approfondimenti

ROMA

“Magnifica San Lorenzo”: i retaker imbiancano i sepolcri

Un’iniziativa congiunta della giunta Raggi e di Retake Roma sul decoro urbano e la legalità a San Lorenzo, che cerca di cancellare la storia del quartiere eludendo i suoi problemi reali – dalla raccolta della spazzatura alla droga

Da alcune settimane nel quartiere di San Lorenzo si svolge Magnifica San Lorenzo, un’iniziativa di Retake Roma presentata a giugno con la sindaca Raggi alla biblioteca di Villa Mercede. Agli angoli delle strade s’incontrano gruppetti di persone con una divisa blu su cui è scritto «cittadino volontario» – scopro che l’iniziativa è finanziata da Hertz e Unicredit, con la partecipazione delle agenzie immobiliari del quartiere. Armati di palette, pennelli, spatole, scope, i volontari Retake si lasciano dietro muri ripuliti, ridipinti, liberati dalle scritte e dagli strati di manifesti incollati uno sopra l’altro.

Un giorno mi sono fermata a chiedere loro cosa stessero facendo. Molte delle operazioni, specie la pulizia delle serrande, sono concordate con i proprietari dei negozi (a cui viene chiesto un contributo). Li ho visti imbiancare il muro della scuola elementare Saffi dove, poco più avanti, era comparso un murale che ritrae la partigiana Tina Costa, commissionato da Patria Socialista e presentato al quartiere insieme all’ANPI. Camminando lungo via dei Sabelli avevo visto l’immagine di Tina Costa prendere forma, prima una chiazza indistinta, poi un volto, infine un braccio teso, il pugno chiuso. Credevo fosse terminato, ma il giorno dopo mi sono accorta che nel pugno chiuso era stata infilata una Costituzione italiana, sotto un motto: «Studiate per la libertà». Ho chiesto in giro come mai fosse così scomparso il pugno chiuso, qualcuno mi ha detto che era stata la volontà del preside della scuola. Ho scritto a Patria Socialista che ha confermato: l’idea di infilare la Costituzione nel suo pugno era stata la loro, si trattava di un compromesso con il preside che minacciava di cancellare il murale. La costituzione, mi hanno detto, «era per Tina Costa ed è per noi un riferimento molto importante, contro la quale un preside di una scuola pubblica non poteva certo scagliarsi».

La mia sensazione che ci fosse qualcosa che non andava era probabilmente influenzata da un altro manifesto che aveva tappezzato San Lorenzo, e Roma, in occasione della giornata del 25 aprile. Il manifesto istituzionale per la Liberazione consisteva quest’anno in un grande tricolore che rifletteva la narrazione ufficiale della ricorrenza da cui è scomparso ogni riferimento alla Resistenza, dunque a ciò da cui l’Italia, anche grazie alla Resistenza, si è “liberata”. Ci avevo visto un’appropriazione da parte della destra al governo di questa data, che si risolveva in un tricolore e in un non meglio precisato momento di orgoglio nazionale. Avevo automaticamente collegato questo manifesto alla vicenda del pugno chiuso di Tina Costa, risolto con una bella Costituzione che tuttavia suggerisce qualcosa di vagamente impreciso da un punto di vista storico, perché nessun partigiano ha liberato l’Italia brandendo la Costituzione, semmai ha reso possibile la sua scrittura.

 

Scorcio via dei Sabelli, in fondo il palazzo bombardato su cui una volta c’era la scritta Eredità del fascismo

 

In inglese whitewashing significa imbiancare ma anche occultare. E l’associazione di pensieri che si era formata in queste giornate camminando per San Lorenzo era che tutto questo rifacimento, tutto questo pullulare di attività, di pulizia, in coincidenza con la comparsa di tutta una serie di murales nuovi, belli, grandi (quelli comparsi sui palazzi bombardati, o quello all’angolo di via dei Piceni – via dei Reti), avveniva in parallelo a un’altra operazione: la riduzione della città alla dimensione della sua visibilità. La cosa che mi ha colpita infatti è che la foto usata per presentare l’iniziativa Magnifica San Lorenzo è stata presa dalla pagina della Libera Repubblica di San Lorenzo. Mostra una distesa di tetti al tramonto ed è stata scattata (peraltro da me) durante una mappatura di San Lorenzo fatta dagli attivisti della Libera dall’alto, entrando nelle case agli ultimi piani e sulle terrazze – qui eravamo sulla terrazza della nostra Germana – che è servita a documentare tutto quello che dalla strada non è visibile – crateri abbandonati a seguito di demolizioni, un palazzo intero costruito all’interno di un cortile, scheletri mai completati, una serie di scempi edilizi che, nonostante la loro relativa “invisibilità”, hanno contribuito a determinare – e a stravolgere – la fisionomia di San Lorenzo. Questo è il tipo di “nesso” su cui la Libera Repubblica ha sempre lavorato, cercando di additare tutte le specifiche responsabilità all’origine dei problemi di San Lorenzo (e finendo per scrivere un libro), non lavorando su un generico quanto vuoto concetto di degrado usato oggi per parlare praticamente di tutto, e di niente.

