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Elezioni in Turchia, la parabola discendente di Erdoğan

La coalizione guidata dal leader del Chp Kemal Kılıçdaroğlu, in cui confluisce anche il “voto curdo”, è in testa ai sondaggi. Un ritratto del paese che il 14 maggio potrebbe cambiare radicalmente, nelle parole del ricercatore Can Evren

Si va verso la fine del potere, ormai ventennale, di Recep Tayyip Erdoğan? Le elezioni turche del prossimo quattordici maggio arrivano in una congiuntura che pare non essere favore al leader dell’Akp: il devastante e tragico terremoto nel sud del paese, oltre a lasciare dietro di sé oltre 50mila morti (cui vanno aggiunti gli oltre 8mila in Siria), ha reso ancora più evidente la corruzione e l’inefficienza che investe una buona parte dell’apparato statale; la spirale inflazionistica poi, aggravata da decisioni monetarie “eterodosse” caldeggiate dallo stesso presidente, approfondisce da ormai un anno la crisi economica che investe la quotidianità della popolazione; senza contare, infine, la disaffezione verso cui tanti e tante sono spinti per via dell’autoritarismo che si è andato intensificando soprattutto dopo le proteste di Gezi Park del 2013, la recrudescenza del conflitto curdo nel 2015 e il tentato colpo di stato del 2016. Per certi versi, dunque, non stupisce che i sondaggi diano in vantaggio la coalizione d’opposizione che vede numerosi partiti, tra cui anche le forze curde dell’Hdp (i cui candidati sono entrati nelle liste del Partito della Sinistra Verde, per non incorrere in limitazioni legali), appoggiare Kemal Kılıçdaroğlu, figura storica del partito laico e di “centro-sinistra” del Chp. Certo, riesce quasi difficile immaginare una Turchia senza Erdoğan e il suo sistema di potere. Ma è altrettanto vero che una prima sconfitta era già avvenuta alle elezioni locali del 2019. Abbiamo parlato con Can Evren, studioso e accademico turco, per farci raccontare i dettagli più significativi di questa “occasione di cambiamento”.  

Le prossime elezioni potrebbe segnare una svolta nella politica turca. Eppure, non sembra esserci una grossa mobilitazione né, fortunatamente, grossi tentativi di repressione…

C’è una calma che potremmo considerare “strana”. Soprattutto da parte dell’opposizione, nel momento in cui si avvicina il momento delle elezioni, c’è sempre la paura che si verifichi un innalzamento della tensione nel tentativo di influenzare l’opinione pubblica. Ma, fin qui, potremmo dire che non si è andati in questa direzione, la situazione generale anzi è alquanto “ordinaria”. Questo credo anche perché, rispetto a prima, i media giocano un ruolo maggiore: si continua chiaramente a fare campagna elettorale con manifestazioni e raduni, ma una parte sempre maggiore della comunicazione politica passa tramite i canali mediatici e la propaganda offline.

Ciò detto, la sensazione generale è che questa sia la prima volta in cui Erdoğan può perdere le elezioni (non esattamente la prima, se consideriamo anche le elezioni municipali del 2019). Il tutto all’interno di una sensazione ancora più generale di un progressivo decadimento del potere dell’Akp, che è andato consumandosi negli ultimi anni. Da questo punto di vista, l’opposizione sta facendo un buon lavoro nel cercare di mantenere calma e unità. Cosa per nulla scontata, dal momento che quella che chiamiamo “opposizione” è appunto una coalizione molto ampia e frammentata al suo interno, con una miriadi de partiti più grandi e più piccoli con diversi orientamenti che però sono riusciti sin qui a coordinarsi, per quanto si siano verificate delle “piccole crisi”.

Si tratta di una sorpresa, e credo lo sia anche per Erdoğan che invece scommetteva proprio sull’implosione o sulla divisione della coalizione che sarebbe andato a sfidarlo. Ma c’è un’altra ragione per cui penso che il clima che precede le elezioni sia più tranquillo di quanto ci si potrebbe aspettare, ed è dato dal fatto che il momento del voto è stato anticipato. In origine, si sarebbe dovuti infatti andare alle urne a fine giugno ma Erdoğan si è visto costretto a fissarle per la metà di maggio per non correre il rischio di incappare in qualche contestazione di natura costituzionale che gli impedisse di candidarsi. Insomma, si è entrati nella corsa elettorale in maniera molto brusca, senza che nessuno avesse il tempo di mettere in atto grandi piani per influenzare l’opinione pubblica o “boicottare” le manovre della parte opposta (ciò detto, è bene ricordare che ci sono comunque stati arresti nelle zone dell’est curdo, qualcosa che purtroppo avviene in maniera strutturale nelle dinamiche politiche della Turchia).

