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OPINIONI

Musei per raccontare il colonialismo

Una panoramica su esposizioni e collezioni che raccontano il passato coloniale europeo e italiano, tra restituzioni e tentativi di reinventarsi. Lunedì 12 alle 18.30 la tavola rotonda sul colonialismo italiano organizzata da DINAMOpress

La studiosa Nélia Dias ha riflettuto a lungo su cosa renda un museo “coloniale”: se le modalità di ostensione dell’oggetto, la natura delle collezioni o la loro provenienza geografica, riconoscendo però, prima di ogni altra cosa, il termine “coloniale” come distintivo di una situazione storia e politica precisa. Da sempre, del resto, sono le istanze politiche, sociali ed economiche che modellano i musei, le loro collezioni e allestimenti. Musei coloniali europei per eccellenza erano, ad esempio, il Musée du Congo Belge di Tervuren, nei sobborghi di Bruxelles (oggi Africa Museum) e il Musée d’Ethnographie du Trocadéro, poi Musée de l’Homme, le cui collezioni etnografiche (separate da quelle antropologiche, rimaste invece al Palais de Chaillot) si trovano oggi al Musée du Quai Branly di Parigi. Oggi, che non esistono più stati coloniali e colonie, viene spontaneo chiedersi, esiste (o può esistere) un “museo post-coloniale”?

 

Il Musée du Quai Branly di Parigi e il problema delle “restituzioni”

Il 12 giugno 2020 l’attivista congolese Mwazulu Diyabanza ha prelevato una stele funeraria dall’allestimento del Musée du Quai Branly di Parigi, cercando di recarsi verso l’uscita, dichiarandosi intenzionato a «recuperare quello che ci appartiene». Si tratta dell’ennesima rivendicazione, forse ad oggi la più spettacolare, legata all’intenso dibattito sui musei europei (e sul modello espositivo occidentale in generale) e la loro pesante, ambigua e controversa eredità coloniale; una discussione che pur andando avanti da decenni – ad esempio riguardo la museologia di collaborazione in Nord America durante gli anni Novanta e la restituzione dei resti umani – si è intensificata negli ultimi anni.

Nel novembre 2017, in occasione di un discorso presso l’Università di Ouagadougou in Burkina Faso, il presidente francese Macron ha dichiarato di voler invertire il comportamento sino ad allora tenuto dalle istituzioni culturali francesi, procedendo, nell’arco di cinque anni, alla restituzione temporanea o definitiva del patrimonio culturale africano conservato in Francia. Soltanto l’anno precedente la Francia aveva negato al Benin la restituzione di alcune statue e preziosi trafugati nel 1892 dal colonnello Dodds durante le guerre franco-dahomeane (incluso il trono dorato di Re Béhanzin) e donate al museo di Trocadéro – dalle cui collezioni etnografiche, nel 1995 nasce il Musée du Quay Branly, per volere del Presidente Chirac.

 

Commissionato da Macron, il report Sarr-Savoy del 2018 ha approfondito le possibilità etiche e culturali relative alla circolazione e restituzione di materiali e opere d’arte africane presenti nei musei francesi, individuando con precisione alcuni oggetti del Quai Branly dai quali cominciare l’operazione, ma indicando anche altri musei come detentori di patrimonio culturale ed artistico legato a saccheggi e violenze ai danni delle cosiddette “source nations”. Tra questi il British Museum, l’Africa Museum di Tervuren, il Weltenmuseum di Vienna.

 

Da quando il report Sarr-Savoy è stato reso pubblico sino aoggi solo un oggetto del Quai Branly, proveniente dall’odierno Mali, è stato restituito, sebbene la Francia si sia impegnata formalmente a restituire 26 oggetti al Benin entro il 2021, se il Benin si impegnerà ad assicurare una location “adeguata”. Questo ultimo punto, infatti, viene spesso sollevato dagli “scettici della restituzione” che obiettano sull’idoneità e sicurezza delle strutture espositive dei paesi “di origine” degli oggetti.

Del resto, ed è utile pensarlo proprio in riferimento a questo museo, che conserva oltre 300.000 oggetti di cui soltanto circa 3.000 in esposizione, George Stocking ha chiesto provocatoriamente: «in un contesto in cui almeno il 90% i tutti i campioni etnografici dei musei non sono probabilmente mai neppure stati studiati […], la questione può essere seriamente posta “L’antropologia ha bisogno dei musei?”».

