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ROMA

Luoghi ostili e rifugiati non-ucraini. Riflessioni dai ponti di Tiburtina

Dall’inizio del conflitto ucraino circa 116.000 mila persone in fuga dall’Ucraina hanno richiesto la protezione temporanea in Italia, maggiormente donne e bambini. Se il Decreto Ucraina ha deciso di stanziare circa 54 milioni di euro per potenziare il sistema di accoglienza in vista del flusso di ingressi, la violenza istituzionale continua comunque a discriminare in maniera razziale chi era già in attesa di un posto in accoglienza da diversi mesi, ma proveniente da luoghi altri

Se si pensa che le pratiche razziste di confine abbiano riguardato solo la fuga in Polonia, anche il sistema di accoglienza in Italia dimostra che pratiche gerarchiche e confinanti esistono lontano dai contesti belligeranti. All’inizio della guerra non sono infatti passati inosservate le denunce degli studenti afrodiscendenti in fuga dall’Ucraina, costantemente respinti per poter semplicemente prendere un treno diretto verso la Polonia e mettersi in salvo. Coloro che a fatica sono riusciti ad uscire dall’Ucraina hanno visto però che i meccanismi attivati ad accoglierli sono stati altri, ossia i rimpatri. In Italia invece, come dimostrato recentemente da quanto successo a Bergamo, una famiglia sposata in Ucraina, lei di nazionalità ucraina e lui di nazionalità marocchina, ha rischiato di vedersi separata in quando lei meritevole della protezione temporanea mentre lui no, poiché proveniente da un paese ’altro’, seppur scappando dallo stesso conflitto.

Sia chiaro. Questa riflessione non vuole assolutamente diversificare la necessità di aiutare un profugo o un altro, ma semplicemente sottolineare come istituzionalmente la discriminazione sia reale, sottolineando le condizioni di chi, da ben prima del conflitto in Ucraina, aspettava un posto in accoglienza ma continua ad essere soggiogato dalla discrezionalità e delle pratiche di un sistema disegnato per trattare la questione richiedenti asilo in maniera approssimativa ed emergenziale, non tutelando quindi il diritto di asilo ma piuttosto negandolo.

È inizio Maggio 2022. P., dal Sudan, finalmente riesce ad entrare alla Questura di Roma dopo che per mesi il suo appuntamento per finalizzare la richiesta di asilo continua ad essere posticipato. È in Italia da Gennaio, e come ormai prassi consolidata nella Capitale, dal cedolino provvisorio che gli era stato consegnato dal primo ingresso in Questura, all’incirca ogni mese viene segnato a penna una nuova data in cui presentarsi, ignorando quella assegnata in precedenza. Quando finalmente gli ufficiali lo ricevono con la promessa di un posto in accoglienza (senza dimenticare che per legge si ha diritto al trasferimento in un centro di accoglienza sin dalla prima manifestazione di richiesta di asilo, e quindi gennaio) la risposta è: “non c’è posto per te. Ci sono troppe donne e bambini in fuga dall’Ucraina.”

Riparo creato in un piazzale della stazione Tiburtina per rimanere al caldo durante l’inverno. Foto dell’autore

Le pratiche di rimbalzo della Questura non sono nuove, specialmente a Roma, e non sono dunque legate esclusivamente all’emergenza Ucraina. Già nel 2016 diverse associazioni avevano denunciato la prassi di permettere a solo 10 persone di poter entrare in Questura per fare la richiesta d’asilo. Ciononostante, questi comportamenti continuano ad essere utilizzate ancora oggi come nella seguente testimonianza.

F. é in Italia da marzo 2022, arrivato poche settimane dopo l’inizio della guerra: “Ogni giorno dicono domani, domani. I primi giorni avevano chiuso la fila per gli Africani perché c’erano troppi Ucraini. Quando sono riuscito ad entrare non avevo il Green Pass. Ora che ho il Green Pass ci sono troppe persone che dormono fuori dalla Questura e solo i più forti riescono ad entrare la mattina. Fanno entrare solo 10 persone.” Nonostante la testimonianza raccolta risalga ad Aprile 2022, quando esisteva ancora l’obbligo di esibire il certificato verde per poter entrare negli uffici pubblici, ad oggi F. ancora non riesce a manifestare la volontà della richiesta di asilo, girando quindi per Roma senza alcun documento.

Come lui, decine di persone rimangono a dormire ogni sera fuori dalla Questura nella speranza di poter esercitare un loro diritto, ovviamente negato, mentre chi è riuscito ad accedere ed ottenere il primo cedolino utile per finalizzare la richiesta (che non vuol dire ancora ottenimento dell’asilo o del permesso) la strada rimane l’unica alternativa anche quando legittimi di un posto in accoglienza. E nel frattempo dove dormono queste persone?

Per chi vive a Roma e si sposta in auto, in prossimità della stazione Tiburtina è ormai usuale vedere persone che dormono a fianco ai piloni della sopraelevata in prossimità della stazione. Altri ancora rimangono invece più nascosti nei cantieri riattivati negli ultimi mesi per i lavori di rigenerazione dell’area, dormendo in giacigli di fortuna di notte e vagando per la città di giorno, usufruendo magari dei servizi assistenziali quali mense, docce pubbliche, o cercando luoghi in cui poter caricare il cellulare. Se alcuni si vedono costretti a mendicare per racimolare qualcosa, altri invece tirano su qualche soldo aiutando a parcheggiare le auto o pulendo le strade.

