cinzia Barra)

Dopodiché, se da un lato è interessante conoscere così tanti vissuti che parlano spesso di questioni molto concrete e materiali, come violenze, problemi a livello lavorativo, precarietà di vita, esistenziale, problemi all’interno di una relazione di coppia, dall’altro lato il panorama è estremamente frammentato. Si tratta il più delle volte di persone che non partecipano alle assemblee di movimento e quindi non è semplice poi passare dalla narrazione personale alla soggettivazione politica.

In che modo si attua questo passaggio?

Dai tempi degli aedi e dei cantori, c’è sempre stata l’esigenza di raccontare. Nel nostro tempo, i social nascono anche per questo. La tendenza attuale è quella di utilizzare la modalità narrativa per definire se stessi. Sui social, allora, tutto ciò che è raccontarsi ha più efficacia, ottiene automaticamente una maggiore interazione. E questo vale anche per l’attivismo: se un’influencer o un artista famosa o un’attrice prendono parola su un tema avranno quasi sempre più risonanza quello di un soggetto collettivo. Davvero, la modalità di prendere il proprio cartello, andare in piazza, creare il proprio hashtag e il proprio trend e la propria narrazione è diventata ormai di massa: Per ogni evento che accade nel mondo, ognuno sente anche il dovere di metterci la faccia e dire la sua. Anche la protesta ecologista nata con Greta, per certi aspetti, ha seguito traiettorie simili.


Ora, come dicevo prima, una rivendicazione personale non è necessariamente politica. La iper-personalizzazione è un rischio perché spesso porta alla banalizzazione dei contenuti, che passano in grande quantità l’uno dietro l’altro nell’“infosfera”. Eppure, io credo che questa sia una delle sfide principali che devono porsi i movimenti. Il nodo della tecnopolitica sta qua, i social hanno delle regole proprie e in una certa misura occorre adattarsi. D’altronde, ciò che ci si ripeteva anche a Genova era che fosse necessario trovare un modo per stare dentro e contro i media. Da un lato, è fondamentale stare in rete e accogliere le istanze che arrivano da quel contesto, mettersi in relazione con le persone che esprimono delle esigenze nuove …

Allo stesso tempo bisogna cercare di mantenere forte l’elemento delle rivendicazioni: non basta il racconto dell’esistente, ma bisogna puntare a trasformare il reale. Non narriamo solo il mondo: trasformiamolo, cambiamolo, rivoltiamolo.

(immagine di copertina di Ilaria Turini)