 

Foto di Beatrice Falcucci

 

Il Belgio davanti al suo Museo (e al suo passato)

Per quanto riguarda il museo belga è senza dubbio interessante rilevare come il dibattito intorno alla restituzione di manufatti e reperti si accompagnò fin da subito alla negoziazione per l’indipendenza della colonia congolese, essendo essi intesi dai colonizzati come parte della ricchezza del paese sottratta indebitamente, al pari dei suoi giacimenti minerari.

Nel novembre 2013, il museo ha chiuso per ampi lavori di ristrutturazione, re-inaugurato nel dicembre 2018. Il giorno prima della riapertura, Joseph Kabila, presidente della Repubblica Democratica del Congo, ha dichiarato al quotidiano belga “Le Soir” che il Congo si apprestava a presentare una richiesta ufficiale di restituzione per le opere della collezione dell’Africa Museum. Esemplare a tal proposito il caso della statua in legno (inv. EO.0.0.7943) sottratta dall’esploratore e commerciante belga di gomma e avorio Alexandre Delcommune (1855-1922, la cui documentazione a tema coloniale è conservata presso il Museo stesso, permettendo verifiche e indagini puntuali) al capo di Boma, Ne Kuko, la cui richiesta di restituzione è stata reiterata ben tre volte: nel 1878 da Ne Kuko stesso, dal presidente Mobutu nel 1973 nel corso di un celebre discorso alle Nazioni Unitee,infine, poco prima della riapertura del museo, nel 2016, da un discendente del capo congolese.

 

L’Africa Museum, che ha riaperto a fine 2018, dopo cinque anni di chiusura e oltre 70 milioni di euro di spese per il rinnovo, ha puntato molto sull’utilizzo dell’arte contemporanea come mezzo per offrire una visione post-coloniale del Museo, coinvolgendovi artisti africani come Chéri Samba e Freddy Tshimba. A tali artisti è stato, di fatto, lasciato quasi interamente il compito e il peso di contrastare con le loro opere inserite nel percorso museale la storia, l’architettura e i contenuti di un’istituzione intrinsecamente coloniale e razzista.

 

Sorge spontaneo chiedersi se l’arte contemporanea, con la quale i musei etnografici e coloniali di tutta Europa si sono affrettati a riempire i loro spazi, finanziando residenze, workshop ed eventi e coinvolgendo artisti africani e della diaspora, sia davvero così eloquente,come molti hanno voluto credere, e non sia invece l’ennesimo tentativo (performativo) di dimostrare la bontà di intenti di tali istituzioni europee. Programmi “inclusivi” (curatele, eventi, esposizioni artistiche che coinvolgano le comunità diasporiche e/o indigene) promossi dai musei (post)coloniali, che spesso nascondono un approccio (ancora) asimmetrico, paternalistico e (neo)coloniale.

…e l’Italia?

Se in Europa i principali musei etnografici hanno subito rimodellamenti (si pensi alla recente polemica riguardo la decisione dell’Amsterdam Museum di smettere di utilizzare la dicitura “Golden Age” nelle sue esibizioni) e riallestimenti, in Italia molti musei ospitanti al loro intento collezioni coloniali hanno conservato un allestimento tardo-ottocentesco o primo-novecentesco: oltre ai noti Museo di Antropologia ed Etnologia di Firenze e il Museo Eritreo Vittorio Bottego di Parma, si distinguono anche alcuni meno conosciuti, come ad esempio il Museo Etiope Guglielmo Massaia di Frascati.

In Italia oltre novanta musei (di storia naturale, musei civici, musei di antropologia ed etnologia, musei dell’esercito, musei missionari, musei universitari) ospitavano e ospitano collezioni organiche provenienti dalle ex colonie italiane. E proprio attraverso tali musei, in un numero sorprendentemente consistente se pensiamo alla breve storia coloniale del paese e alla dimensione relativamente piccola dell’impero, gli italiani entrarono in contatto non tanto, o non solo, con le materie prime di quelle terre lontane trasformate dalle industrie italiane, ma con gli oggetti di uso domestico nelle colonie, con gli abiti e le calzature degli indigeni, con le loro armi, i loro utensili, i loro strumenti agricoli, i loro gioielli, i loro paramenti religiosi. Con le loro risorse naturali, la loro flora e la loro fauna, i campioni dei minerali, dei legni, delle fibre vegetali dei territori conquistati. Differenti tipologie di ambienti museali (dal Museo industriale di Torino al Museo Maria Fioroni di Legnago), differenti luoghi (da Asti a Napoli), differenti i temi (l’economia, l’agricoltura, l’etnografia, la zoologia, la botanica), eppure in ciascuno di questi musei, le colonie si ritagliavano il proprio spazio, organiche e funzionali alla storia della nazione.

