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Medio Oriente, da Trump una richiesta di resa ai palestinesi

Donald Trump ha presentato il cosiddetto “Accordo del secolo” per la pace in Medio Oriente. Lo ha fatto martedì scorso dinanzi a un entusiasta Benjamin Netanyahu e a Benny Gantz, leader dell’opposizione che da quasi un anno gli contende il ruolo di primo ministro. Nessuna figura palestinese a fare da controparte in quello che, più esplicitamente, può essere chiamato “Richiesta di resa”. Se di accordo si vuole parlare, allora è un accordo tra suprematisti

Nei giorni precedenti la presentazione del cosiddetto “Accordo del secolo” per la pace in Medio Oriente, Donald Trump e il suo entourage si erano già lasciati andare a commenti a metà tra il ridondante e il presuntuoso, che lasciavano trasparire lo spirito coloniale da voertrekker con il quale trattano la questione palestinese. Di più, l’accordo sembra cucito su misura per tirare la volata elettorale al premier israeliano uscente Benjamin Netanyahu. Di accordo, quindi, si è trattato: quello tra un suprematista bianco e un suprematista ebraico.

I passi compiuti negli ultimi mesi dall’amministrazione Trump per indirizzare l’accordo sono stati vari: il riconoscimento dell’autorità israeliana sulle alture occupate del Golan siriano; l’apertura dell’ambasciata statunitense a Gerusalemme, de facto riconoscendone l’autorità israeliana nella sua interezza; il rifiuto dell’illegalità delle colonie per il diritto internazionale.

I punti nodali dell’accordo ricordano più chiodi sulla bara della questione palestinese: riconoscimento di Gerusalemme quale capitale di Israele; riconoscimento di Israele come Stato ebraico da parte palestinese; rafforzamento del sistema delle bypass roads per collegare Israele alle colonie all’interno del futuro stato palestinese – che rimarrano dove stanno ora; annessione formale della Valle del Giordano e dei blocchi di colonie di Gush Etzion, Ma’ale Adumim e Ariel.

Fonte: https://www.middleeasteye.net

E ai palestinesi? Presto detto: sovranità su una porzione di Gerusalemme Est, capitale di un futuro stato palestinese (punto che stride evidentemente con la cessione di Gerusalemme a Israele); collegamento tra porzioni di un futuro stato palestinese attraverso un complesso sistema di tunnel; cessione di una parte di territorio israeliano a un futuro stato palestinese. Forse la novità rispetto agli “accordi” o “piano di pace” precedenti sta proprio in quest’ultimo punto: nella magnanimità di cedere il 4% del territorio di quella che era la Palestina al futuro stato palestinese, che potrà fregiarsi della sovranità sul 15% dello stesso contro l’11% attuale. E che territorio, poi. La mappa presentata indica innanzitutto due porzioni di deserto del Naqab, a sud della Striscia di Gaza e nei pressi del confine con l’Egitto: per intenderci, un territorio così inospitale da essere quasi disabitato e dove Israele ha costruito una delle più grandi prigioni per persone migranti del mondo, quella di Holot. A queste due porzioni se ne aggiunge una a sud-est delle South Hebron Hills, quasi ad arrivare nei presi di Arad, luogo dove le autorità israeliane stanno pianificando la costruzione un’ulteriore discarica di scarti nucleari prodotti nella centrale di Dimona.

Le bypass roads sono invece una realtà sul terreno da più di vent’anni, con l’obiettivo di tagliare il territorio palestinese della West Bank e permettere di unire le principali città israeliane con le colonie, senza la necessità di attraversare i centri urbani palestinesi. Questo sistema assunse subito la funzione di evitare l’incontro negli spazi tra la popolazione indigena e quella colonizzatrice: un regime di strade separate per rafforzare la dimensione fisica della politica della segregazione, accompagnata da un complesso sistema di permessi per la circolazione e dalla presenza di posti di blocchi permanenti e volanti.

Al contrario, per unire le porzioni di territorio palestinese sono stati costruiti tunnel – quindi in posizione subordinata alle bypass roads: un complesso sistema di isole palestinesi, parafrasando l’architetto Alessandro Petti.

Il tunnel che passa sotto la bypass Road 443 e collega l’enclave di Bir Nabala a Ramallah, Palestina (Simone Ogno)

Non solo, la costruzione di un futuro stato palestinese, ha chiosato Trump, dovrà essere condizionata alla fine della resistenza palestinese, additata come “terrorismo”. In sintesi, un futuro stato palestinese potrà sorgere su alcune isole di terreno all’interno del nuovo stato israeliano, che avrà naturalmente il controllo di tutti i confini, ora ampliati. Insomma, mettere nero su bianco una volta per tutte quella che già è la realtà sul terreno.

Non stupisce quindi che Benjamin Netanyahu abbia accolto l’accordo con un ghigno di soddisfazione: non è un accordo ma una richiesta di resa alla popolazione palestinese, per sancire il compimento del sogno sionista di un “Grande Israele”, come teorizzato da Zeev Jabotinsky più di un secolo fa. In questo, sì, può essere definito l’accordo del secolo: il secolo del compimento dell’ultima impresa coloniale europea, iniziata con i primi gruppi di coloni a fondare Petah Tikvah, nei pressi dell’odierna Tel Aviv.

Il colonialismo, per essere tale, deve assumere una connotazione di separazione, controllo e dominio: lo fece quello statunitense a Turtle Island – come viene chiamato da varie popolazioni native il continente nordamericano – quanto quello afrikaner in Africa meridionale, assumendo il nome di apartheid.

Una cosa è però certa: se l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) si riempirà di vuota retorica, questa pantomima di accordo non sarà ricevuta dalla popolazione palestinese. Le prime proteste sono avvenute in varie parti della West Bank e della diaspora e, se l’ANP non presterà realmente orecchio al rifiuto, rischierà di essere spazzata via da chi non ha più niente da perdere. A quel punto non ci sarà più l’interlocutore fantoccio, il vero elemento normalizzante della questione palestinese insieme agli Accordi di Oslo del 1993. Il regime israeliano sarà esposto una volta per tutte per quello che è.

In una porzione di mondo già martoriata dallo scontro tra differenti imperialismi, da qui alle prossime elezioni israeliane la questione palestinese rischia di essere, ancora una volta, il nodo cruciale che rimette insieme le conseguenze odierne di una spartizione a tavolino, dei confini, del concetto di “stato-nazione”. Come accaduto varie volte nella storia, come tra il 1936 e il 1939, sarà la popolazione palestinese ad avere l’ultima parola: خَلَاص, basta!