Accampamenti rimediati sotto i ponti di Tiburtina, foto dell’autore

Questo è l’esempio di G., in Italia dal 2018. Dopo un paio di anni in attesa dei documenti a Pomezia, in cui le uniche occasioni di lavoro erano pressoché legate alla filiera del caporalato, vede la sua richiesta rifiutata. Con l’aiuto di un avvocato di ufficio riesce comunque ad ottenere un permesso di soggiorno, ma decide di spostarsi a Roma viste le condizioni lavorative offerte. Anche qui purtroppo, la ricerca di un lavoro non va a buon fine vista anche la pandemia, e vivendo in strada senza alcun tipo di supporto le possibilità di uscire dalla marginalità sono poche.

Nonostante l’apparente grado di tollerabilità sotto i ponti di Tiburtina, la situazione è però più complessa e pericolosa di quello che appare. Diversi abitanti di questi luoghi hanno più volte testimoniato che durante la notte degli sconosciuti appiccano dei fuochi a fianco ai rifugi in cui dormono, e tempestivamente domati anche da chi, casualmente, passa nelle vicinanze.

Questa è invece l’esperienza di K. e che, a causa di un problema alle gambe, è costretto all’uso di una sedia a rotelle. Sorvolando il fatto che nonostante la sua evidente vulnerabilità non ci siano state preoccupazioni da parte della Questura nel lasciarlo in strada, ad inizio maggio un suo connazionale di passaggio sotto i ponti è riuscito a vedere l’incendio, ed ha aiutato K. ad alzarsi dal materasso sul quale dormiva, poi spegnendo il fuoco. Chi invece dorme fra i calcinacci dei cantieri aperti rischia di inciampare e mettere il piede su ferraglia esposta, dovendo andare tempestivamente al pronto soccorso per farsi medicare. Altre volte si viene investiti da un’auto, e non sempre l’autista presta soccorso.[1]

Il quadro si fa ancora più complesso se in tutto questo consideriamo anche i famosi respingimenti di Dublino, ossia persone che vengono identificate in Italia tramite impronte digitali e poi ‘scoperte’ in altri Stati Comunitari.

Il meccanismo europeo prevede quindi il rimpatrio in Italia al quale non segue però nessuna forma di welfare come ad esempio un alloggio, soprattutto perché da un punto di vista legale non c’è modo di riuscire a tutelare queste persone, se non i vari sportelli legali dispersi nella città e che offrono servizi gratuiti, forse riuscendo a trovare un posto in qualche CAS (centro di accoglienza straordinaria) nell’hinterland romano, ovviamente se disponibile. Su questo tema fa però riflettere una storica decisione della corte tedesca di non rimpatriare in Italia due ragazzi, un dal Mali e uno dalla Somalia, perché avrebbero potuto incorrere in “trattamenti inumani o degradanti se rimandati in Italia.”

Fuori da questa digressione sugli spazi inospitali e sui meccanismi che riproducono logiche di confinamento e abbandono, il numero di rifugiati Ucraini negli ultimi tre mesi equivale a circa il doppio degli sbarcati in Italia nell’intero 2021. Se il Presidente Mario Draghi plaude agli sforzi fatti finora in materia soprattutto dalla società civile, agli occhi di un lettore con memoria degli anni del Governo Conte I (e del suo Ministro dell’Interno), appare dunque evidente una violenza istituzionale razzista, che non agisce solo come slogan politico (profughi veri e non), ma che diventa una vera narrazione distopica della realtà di un paese in cui le contraddizioni sono ormai palesi, in cui i profughi di serie A e B sono ormai talmente radicati in un tessuto socio-politico europeo che diventano banali. La parola invasione non esiste più.

Non solo. Mentre l’occidentale Europa rifornisce l’Ucraina di armamenti pesanti, accoglie i suoi rifugiati e sanziona la Russia, altri tipi di profughi sembrano completamente scomparsi dal radar del nuovo umanitarianesimo.

Da un lato quindi una narrazione piena di autoreferenzialismo e di diritti umani, dall’altro invece la realtà dei fatti è che se scappi da una guerra ‘altra’, i tuoi diritti smettono di essere legittimi come quelli degli altri, creando quindi dei rifugiati di classe A che scavalcano la fila ed entrano nei centri di accoglienza e dei rifugiati di serie B che invece vengono tranquillamente relegati ad una vita di attese.

Nei prossimi mesi, il Governo Italiano dovrà decidere sul rinnovo dei patti con la Libia, paese ormai noto per i trattamenti degradanti e inumani che continuiamo a finanziare dal 2017 ma che, in un’ottica di confinamento della minaccia migratoria (Africana), hanno comunque senso di esistere.

Dopo l’appello del Papa sulle condizioni di chi vive nei lager libici, aspetteremo quindi una risposta dalla nuova umanità ritrovata in Europa, sperando che questa nuova onda di solidarietà europea riesca ad alimentare il dibattito pubblico e quindi il non rifinanziamento e la creazione di corridoi umanitari sicuri. Su questo fronte, i corridoi attivati durante l’emergenza Afghanistan hanno forse fatto qualche passo in avanti. In attesa di questa data, i profughi di serie B che hanno attraversato il Mediterraneo dopo anni di detenzione e violenze fisiche in Libia continueranno a fare invano la fila in Questura per manifestare un loro diritto. Quello alla vita sotto i ponti.

Nell’immagine di copertina uno dei cantieri aperti in prossimità della stazione Tiburtina, rifugio per diversi richiedenti asilo fuori dall’accoglienza. Foto dell’autore

Tutte le testimonianze raccolte fanno riferimento ad una ricerca di dottorato ancora in corso.

L’autore è dottorando del Politecnico di Torino e attivista di Baobab Experience. Twitter: @lorenzomauloni