Allo stesso tempo, è difficile immaginare che Erdoğan accetti semplicemente un risultato elettorale sfavorevole e lasci la guida del paese senza colpo ferire…

Ovviamente entriamo nel campo delle ipotesi. Io penso che le prospettiva per cui Erdoğan si aggrapperà in tutti i modi al potere sia tutt’altro che certa. Ci sono alcuni segnali che lo indicano: innanzitutto, anche se può apparire secondario, il leader dell’Akp non è in buone condizioni di salute da ormai qualche anno (lo abbiamo visto ultimamente anche col malore che lo ha colpito durante una diretta televisiva); c’è poi in generale una sensazione che aleggia non solo negli ambienti dell’opposizione, ovviamente, ma anche dentro i circoli più “razionali” dello stesso partito al potere e anche in buona parte della cittadinanza che Erdoğan abbia ormai “fatto il suo tempo”. 

Inoltre, se anche assumessimo che da parte sua abbia un “piano” per ribaltare un eventuale risultato elettorale sfavorevole, potremmo ugualmente dire che le sua capacità di metterlo in atto sono sempre minori. Gli servirebbe infatti un sostegno da parte delle élite burocratiche, del sistema giudiziario, un sostegno popolare e un buon grado di coordinazione fra tutti questi elementi – cosa che è invece in netto declino. Ci sono, è vero, dei “gangli” dell’apparato statale che Erdoğan potrebbe facilmente controllare, ma non in maniera così profonda ed efficace. Lo dico sulla base di segnali che è possibile osservare: due mesi fa, per esempio, il leader dell’Akp ha provato a porre pressione sulla Corte Costituzionale affinché imponesse la chiusura dell’Hdp, sulla base di presunti finanzialmenti illeciti, ma la Corte Costituzionale si è opposta affermando di non aver riscontrato alcuna prova di violazione della legge da parte del partito curdo. Similmente, molti degli accademici che nel 2016 erano stati licenziati dall’università per via della repressione che seguiva il tentato colpo di stato stanno riacquistando il proprio posto di lavoro grazie alla decisione della Corte Suprema.

Insomma, ci sono molti piccoli segnali che indicano una minore presa di Erdoğan sul sistema di potere. È vero: controlla la polizia, elemento molto importante. Tuttavia il Ministro dell’Interno Süleyman Soylu, a cui la polizia fa riferimento, si trova da un po’ di tempo sotto una pessima luce per via di accuse di traffico di droga. Così come sono circolati molti video di membri dell’Akp che fumavano cocaina, magari a bordo di auto di lusso: immagini che, al di là delle ideologie, provocano una forte disaffezione presso la cittadinanza.

A fronte di tutto questo, che tipo di visione politica esprime la coalizione diKemal Kılıçdaroğlu?

Da un punto di vista ideologico-politico, potremmo definire la coalizione una forza “centrista”. Ma l’idea principale che tiene i vari partiti e i vari soggetti che si riuniscono sotto la guida di Kılıçdaroğlu – ed è una prospettiva direi condivisa anche da chi, come me, si posizione all’estrema sinistra di questo spettro – è che nei vent’anni di guida Akp del paese, e specialmente negli ultimi dieci, la Turchia è andata incontro a numerosi tipi di declino. Non necessariamente dal punto di vista prettamente ideologico, ma più nel senso di un diffuso fallimento delle istituzioni.

Per esempio prendiamo il sistema scolastico: molti buoni licei pubblici sono stati trasformati in scuole religiose, così come si è intervenuti disastrosamente nel funzionamento delle università statali. Oppure ancora, la Banca Centrale: al di là del dibattito politico (legittimo) su cosa debba o non debba fare la Banca Centrale, l’Akp ha nominato a suo capo persone senza nessuna competenza, anzi con il compito di falsare i dati. Siamo oltre la corruzione, è proprio una dinamica di totale arbitrarietà che ha condotto alla disintegrazione di diversi sistemi istituzionali.

Ecco perché risulta naturale che si formi una coalizione politica che è concorde su un punto molto semplice, ovvero che in Turchia debba essere messa in atto una sorta di “riparazione” della sfera pubblica nei suoi vari livelli. Qualcosa che potrebbe essere collocato quasi a un livello “più basso” della dimensione politica, ma che è cionondimeno necessario. Ciò detto, un punto su cui l’opposizione sta molto battendo è chiaramente quello economico: negli ultimi anni in Turchia c’è un grosso problema di alta inflazione, che penalizza molto la classe lavoratrice e invece favorisce alcuni segmenti della classe capitalista (come quella dei proprietari del settore abitativo).