 

La lotta al degrado, tra confusione e ignoranza 

Il fatto che la rimozione di qualcosa stia avvenendo su più livelli mi è stato confermato dalla storia dei murales recentemente comparsi in giro per il quartiere. Nonostante io credo siano belli, continuo a chiedermi: chi li ha finanziati? E quale funzionario del municipio ha messo in moto questa magica e rapida “rigenerazione”, elargendo permessi per riempire i vuoti, le pareti cieche, i palazzi bombardati, dopo che i comitati hanno trascorso anni seduti ai tavoli della finta partecipazione proponendo un’infinità di progetti puntualmente ignorati? Mi ero chiesta a lungo il significato del murale rosso visibile su via degli Equi, sulla sinistra. Ho scoperto che si trattava di una pubblicità per il lancio di un disco. I murales comparsi sui palazzi bombardati e all’angolo di via dei Piceni sono invece finanziati da società immobiliari che stanno costruendo nel quartiere. C’è un murale piccolino, che si trova su un muro di cinta del cantiere in via Cesare de Lollis 12, luogo in cui sorgerà la Soho House, «una delle più esclusive catene alberghiere del mondo». L’opera si chiama Eden Effect e si ispira «all’Agro Verano – la vasta area di campagna» scomparsa, come sappiamo, sotto un’altrettanta vasta colata di cemento.

 

Edificio di nuova costruzione in via De Lollis 12, miniappartamenti di lusso che si dice la società non riesce ad affittare.

 

Durante una delle mie chiacchierate con i volontari di Retake mi è stato chiesto se per caso vedere le strade pulite non mi avesse provocato una sorta di choc: forse era difficile per me abituarmi ai muri non più imbrattati. Il tono del volontario era persino dolce, premuroso, immaginava mi fossi talmente abituata al “degrado” da non riuscire a farne a meno. Ho risposto che tutto questo bianco io non sono affatto sicura di poterlo interpretare come “bello”, perché è precisamente la totale – o solo apparente – mancanza di collegamento con quanto avviene altrove che io trovo inquietante.

Una delle prima cose che colpisce di Retake è che, al contrario di quello che sostengono, i loro interventi fanno tutto fuorché rispettare i contesti in cui avvengono. Passando davanti al Sally Brown, storico pub in via degli Etruschi, ho notato che erano scomparsi tutti i manifesti ai due lati dell’ingresso – il muro era tappezzato di poster affissi dopo la morte di “Sigaro”, membro della banda Bassotti: un’immagine di lui su sfondo rosso e la scritta «Chi lotta non sarà mai schiavo». Ho chiesto se l’intervento fosse stato concordato e questa volta mi è stato detto di no. Abbiamo parlato delle locandine che avevano appena staccato, ho detto che a mio parere il gestore del locale non avrebbe apprezzato. Si sono mostrati sorpresi, persino dispiaciuti. Una ragazza mi ha spiegato che non tolgono tutto quello che «imbratta» i muri in maniera indiscriminata e cercano di fare, per esempio, una distinzione tra street art e manifesto abusivo. Non ho approfondito quella che probabilmente è la questione centrale, ovvero che la street art è abusiva – quella non pagata dalle società immobiliari – e che la sua recente legittimazione, la sua “legalizzazione”, nella maggioranza dei casi coincide con un suo uso specifico da parte delle amministrazioni, con operazioni di “rifacimento” delle facciate dei palazzi con cui si cerca di attrarre e accompagnare investimenti da parte di privati. Mi sono limitata a replicare che trovo strano il loro modo di porsi, in queste strade che imbiancano: chi sono loro a decidere (e a sapere) il valore di una scritta o di un manifesto?

