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ITALIA

Note sul colonialismo italiano

Pubblichiamo un’anticipazione della seconda lezione del corso sul colonialismo italiano di DINAMOpress: il testo ripercorre fugacemente l’epopea coloniale del Belpaese e le sue conseguenze sul panorama sociale e culturale

Il ritardo storico e l’andamento poco trionfale delle conquiste coloniali italiane si riflette nel vissuto soggettivo collettivo, che non è l’identificazione in una razza dominante di signori ma un misto di risentimento per la presunta “ingiustizia” subita e di tardive pulsioni razzistiche e imperiali.

Si comincia con l’impresa coloniale come compensazione per il Risorgimento “mancato” e “tradito” in Alfredo Oriani e si prosegue con l’accoppiata fra conquiste africane e irredentismo delle terre austriache e slave, quindi materialmente con la pulizia etnica dei locali e l’insediamento forzoso di migranti italiani, psicologicamente con la coltivazione del razzismo anti-slavo e anti-arabo.

 

Ovvia e parallela sarà in entrambi i casi la conclusione dopo la sconfitta bellica: il doloroso esodo delle minoranze italiane istriano-dalmate (1943-1946) e dei coloni dall’Africa Orientale Italiana (1941-1943) e dalla Libia (1970).

 

Gli insediamenti di confine e le colonie di popolamento (settler colonialism) producono un tono rivendicativo e afflitto nell’ideologia coloniale italiana, ben diverso dall’arroganza imperiale della fase espansiva anglo-francese e dai precedenti ispano-lusitani nelle Americhe.

Non che il carattere presunto straccione dell’imperialismo italiano e la sua soggettività risentita lo rendessero meno feroce, anzi la brevità dell’esperienza, a tempo ormai scaduto, impose ferree barriere di razza per rendere visibile il privilegio “bianco” e concentrò in tempi stretti l’espropriazione delle terre comuni e la loro assegnazione ai coloni per la coltivazione intensiva.

 

Coloni italiani in partenza dal porto di Genoa. Foto da WikiCommons

 

Il carattere paternalistico del dominio in Tripolitania ed Eritrea dipese dal minore o più graduale insediamento agricolo, mentre la feroce repressione in Cirenaica preparò, con il massacro e l’espulsione dei pastori nomadi, la messa a disposizione delle terre per 30.000 nuovi coloni, che avrebbero dovuto diventare 100.000 a fine ciclo.

 

Gli sventurati avrebbero buttato il sangue a dissodare un terreno infertile con la speranza di riscattare i poderi dopo parecchi anni: ne bastarono due per vedere i primi carri armati inglesi che li fecero sfollare.

 

Sul piano culturale al colonialismo italiano non si accompagnò un significativo “orientalismo” come nel resto d’Europa. Secondario e di riporto è l’orientalismo pittorico, che in Italia è un sottoprodotto del pittoresco romantico e poi del Liberty, così come la variante architettonica neo-moresca dell’eclettismo di fine secolo.

Ci fu un pregevole orientalismo musicale, scisso però da implicazioni coloniali, e i cui esempi più significativi anche a livello internazionale furono le due opere di Puccini, la Butterfly e soprattutto Turandot, con le scene di Galileo Chini.

Controversa malgrado l’autorevole parere di Edward Said – è la questione dell’Aida di Verdi: essa porta visibili tracce dell’impresa coloniale di Suez per cui fu originariamente allestita e ispirò allestimenti e decorazioni esotiche, ma musicalmente ha ben poco a vedere con suggestioni orientalistiche.

 

Manifesto dell’Aida. Fonte WikiCommons

 

Peraltro soldati, coloni e folle plaudenti nel 1911 e 1935 non ascoltavano le musiche orientaleggianti di Puccini e di Richard Strauss, ma cantavano Tripoli bel suol d’amore, sognando la sua prima interprete Gea della Garisenda, che l’intonò nuda avvolta nel tricolore su un palco di Torino, o Faccetta nera, tuttora tristemente popolare, che ebbe l’ambigua sorte di sintetizzare il colonialismo razziale e sessuale e di dispiacere a Mussolini, il cui razzismo, come quello di Hitler, proibiva (in teoria) ogni forma di accoppiamento inter-razziale, sia pure in forme di stupro.