Similmente, mi pare che questa tensione verso la necessità di “riparare” la struttura del paese si estenda anche alla politica estera. Quindi direi che c’è la volontà di ricostituire il dialogo e le relazioni con quelli che sono i tradizionali partner strategici del paese, Unione Europea e Nato, diciamo l’Occidente. Ma non si tratta di un filo-occidentalismo, è più la contrarietà all’atteggiamento di Erdoğan che in politica estera è percepito come troppo avventurista (un atteggiamento che tra l’altro condividi molti quadri del suo partito): un dinamismo eccessivo, una proiezione di grandezza che provoca all’interno crisi inutili.

Si tratta dunque solo di opporsi a Erdoğan?

In generale, si insiste molto sull’idea di liakat, ovvero di merito e di meritocrazia all’interno delle istituzioni come contrapposizione alla corruzione e al clientelismo del sistema di Erdoğan. Come detto, è una visione molto “centrista” che però al momento gode di largo supporto popolare, cosa che non va sottovalutata. Credo comunque che Kılıçdaroğlu abbia fatto un ottimo lavoro nello strutturare una nuova idea di Turchia, vale a dire un’idea di società “anti-polarizzante” che riesce a costruire ponti fra le diversi identità della popolazione. Nelle ultime settimane, la sua comunicazione è stata molto efficace: ha rilasciato diversi video, in qualche modo comparabili per stile alle “Fireside Chats” di Roosvelt degli anni ’30, in cui si rivolge alla nazione in modo molto tranquillo e umile dalla cucina della propria abitazione, che è un’abitazione in tutto e per tutto comune, ordinaria.

Per la prima volta ha posto l’accento sulle sue origine alevite, inoltre. In qualche modo, mi pare che in questo si rifletta anche un certo cambiamento della società: le generazioni più giovani sperimentano divisioni meno acute fra i diversi ambienti, come per esempio fra ambienti secolari e religiosi (che, in alcuni contesti del paese, corrispondono anche a divisioni di classe). Negli ultimi vent’anni si sono date numerose esperienze di coesistenza e reciproca comprensione fra le diverse anime della Turchia. Non dimentichiamoci infine che alcuni candidati della coalizione di Kılıçdaroğlu sono ex-membri dell’Akp e ex-Ministri dei governi di Erdoğan (come Davutoğlu). Aleggia insomma, dal punto di vista politico, un senso di riappacificazione che ovviamente potrebbe essere esteso anche alla questione curda e che, presumo, abbia fra le altre cose spinto i rappresentanti del partito curdo ad appoggiare la coalizione d’opposizione.

A proposito, quali sviluppi intravvedi per quanto riguarda la questione curda?

È chiaro che la questione curda è al centro della politica turca nel suo insieme. Qualsiasi cosa succede nel Kurdistan va influenzare le dinamiche di tutto il paese. Dal mio punto di vista, quanto più la questione diventerà “militarizzata” – vale a dire verrà trattata come un problema di sicurezza – tanto più travalicherà i suoi confini regionali. Ora, l’alleanza fra forze curde e altri partiti di opposizione a Erdoğan, che si è concretizzata con queste elezioni, si è cominciata a costruire con le elezioni municipali del 2019 ma possiamo dire che questa parabola ha come suo orizzonte finale un momento in cui, finalmente, si potranno porre le basi per una risoluzione pacifica della questione curda, per un accordo fra le parti.

Difficile prevedere come questo possa accadere, perché gli interessi e le parti in gioco sono innumerevoli. Alcune di queste parte in gioco, come sappiamo, sono anche armate. Ma si tratta di una questione che la coalizione a un certo punto sarà costretta ad affrontare: i voti che arrivano dalle persone che sostengono l’Hdp ammontano a circa il 13-14% del totale ed è chiaro che la loro base si aspetta un passo deciso in questa direzione. In tal senso, credo che il processo di negoziazione debba essere il più possibile trasparente: il tentativo precedente (che ora sappiamo essersi svolto in realtà a partire dal 2006, se non prima, per poi fallire miseramente nel 2015) non è riuscito anche perché veniva condotto in maniera segreta da membri dell’intelligence e della guerriglia. Il leader dell’Hdp in carcere Selahattin Demirtaş, al contrario, è stato abbastanza chiaro nel dire che in futuro il luogo in cui dev’essere discusso l’accordo per porre fine al conflitto curdo sarà il parlamento.

Non si tratta però solo di trovare un accordo per porre fine al conflitto, ma anche di mettere in campo riforme a favore dei diritti della popolazione curda: farla finita con le limitazioni riguardanti la lingua, per esempio; oppure favorire l’educazione in lingua curda: a questo proposito, è interessante notare come il sindaco di Istanbul Ekrem İmamoğlu, eletto nel 2019 grazie anche al supporto dell’Hdp, ha organizzato a livello municipale dei corsi condotti in curdo. Infine, invertire le politiche autoritarie condotte a livello locale nell’est del paese da parte dell’Akp, con la nomina di commissari governativi al posto dei sindaci regolarmente eletti. Tutto ciò ovviamente significa assumersi dei rischi, ma senza un passo deciso verso la soluzione della questione curda ogni tipo di politica in Turchia sarà una politica limitata e manchevole.

