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Marichuy costretta a rinunciare alle elezioni presidenziali

La portavoce del Consiglio Nazionale Indigeno non è riuscita ad ottenere le firme necessarie per partecipare alla competizione elettorale. La sfida sarà ora sostenere la mobilitazione che la sua candidatura ha generato in tutto il paese

Si è concluso il tentativo di Maria de Jesus Patricio, comunemente chiamata Marichuy, di presentarsi alle elezioni presidenziali messicane come portavoce del Consiglio Nazionale Indigeno. Troppo forti sono stati gli ostacoli che ha dovuto affrontare all’interno di un sistema politico elettorale pensato per impedire l’avanzamento di qualunque proposta non conforme a quanto è accettato dall’apparato.

Marichuy non è riuscita a raccogliere il numero di firme necessarie alla sua elezione. Va tuttavia ricordato che l’Istituto Nazionale Elettorale (ente sul quale pesano gravi accuse di parzialità) aveva decretato che queste firme dovessero essere raccolte attraverso una app in dotazione a cellulari estremamente avanzati di cui ben pochi, nella classe medio bassa messicana possono disporre. Solo nell’ultima fase della raccolta è stato concesso di svolgerla anche tramite le firme fisiche.

Ma non è stato solo questo l’ostacolo che Marichuy ha affrontato. Il suo viaggio attraverso il Messico ha incontrato pericoli e ostilità di ogni tipo fino a subire pure ad un attacco armato alla sua carovana nello stato di Michoacan, uno dei più divorati dal narcotraffico.

La sfida più grande è stata tuttavia quella di aspirare a poter vincere classismo, razzismo misoginia e ignoranza che l’hanno discriminata, in quanto indigena, in quanto povera e in quanto donna.

La Comandante Esther, nel famoso discorso tenuto al Congresso Federale Messicano alla fine della Marcia del Colore della Terra del 2001 disse queste famose parole “Il mio nome è Esther, ma questo non importa ora. Sono Zapatista, ma neppure questo importa in questo momento. Sono indigena e donna, e questo è l’unica cosa importante adesso”. In poche frasi sintetizzava la piramide della discriminazione nel suo paese, e si rivolgeva al Messico chiedendo di ribaltare quelle dinamiche a partire dal suo essere donna e indigena. Questa piramide è il maggior ostacolo che Marichuy ha coraggiosamente affrontato, con determinazione, capacità e passione.

In un appassionato articolo sul New York Times, Juan Villoro racconta quanto Marichuy rappresenti quel mondo rurale messicano, abbandonato dai vari governi succedutesi al potere e sempre più sfruttato dalla rapacità dell’estrattivismo transnazionale. Per quel mondo indigeno e rurale l’unica speranza di una vita migliore è rappresentata dalla migrazione verso gli Stati Uniti.

Nonostante l’obiettivo mancato non è poco quello che Marichuy ha ottenuto in questi mesi. E’ riuscita a organizzare e dare voce ai tanti popoli indigeni del paese, raccogliere voci attorno a sé, ottenere l’autorganizzazione di persone senza organizzazione, fare rete, far conoscere resistenze ignote ai più e sopratutto dare voce a chi non né ha. Questi obbiettivi, senza alcun dubbio, erano i principali scopi dell’iniziativa stessa, visto che le possibilità concrete di sfidare in modo competitivo i dinosaurici partiti messicani erano nulle fin dall’inizio. Di certo, poter essere accettata come candidata avrebbe dato ampio spazio per poter lavorare per questi obbiettivi anche nei prossimi mesi.

Quale sarà l’eredità politica di questa esperienza e quale strategia bisognerà utilizzare non è chiaro ora e si capirà nei prossimi passi che il Consiglio Nazionale vorrà intraprendere.

Nel frattempo, la corsa verso le elezioni presidenziali inizia ad avvicinarsi, anche se per migliaia di indigeni messicani rimarrà una sceneggiata da guardare con disillusione alla tv.

Foto di apertura tratta dall’album del “Primo Incontro Internazionale Politico Artistico Sportivo e Culturale delle Donne che Lottano” di Tragame Luz, a cura di Maricarmen Tamayo, Adriana Rodrigz y Kathia Loyzaga