editoriale

Una flottiglia di ‘scalcagnati’

Una flottiglia di ‘scalcagnati’ – così come definita da Salvini. Un progetto composto da diverse realtà politiche e sociali prima di tutto per riprendere parola ed essere presenti nel Mediterraneo centrale

Ieri la flotta Mediterranea si è riunita in mare, al largo, nel Mediterraneo centrale. Lì, dove per settimane non c’è stata più nessuna nave, oggi ci sono la Mare Jonio, il rimorchiatore adibito per eventuali salvataggi, le due golette di appoggio Burlesque e Jana, e l’Astral, la barca a vela della Ong Open Arms.

Questa ‘flotta’ compone l’operazione Mediterranea, un progetto nato dopo la campagna di criminalizzazione delle Ong e dei salvataggi in mare, per tornare a solcare quelle acque, dove i barconi continuano ad esserci, e, o vengono riportati in Libia, o affondano senza che nessuno ne sappia nulla. Corpi senza nome che arrivano morti sulle coste balneari italiane, o corpi dimenticati che rimangono nascosti nei lager libici.

L’operazione Mediterranea nasce dal principio con lo spirito di una flotta: un insieme di realtà politiche e sociali diverse tra loro, per storia, biografie, linguaggi, modi di organizzazione. Eppure, nonostante le difficoltà e le differenze, questa ciurma si è organizzata. E così un partito politico, una ong, grandi e piccole associazioni, un magazine on line, un’impresa sociale, hanno comprato una nave. La nave è diventata una piccola flottiglia con alla guida un ‘armatore sociale’, come si è definito Alessandro Metz, operatore sociale sulla scia del lavoro di Basaglia, oggi armatore di Mediterranea. Come ha spiegato durante la conferenza stampa: «Sono diventato armatore per dimostrare che si può fare, così come abbiamo chiuso i manicomi ieri, oggi possiamo comprare una nave».

Le reazioni alla presa del largo della flotta sono state di varia natura, come era prevedibile e se Salvini la definisce per “sentito dire” la “nave dei centri sociali”, altri accusano l’equipaggio di poca professionalità e di non saper cosa stia facendo. Come se fosse davvero possibile che circa 40 persone che condividono le acque al largo del Mediterraneo centrale, potessero davvero trovarsi lì per caso, per il gusto dell’avventura, mettendo a rischio se stessi senza avere competenze e convinzione di dover agire.

Quello che muove questo progetto non sono quindi solamente le diverse professionalità – il supporto tecnico e logistico di Sea Watch e Open Arms, il lavoro di base delle associazioni e degli operatori legali – ma anche la passione che si è messa in moto, e la necessità di prendere parola, da una prospettiva diversa. Sulle golette ci sono attiviste di spazi sociali attraversati da migliaia di persone, attivi nelle reti antirazziste, avvocate che si battono per il diritto di asilo, mediatori culturali che lavorano da anni con i migranti sul territorio. Sono anni di lotte e di competenze tanto informali quanto concrete, che si sono incrociate su queste navi. La rotta è chiara a tutti.

Per chi rimane a terra, vi è il rischio invece che la prospettiva rimanga la stessa, quella del fuoco incrociato tra differenti opzioni politiche, schiacciate da posizioni di governo ormai esplicitamente razziste, o altre paternaliste e più occupate a non estinguersi. Tutti sono pronti, come spesso accade in questa fase social, a tratti patologica, a dire cosa vi sia di sbagliato in Mediterranea. Eppure, questi primi giorni in mare dell’operazione ci raccontano che ha senso esserci. Mediterranea ha infatti già denunciato che un gommone è stato riportato sulle coste libiche, ancora spavaldamente e in modo irresponsabile definite “porto sicuro”, condannando chi era a bordo a nuove torture o a nuovi, drammatici, rischi per la propria vita. Nella giornata di sabato, un altro gommone è stato avvistato con più di 120 persone a bordo, ma è stata la guardia costiera maltese ad effettuare il soccorso e portare le persone in salvo, il primo salvataggio dopo anni da parte di Malta.

Una nave di ‘scalcagnati’ – così come definita da Salvini – una nave prima di tutto per riprendere parola, per essere lì dove nessun governo europeo vuole navi, dove nessuno vuole occhi, e non vuole braccia. L’operazione Mediterranea ci ha messo questo: vite contro la morte, occhi contro l’indifferenza, braccia contro il rancore. Mediterranea e la sua flottiglia hanno però bisogno di piedi tra le piazze e le strade di questo paese, la rotta è la riconquista di uno spazio vitale, cioè uno spazio dove tutte le vite abbiano pari dignità di essere vissute.

Quello che bisognerebbe fare da terra è mettersi al servizio della riuscita dell’operazione Mediterranea: contribuire economicamente, perché non ci sono grandi finanziatori, ma serve una fitta rete di donazioni; costruire dibattiti e iniziative dove il senso comune di odio venga tradotto in nuovi strumenti linguistici e critici per non soccombere all’indifferenza e al razzismo; scendere nelle piazze nei mesi a venire, moltiplicare i corpi che si rendono visibili nel dissenso, nelle lotte, nella costruzione quotidiana di vite che resistono non solo alla crisi economica ma anche alla barbarie culturale e sociale. Così come ci dimostrano le grandi mobilitazioni da Marsiglia e Riace dello scorso week-end.

Solcare il mare per salvare anche noi stessi, questo il messaggio di Mediterranea che vogliamo condividere. Ma è una sfida, da affrontare insieme e in tant*.

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