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«Ogni luogo è Taksim»: tutti assolti per le proteste del 2013

Rivolta di Gezi: tutti assolti. Le sedici persone accusate di «aver tentato di rovesciare l’assetto istituzionale» durante la protesta anti-governativa del 2013 sono state dichiarate, il 18 febbraio 2020, non colpevoli dal Tribunale di Silivri per “insufficienza di prove”. La realtà è che si è trattato fin da subito di un “processo-farsa”, nel senso più tecnico del termine.

«La ribellione inizia quando non è più possibile fuggire dalla propria vergogna quotidiana»: così scriveva la giornalista e narratrice Ece Temelkuran, una delle prime personalità di spicco a subire la censura di regime e il licenziamento quando stava per iniziare il “giro di vite” erdoğaniano. In Turchia, come lei stessa ribadisce nel suo The Insane and the Melancholy, “ribellione” significa innanzitutto piazza Taksim e Gezi Park, luoghi e al tempo stesso simboli della più importante rivolta recente nel paese, a cui forse solo ieri è stata posta la parola fine.

Tutti assolti. Le sedici persone, tra cui anche l’imprenditore e filantropo Osman Kavala (in carcerazione preventiva da due anni e a rischio ergastolo), accusate di «aver tentato di rovesciare l’assetto istituzionale» durante la protesta anti-governativa del 2013 sono state dichiarate, il 18 febbraio 2020, non colpevoli dal Tribunale di Silivri per “insufficienza di prove”. La realtà è che si è trattato fin da subito di un “processo-farsa”, nel senso più tecnico del termine.

La cosiddetta “rivolta di Gezi” è scoppiata, o meglio è gradualmente cresciuta, a partire dal 28 maggio 2013 nel momento in cui alcuni cittadini si sono opposti allo smantellamento di un piccolo parco a piazza Taksim (che segna l’inizio della via più centrale di Istanbul), che avrebbe dovuto lasciar spazio a un centro commerciale e alcuni edifici di lusso. Da lì – anche grazie a una breve interposizione di un consigliere comunale dell’hdp – si è creata una acampada all’interno del parco di Gezi che sarebbe andata ingrossandosi giorno per giorno e che avrebbe di lì a poco scatenato la sproporzionata reazione delle forze dell’ordine: gas lacrimogeni, cariche, arresti arbitrari e infiltrazioni fra i manifestanti hanno caratterizzato uno scontro fra “società civile” (inaspettatamente politicizzata) e governo che forse per la prima volta metteva in luce l’aspetto autoritario e criminale del potere di Erdoğan (allora al suo terzo mandato come Primo Ministro della Turchia).

È chiaro che quella di Gezi non è mai stata una protesta di natura ecologista per la salvaguardia di un parco pubblico. Al contrario, si è trattato di una “battaglia” (durata mesi ed estesasi a tutto il paese) per una reale partecipazione popolare alle decisioni collettive, non da ultimo quelle su spazi urbani che già avevano un alto valore simbolico (piazza Taksim era un ritrovo comune per cortei e proteste, anche molto conflittuali come le celebrazioni del Primo Maggio), per una riappropriazione “creativa” di luoghi ed edifici (è proprio in questo periodo che nascono alcune occupazioni, poi smantellate, come il “Don Quixote” nel quartiere Kadiköy a Istanbul) e, ovviamente, per esprimere un disagio per l’avanzamento di provvedimenti economici di stampo neo-liberista in Turchia e contro politiche sociali escludenti. Anzi, il lascito più importante dell’esperienza di Gezi è forse dato proprio dalla sua (sorprendente) trasversalità e inclusività: a pieno titolo vi hanno preso parte attivisti lgbt, musulmani, curdi, kemalisti, esponenti della comunità trans, anarchici, sindacati, intellettuali e disoccupati… E ciò non sulla scorta di una “im-politicità” di fondo o dell’individuazione di obiettivi vaghi ed “ecumenici”, ma – tutto all’opposto – a partire dal riconoscimento di una conflittualità reciproca e di differenze incolmabili. Non è stato raro che durante le manifestazioni di Gezi si verificassero scontri interni ai cortei (spesso con attacchi alla componente curda, la quale veniva però prontamente difesa da altre parti del corteo), ma questi si sono risolti fin da subito in un superamento di alcuni pregiudizi e in prese di consapevolezza ulteriori. Quando si parla di «spirito di Gezi» – come fa Ece Temelkuran nel libro citato in apertura – si parla allora di questo: un processo di crescita trasversale e collettiva, di trasformazione alchemica della “vergogna quotidiana” in un campo di forze e alleanze possibili.

