New York, torna la pena di morte

Non è solo la pena capitale, è tutto il sistema che non funziona

Sono passati cinquant’anni. Era dal 1963 che a New York non veniva eseguita una sentenza capitale. Ed è proprio nella corte di Brooklyn, città nella città tanto osannata per la sua originalità con cui attrae turisti e circuiti culturali e politici alternativi, in cui si è deciso di uccidere ancora. A Ronnell Wilson, 31 anni, verrà fatta l’iniezione letale per aver ucciso due poliziotti sotto copertura, dieci anni fa.

Non appena letta la sentenza gli occhi erano puntati tutti su di lui, Wilson, un giovane afroamericano che è stato impassibile. Non ha mosso un muscolo. Negli ultimi mesi, ha chiesto scusa, ha cercato i famigliari delle vittime. Ma loro non ne hanno voluto sapere: “E’ troppo tardi, deve pagare per i suoi errori”.

C’è qualcosa di mostruoso nel condannare a morte una persona. Ma negli Stati Uniti pare sia una pratica a cui proprio non vogliono rinunciare. Una giustizia in nome di quel moralismo che li fa sentire i migliori e unici depositari della verità. Ma qui di giusto c’è proprio molto poco. Le ingiustizie dettate dai pregiudizi sono all’ordine del giorno. Tanti, troppe persone innocenti sono finite in prigione perché qualcuno li aveva riconosciuti, magari solo dal colore della pelle. E la presunzione di innocenza non vale proprio per nessuno. E’ una spirale da cui è molto complicato uscire.

C’è pure un’aggravante: se si confessa un crimine non commesso, le probabilità di venire scagionati sono pochissime. Nemmeno se c’è una prova del dna. Tantomeno se ci sono 18 persone pronte a testimoniare che eravate con loro proprio il giorno e il momento in cui il crimine è stato commesso. La firma su un pezzo di carta in cui si ammette il coinvolgimento, vale più di qualsiasi altra prova. Eppure nell’era di Csi, o tutti quei polizieschi, con pseudo “eroi” ci sarà una maniera ribaltare la sentenza. Niente di tutto questo, ma c’è un team di avvocati che cerca di aiutare chi è stato condannato ingiustamente. The Innocence Project da oltre 15 anni assiste gratuitamente (anche perché la maggior parte dei loro assistiti non si può permettere un avvocato) e si batte per la loro innocenza. “La maggior parte dei nostri casi riguardano stupri degenerati in omicidi. E’ molto più facile provare che il crimine non è stato commessa da una persona se sulla scena del crimine c’è del dna di qualcun altro”, ha spiegato Peter Neufeld a capo del progetto.

Già ma tante volte i procuratori non vogliono arrendersi nemmeno davanti all’evidenza. Come Michael Mermel, della contea di Lake, che a un giornalista ha spiegato di non volere rivedere il caso perché la vittima (11 anni) ” poteva aver scelto di fare sesso con qualcun altro, prima di essere uccisa”. L’arrestato Juan Rivera, che poi sarà scarcerato, aveva confessato. Una bella firma in cui raccontava come aveva stuprato e ucciso una bambina.

Ma se lui non ha commesso il crimine, perché lo ha ammesso? Bella domanda. E la risposta molte volte è semplice: lo hanno indotto. Il sistema americano permette l’uso della forza durante gli interrogatori. Coercizione e repressione. “Ti possono lasciare ore senza essere assistiti a un avvocato”, manco a dirlo se la prendono con i ceti più bassi. E troppe il volte il colore della pelle è un indizio per i ranger. Come nel caso di Brenton Butler, 15 anni, che è stato arrestato per aver sparato e ucciso una donna. Il ragazzo era stato fermato perché camminava nei paraggi due ore dopo. Il marito lo ha riconosciuto: “E’ stato lui”. Il giovane si è fatto più di dieci anni di prigione prima di essere stato esonerato. Ci sono tanti troppi casi in cui i pregiudizi contano più della realtà. Solo Innocence Project è riuscito a far scarcerare quasi 300 persone. Ma per quattro uomini è stato troppo tardi, sono finiti sulla sedia elettrica pur non avendo fatto niente. Tu, chiamala se vuoi giustizia.

New York, 23.09.2013