Importante a livello pop, fu invece il film Cabiria di G. Pastrone (1914), con didascalie di D’Annunzio e musica di I. Pizzetti e M. Mazza, mescolava nella trama Salgari e Flaubert, nelle scene saccheggiava l’orientalismo a piene mani e, come il collaboratore-Vate, introduceva la retorica della romanità nelle location da un anno coloniali o sperate tali (la Tunisia). Un film tecnicamente molto influente (soprattutto sul regista statunitense D.W. Griffith), che tuttavia solleticò il pubblico più dal lato avventuroso ed erotico che da quello patriottico.

 

Fiacco e infrequente fu l’orientalismo letterario (potremmo fare il nome solo di Annie Vivanti e dei giovanili anni romani di un D’Annunzio japonisant). Veramente popolari e con parecchio orientalismo di ambientazione e di illustrazioni furono invece i romanzi avventurosi di Salgari, che però… erano esplicitamente anticolonialisti, in particolare contro Inghilterra e Spagna.

 

In assenza di esotismo colto l’esaltazione delle imprese africane si affidava alla retorica romaneggiante delle magniloquenti Canzoni delle Gesta d’Oltremare (1912) di D’Annunzio) che, fra l’altro, ribadivano il nesso fra irredentismo e colonialismo, associando al secondo le invettive contro la Triplice Alleanza, Francesco Giuseppe e i suoi servi croati; il loro verso più bello, desunto da un hadith di Maometto, «il Paradiso è all’ombra delle spade», venne rilanciato dall’autore nelle “radiose giornate” del maggio 1915 e in occasione dell’impresa fiumana, con sconce ingiurie anti-slave.

Del tutto originale e ispirato al razionalismo più audace fu invece l’architettura, che è il capitolo più esplorato della nostra cultura coloniale e che avrebbe dovuto inquadrare fisicamente la formazione dell’uomo nuovo italiano, il settler latino e mediterraneo – ma ne parleremo un’altra volta.

Di grande interesse e parziale originalità sono le motivazioni politiche per l’impresa libica. Il partito socialista si divise sull’operazione libica di Giolitti, spalleggiato dai cattolici agganciati agli interessi del Banco di Roma, sponsor della conquista: l’ala riformista, Bissolati e Bonomi, si schierano a favore, Turati e Treves sono contrari, Nenni e Mussolini promuovono vivaci agitazioni e sono arrestati.

 

Perfetta espressione della coscienza infelice di “sinistra” è il discorso di Pascoli “La Grande Proletaria si è mossa” (Barga, 26 novembre 1911), che riassume tutti i luoghi comuni dell’interventismo umanitario.

 

La lotta di classe non è più fra proletari e borghesi all’interno di ogni paese, ma fra nazioni proletarie popolate di poveri e migranti e nazioni ricche, fra gli ultimi e i primi venuti al banchetto coloniale, spacciato per civilizzazione dei crudeli “Beduini” e di razze negligenti, sulle orme dei Romani, padroni del Mare Nostrum. La colonizzazione risolverà i problemi dell’emigrazione contadina e del Mezzogiorno, affratellando sotto il Tricolore e la disciplina militare «l’artigiano e il campagnolo vicino al conte, al marchese, al duca»[1].

In effetti, a differenza del Corno d’Africa, la Libia (dove ancora non erano stati scoperti il petrolio e il gas e le aspettative agricole erano tutt’altro che ottimali) venne concepita come estensione del territorio metropolitano e sfogo demografico, fondendosi nel settler l’emigrato e il colonizzatore, con tutta la retorica delle vestigia romane e della missione civilizzatrice e le pratiche della sostituzione etnica e di parziale apartheid.

La separazione razziale, perseguita con maggior vigore laddove (AOI) si poneva un problema di whiteness per la presenza preponderante di colonizzati neri e il rischio di unioni interrazziali e di meticciato, fu più limitata in presenza di una società locale molto tradizionalistica (nelle due componenti araba ed ebraica), già di per sé riluttante all’assimilazione.

 

Gea della Garisenda. Foto da WikiCommons

 

Peraltro l’emigrazione italiana spontanea verso l’Africa non si era diretta, prima del 1911, verso le sponde libiche e neppure verso le inospitali colonie del Corno d’Africa, bensì verso la Tunisia, ben presto soffiataci dalla Francia, e verso l’Egitto. A Tunisi e campagne attigue vivevano circa 140.000 italiani e nelle città egiziane 40.000.