Ecco perché il processo ai sedici partecipanti alle proteste di piazza Taksim è stato una farsa. Perché, più esplicitamente che in altre occasioni, esso intende(va) mettere sotto accusa non tanto delle responsabilità individuali (per le quali non è stata infatti prodotta alcuna “prova sufficiente”) quanto dei meccanismi di dissenso e delle potenzialità sociali invisi al potere di Erdoğan. Vari processi si sono aperti sia durante che nei mesi immediatamente successivi ai fatti di Gezi e tutti sono giunti a sentenze entro il 2015. Quello terminato ieri, invece, prende origine in tutt’altra fase storica e politica: Osman Kalava (al centro di diversi procedimenti giudiziari) fu arrestato a ottobre del 2017 mentre venivano prodotte le oltre 600 pagine delle accuse verificate poi in aula durante le udienze del giugno 2018, luglio 2019 e appunto 18 febbraio 2020. Il punto di partenza di questo processo è dunque il tentativo di golpe di due anni fa: l’ipotesi formulata dagli inquirenti contestava il fatto che le manifestazioni anti-governative del 2013 non rappresentassero degli episodi di protesta spontanea ma, al contrario, un vero e proprio disegno eversivo e opportunamente finanziato da realtà straniere per rovesciare le istituzioni e in particolare l’allora Primo Ministro Recep Tayyip Erdoğan. Una sorta di “preparazione” e sperimentazione di ciò che sarebbe successo il 15 luglio 2016 col tentato colpo di stato, sula quale peraltro vige ancora una totale incertezza nella ricostruzione degli accadimenti.  Per inciso, è stato lo stesso Erdoğan un paio d’anni fa ad avallare pubblicamente una tale tesi.

Sarebbe dunque quantomeno ingenuo considerare le assoluzioni di ieri una vittoria. Si tratta certamente di una buona notizia per gli attivisti e oppositori sotto accusa, anche se Osman Kavala resterà molto probabilmente in carcere, visto il suo coinvolgimento in altri procedimenti giudiziari, mentre non è chiaro se i nove imputati che erano fuggiti all’estero e che sono stati giudicati in absentia potranno far ritorno in Turchia senza subire delle conseguenze, ma non significa in alcun modo che sia stato ripristinato un qualche “stato di diritto” nel regime di Erdoğan. Si possono azzardare varie ipotesi circa la sentenza di ieri: è probabile che la Turchia non volesse alzare di troppo il livello dello scontro con l’Unione Europea, in particolare rispetto alla detenzione di Kavala sulla cui legittimità si è espressa negativamente la Cedu; può essere che abbiano giocato fattori relativi al “pantano siriano” in cui Ankara è impegnata oramai da tempo, una situazione in cui Erdoğan sta guadagnando una serie di vittorie strategiche e militari ma attorno a cui forse non riesce più a mobilitare consenso; oppure ancora può sicuramente darsi che la Corte di Silivri abbia riconosciuto l’assurdità delle accuse, anche se è plausibile che la risoluzione dei giudici sia arrivata a partire da considerazioni di convenienza politica e propagandistica.

Comunque, guardando il lato positivo, assieme all’assurdità delle accuse individuale è come se con questa sentenza si fosse affermata anche l’assurdità della lettura storica che il governo vorrebbe dare della rivolta di Gezi: un complotto, una congiura completamente finalizzata a preparare il terreno per il golpe del 2016. Al contrario, la decisione di ieri mostra forse che le mobilitazioni di Gezi rappresentano proprio il “punto-limite” dei tentativi, messi in atto da Erdoğan di interpretare retrospettivamente le manifestazioni di dissenso come “incidenti” architettati ad arte da nemici interni o esterni, più o meno immaginari. Tre milioni di persone in piazza, una rivolta durata quasi un anno e con varie generazioni coinvolte: le proteste del 2013 sono state invece, per la Turchia, l’incubatrice di una nuova identità antagonista.

Oggi, una tale identità ha subito e continua a subire durissimi contraccolpi, tanto che è possibile parlare, appunto, solo di un generico “spirito di Gezi”. Il quale, però e come tutti gli spiriti, ancora si aggira nelle aule di tribunale e dovunque: «Ogni luogo è Taksim», si urlava nel 2013.