Tuttavia, un solo museo aspirò a qualificarsi come museo coloniale nazionale, ispirandosi ai già citati modelli europei: il Museo Coloniale di Roma, fondato formalmente nel 1913 e inaugurato nel 1923. Il Museo, fortemente voluto dal Ministero delle Colonie Luigi Federzoni, si configurò come una vera e propria emanazione del Ministero stesso. Nelle sale del Museo bandiere sottratte al nemico si alternavano a oggetti etnografici e reperti naturalistici, teste di rinoceronti e ippopotami, zanne e dipinti disposti senza alcun criterio scientifico: il focus principale, nelle intenzioni dei promotori, era certamente propagandistico.

 

Il Museo Coloniale di Roma, chiuso dal 1971, è oggi in via di riallestimento presso il Museo delle Civiltà (MUCIV) con il nome di “Museo Italo-Africano Ilaria Alpi”. Una nuova apertura che non può non suscitare interrogativi.

 

Prima di tutto si deve riflettere sull’opportunità di identificare nell’ex Museo Coloniale il luogo dove si svolgerebbero relazioni tra l’Italia e il continente africano tout-court tali da giustificare il nome di “Museo Italo-Africano”, quando le collezioni ospitate e le relazioni rappresentate sono di taglio marcatamente imperialistico, molto connotate geograficamente e temporalmente, indissolubilmente legate al colonialismo italiano. Problematica è anche l’intestazione del nuovo museo a Ilaria Alpi, giornalista italiana uccisa in Somalia nel 1994 mentre, lavorando per la TV, indagava sul traffico di rifiuti tossici e di armi che, pare, vedeva ancora una volta coinvolta l’Italia.

La Somalia, le ex colonie, l’Africa, sono così ancora una volta ridotte a sfondo, setting esotico dove sono gli italiani a muoversi, agire, regolare conti tra loro, costruire la propria identità. Viene da chiedersi se non vi fosse neppure un nome tra gli ex sudditi, coloro che nelle colonie vissero, lottarono, morirono, soffrirono, collaborarono e mediarono in oltre sessant’anni di dominio italiano, cui intitolare un museo che, nelle intenzioni dei suoi promotori, dovrebbe favorire il dialogo e le riflessioni in una prospettiva non italocentrica e post-coloniale.

Stabilire quale significato il Museo potrà avere e come potranno essere presentate le sue collezioni in un’epoca in cui le collezioni coloniali vengono altrove disallestite, “restituite” ai (supposti) proprietari e la loro provenienza nascosta con imbarazzo è, del resto, tutt’altro che pacifico.

Barbara Melosh ha sostenuto che i musei posseggano una “voce santificante”, grazie alla quale esercitano una potente influenza sul giudizio dei visitatori nei confronti del contenuto delle esposizioni. Se l’interpretazione di un’eredità non è mai innocente, oggi, più che mai, appare necessario che i musei considerino con grande attenzione i propri contenuti rispetto al periodo coloniale, indagando le modalità di acquisizione degli oggetti che essi contengono, le pratiche espositive e la contestualizzazione che essi offrono al proprio pubblico.

Immagine di copertina: il Museo parigino presenta i manufatti come capolavori artistici, evitando di sottolinearne la storia e le circostanze che ne hanno determinato l’arrivo in Francia, fotografia di Beatrice Falcucci

Immagine nel’articolo:  il nuovo percorso museale a Tervuren prevede di affiancare gli oggetti a video interviste a congolesi e afrodiscendenti che raccontano cosa gli oggetti esposti significhino per loro, fotografia di Beatrice Falcucci

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Questo articolo è parte di una serie sul colonialismo italiano ieri e oggi, argomento di un corso della DINAMOschool. Gli altri articoli sono: Memorie eritree nel Quartiere Africano di Luca Peretti; L’urgenza di decolonizzare l’Europa. Su statue e narrazioni storiche di Valeria Deplano; Note sul colonialismo italiano di Augusto Illuminati.