In Libia si tentò di costruire una società bianca urbana tenendo ai margini la maggioranza indigena, con la consueta ma non stringente divisione spaziale fra città europea, Medina araba e Hara ebraica, senza riuscire a impedire che la piccola e media borghesia ebraica italianizzata debordasse nei quartieri italiani tripolini intorno corso Sicilia (oggi sciara Omar al-Mukhtar) e che nelle città colonizzatori e colonizzati si mescolassero nel lavoro e si consolidassero zone residenziali miste a Tripoli, Bengasi e Misurata, mentre la colonizzazione agraria sviluppava separatamente villaggi di nuova costruzione italiani e poi anche arabi, proibendo nei primi l’impiego di manodopera libica.

Contrariamente alla cultura feroce e avventurosa della “frontiera” instaurata in Abissinia dopo la conquista del 1935 a spese dei “selvaggi” riottosi, nella Libia “bianca” e “mediterranea” l’Italia cercò di far sentire a casa i suoi coloni, poco agiati – come i petis blancs francesi in Algeria – ma privilegiati rispetto ai colonizzati.

 

Successivamente Italo Balbo tentò qualche esperimento pilota di concessione di cittadinanza di seconda classe ai libici, mirando a scalzare nell’opinione pubblica araba il colonialismo inglese e francese dei confinanti Egitto e Tunisia con propositi geopolitici.

 

Fu avviata una modernizzazione delle infrastrutture e dell’edilizia e una politica del turismo per farne in qualche modo una vetrina concorrenziale dell’italianità coloniale, anche se mancò del tutto una politica di formazione di base. Non furono organizzate università, scarseggiò l’educazione secondaria limitata in genere ai soli italiani, non ci fu alfabetizzazione dei locali e probabilmente neppure dei coloni di recente arrivo così che – caso pressoché unico nella storia del colonialismo – i colonizzati impararono poco e dopo l’indipendenza non mantennero la lingua dei colonizzatori.

All’opposto della strada francese dell’assimilazione subalterna, i libici restarono fuori dalle scuole e, a differenza degli ascari eritrei, fuori dall’arruolamento militare – visti i freschi precedenti di guerriglia. Al massimo vi fu una limitata valorizzazione, spesso a uso folklorico-turistico, delle differenze culturali e un’interessante presenza di trasmissioni in lingua araba da Radio Tripoli.

 

Omaggi pittorici a Gheddafi. Foto da WikiCommons

 

Procedette invece l’integrazione degli ebrei di ceto medio, quelli usciti dalla Hara, soprattutto per opera di Balbo, vecchio sodale degli ebrei ferraresi, che operò in controtendenza alle leggi razziali fra il 1938 e il 1940, anno del suo sospetto abbattimento. Dopo lo scoppio della guerra, la morte di Balbo e l’arrivo dei tedeschi le cose precipitarono e iniziarono gli arresti e i campi di concentramento.

Dopo l’occupazione inglese, malgrado il sanguinoso pogrom del 1945 che spinse alla Aliyá molti degli ebrei poveri della Hara, i rimasti costituirono la parte più ricca e acculturata della residua presenza “europea” nelle scuole e nella vita cittadina, dominando al 90% il commercio prima della scoperta del petrolio e del riaccendersi dei contrasti con il nazionalismo arabo che portò progressivamente alla loro emarginazione ed espulsione nel 1956-1967, poco prima della cacciata gheddafiana loro e degli italiani “latini”.

 

 

[1] Cfr. il padre dell’imperialismo giapponese, Kita Ikki, che nel 1924 scriveva: «Come la lotta di classe all’interno di una nazione mira al riequilibrio delle ineguaglianze, così la guerra tra le nazioni per una giusta causa riformerà le presenti ingiuste distinzioni. L’impero britannico è un miliardario con ricchezze su tutto il globo; la Russia è un grande proprietario terriero che occupa gran parte della metà settentrionale del mondo. Il Giappone, con le sue isole frastagliate, è il proletariato, e ha tutto il diritto di dichiarare guerra alle grandi potenze monopolistiche. Se è accettabile che le classi lavoratrici si uniscano per abbattere con un bagno di sangue un ingiusto dominio, si dovrebbe allora incondizionatamente approvare il Giappone che rafforza il suo esercito e la sua marina e combatte per modificare frontiere internazionali ingiuste».

 

Augusto Illuminati è uno degli organizzatori (e sarà relatore della seconda lezione) del corso sul colonialismo italiano di DINAMOpress

In copertina, fotogramma da Cabiria