Stavo chiaramente pensando al brutto episodio accaduto a Garbatella, dove è stata rimossa la scritta storica «Vota Garibaldi», non per errore come si è detto, ma per ignoranza, da una sorta di foga legalitaria che fa tabula rasa di quello che tocca (pochi giorni dopo, infatti, spariva anche il murale a Largo Passamonti dedicato a Valerio Verbano, poi ripristinato). A ogni modo il loro «fine», mi è stato spiegato, è «responsabilizzare i cittadini», fare in modo che si curino e si occupino delle strade in cui vivono o lavorano. Ho risposto che ero molto perplessa, infatti Roma ha la più alta tariffa sui rifiuti urbani dopo Venezia, in un paese in cui l’evasione fiscale si attesta attorno al 25% del Pil, quanto il totale della spesa sociale, sempre in termini di rapporto con il Pil.

 

La scritta Valerio Vive all’uscita della tangenziale

 

Il sociologo Ulrich Beck ha spiegato come la trovata geniale del capitalismo avanzato sia la produzione di un modello di gestione individuale di problemi che sono invece sistemici. In altre parole, quello che non funziona ce lo accolliamo noi. Come è possibile che un sistema collettivo basato sulle tasse non solo non funzioni – Raggi & Co sono riusciti a far chiudere in rosso il bilancio di Ama, la municipalizzata che, pagata di tasca nostra, si occupa della gestione dei rifiuti e del decoro urbano – ma scarichi la responsabilità di chi sta in alto sul singolo cittadino? Un giorno anche gli insegnanti, i medici, gli impiegati comunali stessi saranno forse “volontari”?

In secondo luogo, ho detto che la parola «responsabilizzare» mi infastidisce perché mi pare si tratti di uno sguardo a volo d’uccello, di chi insomma occupa una posizione che è superiore, magari anche distaccata e imparziale, nel giudicare la città, e di chi, soprattutto, sa qual è l’oggetto, il fine, di questa presa di responsabilità, il bene a cui le persone devono essere invitate ad aderire. Il punto, in effetti, non è se sia bene eliminare vecchie scritte oppure no, il punto è che questa discussione semplicemente non ha luogo. Credo che nessuno a San Lorenzo sia contrario al cambiamento; non credo neanche si tratti di ergersi a custodi di un passato andato, una memoria di una immaginaria e idealizzata San Lorenzo che renderebbe i suoi muri intoccabili. Si tratta piuttosto di qualcosa di paradossale nel modo in cui Retake opera, che elimina, sottrae, cancella – non aggiunge, non arricchisce, non significa propriamente nulla – esattamente nei luoghi che dovrebbero essere deputati alla discussione, al dibattito, e al disaccordo, che sono le piazze, le vie, i negozi, i bar, gli angoli delle strade. Mi è stato più volte detto, sottolineato, che Retake è apartitico, in quella che è probabilmente una grande confusione tra partitico e politico, e che riflette bene il sentimento di ostilità e insofferenza tanto in voga oggi per tutto ciò che non può essere risolto con un colpo di spugna. Il “bello” a cui aspira Retake è per questo ideologico, dove per tale s’intende quel modo di procedere che rimuove, che nasconde, i luoghi in cui si creano i nessi, in cui si fabbricano i collegamenti, in cui si producono autoevidenze sprovviste di spiegazione. Sapere cosa è bene per gli altri senza doverlo mettere a tema, senza che vengano messi a tema i meccanismi di decisione di che cos’è è “bene” – per non parlare della confusione che c’è tra bene e bello – è fanatismo, è ideologia; è persino il germe di tutte le distopie, basti pensare al bene platonico “attuato” da una repubblica molto ideale e ben poco democratica.