In questo orizzonte di riappacificazione, come si inserisce la divisione fra islamismo e laicità?

Nel discorso politico turco c’è una linea molto sottile, importante, che divide la tolleranza verso la partecipazione alla vita politica da parte di individui di differenti appartenenze religiose e l’islamizzazione delle politiche di governo. Questa linea, se vogliamo una linea di equilibrio, può essere rappresentata da una concezione di “pluralismo democratico”: non c’è nessun problema nel fatto che persone religiose partecipino alla vita politica con le proprie idee e con le proprie convinzioni anche di natura religiosa, nella misura in cui però le regole di questa partecipazione non devono essere determinate da principi religiosi.

È una linea di equilibrio che è stata oltrepassata numerose volte, sia dalle forze più islamiste che da quelle più laiciste e secolari. Si sono perse molte sfumature, al punto che anche la retorica dei partiti di opposizione a Erdoğan è diventata talvolta anti-religiosa, cosa che chiaramente ha provocato delle controreazione sull’altro versante. Ma ora credo che, dopo un processo anche di graduale miglioramento basato sui precedenti errori, ci troviamo in un momento favorevole alla ricomposizione della linea di frattura fra parte della società laica o laicista e quella più religiosa o islamica.

In questo senso, penso anche che Kılıçdaroğlu si muova con l’intenzione di preparare il terreno affinché, vinte le elezioni, possa presentarsi alla cittadinanza come presidente superpartes, come una figura che appunto favorisca un graduale processo di riconciliazione lungo i vari assi (questione religiosa, questione curda, ecc.) e soprattutto, dal punti di vista tecnico, un processo di restaurazione del precedente sistema di rappresentanza parlamentare multipartitica (con una delle promesse elettorali che è quella di abbassare la soglia di ingresso al 3%). Insomma, uno scarto radicale rispetto al super-presidenzialismo di Erdoğan che, tra le altre cose, ha oltremodo politicizzato il sistema giudiziario.

Che ruolo stanno giocando i movimenti politici “dal basso”?

Penso che per parlare della situazione in cui versano i movimenti dal basso in Turchia non si possa che partire sottolineando come negli ultimi anni del potere di Erdoğan la repressione si è davvero intensificata in modo radicale. In un certo senso, è molto più forte e pervasiva di quanto lo fosse venti, trenta ma anche quarant’anni fa. Una mia conoscenza, un militante della sinistra rivoluzionaria attiva negli anni ’90, mi racconta spesso di questa differenza: durante, appunto, gli anni ’90 sapevi che se venivi arrestato durante una manifestazione di piazza saresti stato torturato dalla polizia, ma anche con buona probabilità rilasciato nel giro di alcuni giorni; ora, invece, è più difficile subire torture o trattamenti inumani, ma puoi essere messo in prigione per un periodo indefinito anche solo perché hai espresso qualche posizione anti-governativa sui social media.

Quello che ha indebolito tantissimo i movimenti è innanzitutto l’arbitrarietà con cui è stata condotta la repressione poliziesca. Ovviamente ci sono tanti individui attivi e disposti a rischiare. Ma, affinché un movimento politico o sociale possa raggiungere una dimensione di massa, ci dev’essere una sorta di sensazione di “prevedibilità”, di garanzia di alcune procedure. Pensa ai sindacati più radicali: se, come succede ora, qualsiasi persona che decida di unirsi a un sindacato subisce automaticamente delle ripercussioni giudiziarie, senza che questo abbia alcuna conseguenza per i datori di lavoro, è chiaro che l’organizzazione di massa finisce per essere difficilissima, praticamente impossibile.

Ecco perché tantissimi movimenti dal basso che si sono creati negli ultimi tempi, dai sindacati alle donne, dai gruppi Lgbt alle forze curde, hanno interesse a fare in modo che il potere di Erdoğan semplicemente non ci sia più. Ed è per questo che si sono uniti attorno alla coalizione che sta sfidando il leader dell’Akp: perché ci sono davvero poche possibilità di esistere e avere agibilità politica come movimento fintanto che un minimo di garanzie giuridiche e democratiche non saranno ripristinate nel paese. Penso dunque che, anche per chi come me si riconosce soprattutto nell’azione politica dal basso ed extra-istituzionale, ci troviamo in una congiuntura che ci impone di focalizzarci molto sul livello rappresentativo. Senza la distruzione di quel sistema di potere retto da un singolo uomo, che è andato configurandosi negli ultimi tempi in Turchia, non si riuscirebbe nemmeno a discutere di movimenti.

Immagine di copertina da Openverse di astro medya