Questo “bello a tutti i costi” che non interroga i motivi ma si affretta a una rimozione forzata e non concordata con nessuno, fa pensare che questi nessi non meglio esplicitati, e nello specifico il rapporto tra Retake e le istituzioni, siano una forma di aderenza a una politica che è al contrario ben definita, elaborata, che è quella securitaria, che interessa ormai ogni aspetto della “gestione” delle città e non solo. Sebbene con il municipio ci sia un rapporto di collaborazione, con l’amministrazione capitolina le cose sembrano essere più complicate. Quando ho chiesto mi è stato detto che con il comune di Roma c’è un rapporto non tanto di collaborazione quanto di «pressione» – Retake “pungola” l’amministrazione, sebbene non mi sia chiaro quale leva permetta a Retake di “pungolare” gli uffici del Comune. La sindaca d’altro canto, in apertura al suo intervento durante la conferenza stampa di presentazione dell’iniziativa, ringrazia i cittadini volontari, ma ci tiene a sottolineare che è compito dell’amministrazione garantire i servizi e che nessuno può pensare di porsi in «sostituzione» di questa funzione. Eppure, quella che emerge è una convergenza perfetta a livello di indirizzo – e potrebbe darsi che proprio questa perfetta convergenza crei quell’attrito che io almeno ho percepito.

 

 

Per una città a misura di legalità

C’è un articolo online che riassume brevemente la conferenza stampa con cui è stata presentata l’iniziativa, e la logica che la anima. S’intitola «Esperimento di riqualificazione del quartiere più degradato» e in apertura fa un rapido e feroce collegamento tra rifiuti, movida notturna e la morte di Desirée Mariottini, uccisa in una zona considerata «zona franca». Secondo Gabriele Discepoli, a capo dell’organizzazione dell’iniziativa Retake di San Lorenzo, l’obiettivo è di «riportare legalità e rifiutare la prepotenza». L’autore dell’articolo aggiunge: «Parole decisive per i blog antidegrado che sostengono da anni l’importanza della legalità come unico strumento di convivenza civile». A quale legalità si riferiscono? Lo spiega la Raggi: «La Sindaca ha capito che le scritte, gli adesivi, la sosta selvaggia, i bagni nelle fontane non sono problemi minori ma l’origine di molti mali profondi di questa città. Ha citato perfino la teoria delle finestre rotte che è stata per anni il faro dei blog antidegrado».

Probabilmente la sindaca non sa (o forse lo sa benissimo) che la teoria delle finestre rotte è una teoria totalmente infondata secondo cui il degrado percepito provocherebbe l’aumento della criminalità (è una teoria che risale agli anni ’80 e che sta alla base delle politiche di tolleranza zero adottate per la prima volta a New York sotto l’amministrazione Giuliani e ora ampiamente criticate). Di fatto la teoria delle finestre rotte è stata usata per criminalizzare comportamenti individuali ritenuti sgradevoli, mentre il degrado creato dal taglio dei servizi è servito per marginalizzare zone e quartieri che si ritiene siano “irrecuperabili” al fine di dirottare gli investimenti pubblici altrove – teoria, questa che negli Stati Uniti si chiama benign neglect (alla lettera, negligenza benevola). Ciò rende più facile, una volta dichiarata l’inagibilità della zona, attuare tutta una serie di misure per preparare la zona interessata all’investimento privato, alla sua riqualificazione con destinazione d’uso questa volta modificata – turismo, lusso, startup, tutto tranne l’abitare. Si tratta in sostanza di una strategia per legittimare la dismissione del pubblico, di un fallimento provocato, simile a quello che interessa in questo momento la sanità pubblica, o i trasporti, al fine di lasciar avanzare il privato. La strategia di municipal disinvestment (disinvestimento municipale) o di planned shrikage, (ritiro pianificato del pubblico) fu praticata negli Stati Uniti da Nixon nel campo dell’istruzione e dei diritti civili, e rispecchia un approccio neoconservatore che esalta «il libero mercato e un duro codice di moralità sociale e responsabilità individuale». (Sono recentemente usciti due ottimi libri sull’argomento: La buona educazione degli oppressi. Piccola storia del decoro di Wolf Bukowski, e Airbnb città merce Storie di resistenza alla gentrificazione digitale di Sarah Gainsforth, da cui cito).

«Non ci dobbiamo arrendere all’immagine di una San Lorenzo preda del degrado» ha detto la presidente del Municipio Francesca del Bello durante la conferenza stampa di presentazione di Magnifica San Lorenzo. Si tratta di un’accusa ai soliti ignoti – che la Raggi tanto solertemente multa ogni volta che può – quanto dell’ammissione del fallimento delle istituzioni, che si ipotizza possano persino arrendesi anziché governare. Soprattutto, la questione del degrado è immancabilmente presentata come una questione di “immagine” prima che di fondi, servizi, partecipazione.

La contraddizione più grande del sistema-Retake è infatti che si tratta di una forma di “volontariato” (non coniugata sulla dimensione gratuita dell’azione quanto su quella supposta a-politica) che di fatto dispensa il pubblico dallo svolgere il suo ruolo. E dunque su un’idea di cittadinanza ridotta al binomio iniziativa individuale – legalità. Ovvero: nei regimi in cui il pubblico ha smesso di governare l’unica garanzia del buon funzionamento dei meccanismi che inevitabilmente interessano la collettività dipende dalla pervasività della categoria della legalità – strumento che in una democrazia dovrebbe essere preposto non tanto al funzionamento della società in generale quanto alla gestione dei luoghi del fallimento di questa stessa società.

Questa riduzione comporta che si debba tacere di tutto ciò che non è riconducibile a una sfera in cui la norma è “privatizzata”, tutto ciò che non può essere sanzionato. Come ricorda Raggi, origine dei «mali profondi di questa città» sono «le scritte, gli adesivi, la sosta selvaggia, i bagni nelle fontane». Non il fatto che San Lorenzo sia una delle principali piazze di spaccio della città; non la cronica assenza di posti letto nei ricoveri che d’inverno trasforma la zona attorno alla stazione in un dormitorio, nell’attesa che venga dichiarata un’ “emergenza freddo”; non la desertificazione del quartiere che ha visto scomparire la quasi totalità delle attività artigianali per via della mancanza di una politica intesa a salvaguardare il suo tessuto economico; non gli interessi immobiliari che hanno spremuto San Lorenzo fino a renderlo uno dei quartieri più proibitivi di Roma nonostante il “degrado”. E via dicendo.

A seguito della morte di Desirée Mariottini, avvenuta in uno stabile privato abbandonato in attesa di un progetto per case di lusso, sono calate su San Lorenzo pattuglie di finanzieri che hanno finito per multare una libreria, un negozio di scarpe per bambini, la palestra popolare.È stata vietata la vendita di alcolici dopo le ore 21:00. Per ordine della Questura sono stati chiusi locali storici come la Locanda Atlantide, e temporaneamente l’associazione culturale Le Mura. È stato dichiarato l’imminente sgombero del Cinema Palazzo, in piazza dei Sanniti, l’unica del quartiere in cui non c’è spaccio. E via dicendo.

 

Murale realizzato nel 2012 e ripristinato da Retake nel 2019 in occasione della Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne realizzato da Elisa Caracciolo

 

Quartieri-laboratorio

Mi sono trovata a camminare per le strade di Testaccio. Mia sorella ha proposto un aperitivo. L’ho seguita fuori dal locale tenendo il bicchiere di vino in mano. Mi sono fermata di colpo, come stessi varcando un confine invisibile. Poi ho visto le panchine davanti a me, nella piazza, piene di persone che sorseggiavano vino da calici di vetro. Mia sorella ha riso alla mia reazione istintiva, avevo sgranato gli occhi mormorando «ah, qui è permesso».

Mi capita, a volte, di avventurarmi in altri quartieri di Roma e di sentirmi fuori luogo, una “cittadina di serie B”. Mi rendo conto di aver sviluppato una serie di automatismi, di aver introiettato un senso di “normalità” indotto dell’ennesima ordinanza, dell’ennesimo provvedimento antidegrado, dell’ennesima trovata sperimentale dell’amministrazione di turno. Pochi mesi fa sono andata alla discarica con un mio vicino di casa. Abbiamo caricato la macchina prendendo anche le buste di plastica, carta, indifferenziata, che formano cumuli sulle scale in attesa che passi l’Ama. Altri vicini si sono affacciati e ci hanno chiesto se per favore buttavamo anche la loro immondizia, erano giorni che non passava nessuno per il ritiro. Quando siamo arrivati alla discarica, molto lontana, un’operatrice, le mani in vita e lo sguardo torvo, mi ha detto «voi venite da San Lorenzo». Ero basita, come faceva a saperlo? «Qui non le potete buttare queste cose, andate a cercare dei cassonetti».

Chi abita a San Lorenzo vive una situazione di più o meno costante mortificazione. Una serie di piccole e costanti frustrazioni, che provocano altre situazioni di frustrazione (e altre sanzioni). Nel 2018 i netturbini sono stati oggetto di lanci di uova: ed è a comportamenti del genere che la Raggi si riferisce quando introduce ulteriori sanzioni, per chi, per esempio, non usa sacchi trasparenti per la spazzatura, che servono a ispezionarne il contenuto. Sono misure che mettono al centro non i contesti, le situazioni, gli interessi, i fenomeni, ma i comportamenti di singoli cittadini a cui è addossata la disfunzionalità del sistema, comportamenti che sono, in altre parole, criminalizzati. Ci penso quando vado a compare una birra dal ragazzo che mi conosce e che me la vende anche dopo le nove di sera. La infilo velocemente nella borsa, spesso c’è qualcuno che fa da palo, controlla non ci sia polizia in giro, in quella che è a tutti gli effetti la stessa identica scena che si produrrebbe se io stessi tentando di comprare della droga. Io sono una tossica, lui è uno spacciatore, lo immagino agli angoli della strada a mormorare di soppiatto ai passanti «che la vuoi ‘na birra». So che nel mio piccolo sto sperimentando la criminalizzazione che producono, a detta dei critici, tutte le politiche di tolleranza zero.

San Lorenzo non è una periferia. Non ha gli stessi problemi, ma ha qualcosa in comune con le periferie: è un laboratorio. Nello specifico è un laboratorio su come si gestisce la dismissione del pubblico, e l’avanzamento del privato, dei suoi interessi, nei luoghi – materiali – di questo fallimento. Ha in comune con le periferie il fatto che il fallimento ha una sua durata, una sua permanenza – terra di nessuno oggetto di inasprimento, di misure poliziesche. E, parallelamente, di misure di “rigenerazione”, di “decoro”, di “riqualificazione”. Ciò che San Lorenzo ha forse di diverso dalle periferie, ciò che forse la rende particolare, è quanto qui sia evidente che queste due direttrici stiano procedendo in maniera simultanea e parallela.

A San Lorenzo tutto è sperimentale. La raccolta differenziata a San Lorenzo, già sperimentale, è stata dichiarata ufficialmente fallita nel 2017, anno in cui è stato presentato un nuovo progetto per una nuova sperimentazione mai attuata. Il 26 luglio 2019 la Raggi presentava un piano leggermente diverso, ma sempre sperimentale, alla biblioteca di San Lorenzo, insieme a un delegato AMA e a un comico, (sì un comico). Sono dunque trascorsi due anni da quando il modello ancora in vigore è stata dichiarato fallito. Un uomo, mi dicono, ha urlato «io c’ho le blatte in casa!». Molti si chiedono come mai nella maggior parte dei quartieri di Roma esistono ancora i cassonetti, come mai la sperimentazione del sistema porta a porta doveva essere fatta proprio qui e non, per dire, ai Parioli, il quartiere più ricco di Roma, non troppo lontano da  San Lorenzo. Come mai, di nuovo, la Raggi ha insistito per chiudere in rosso il bilancio dell’AMA quando in verità era in attivo – come mai, in altre parole, il fallimento sembra essere rincorso, prodotto in maniera puntuale e costante.

Retake si inserisce in questo contesto. Con un progetto dalla durata di cinque mesi – non concordato, non reso pubblico se non attraverso i social, non discusso, non valutato, non partecipato da chi San Lorenzo la frequenta. Si tratta di un’organizzazione grande, strutturata, (sospetto ricca), non di un manipolo di volontari. Che probabilmente sfida, come sostiene di fare, l’amministrazione. Paladina di una ideologia del “fare” di importazione anglosassone, manageriale, individualista, che ha in odio qualsiasi forma di “complessità” (parola tornata di moda nell’epoca della semplificazione totale). Che è profondamente insofferente all’idea che la città è tenuta insieme da legami e relazioni, non da mattoni e cemento, e che la vivibilità di un quartiere ha poco a che fare con il colore dei suoi muri. Retake promuove l’ideologia del degrado/decoro, quella che alimenta la guerra ai poveri e che, non a caso, si gioca tutta sul piano della visibilità, con azioni spot che hanno il solo scopo di criminalizzare la vita che avviene nelle strade e nelle piazze, la vita di chi è costretto a vivere in queste strade – e la vita di chi occupa palazzi abbandonati pur di avere un tetto sopra la testa – come se queste azioni di rimozione, di eliminazione, di cancellazione e di “abbellimento” avessero davvero il potere di risolvere i problemi e le contraddizioni della città – e non fossero invece operazioni di mero occultamento.  Dell’imbiancatura dei sepolcri ci parlava già Matteo 23, 27.28 – e non era un elogio.